Vincenzo Calmeta: differenze tra le versioni

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Alcuni numerosi sonetti attribuiti, con maggiore o minore certezza, al Calmeta, sono stati rinvenuti in diversi manoscritti, e datati approssimativamente agli ultimi anni del XV secolo,<ref name=":11">Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Classe di scienze morali, storiche e filologiche, L'Academia, 1892, pp. 375-377.</ref> altri ai primi del secolo successivo.<ref name=":12">Alcuni componimenti del Calmeta e un codice cinquecentesco poco noto, Franca Ageno, Vol. 13, No. 3 (Luglio-Settembre 1961), pp. 295-315.</ref> I sonetti amorosi parlano tutti di un amore infelice, non corrisposto e non realizzabile. Così per esempio il VII contenuto nel manoscritto Par. It. 1543, dove egli lamenta di non poter sfogare "el martir mio tanto atroce", col rivelare a tutti il proprio desiderio, poiché sarebbe una grave minaccia all'[[onore]] della dedicataria (mantenuta anonima), ragione per cui aveva scelto di soffrire e di tacere il proprio amore: "cussì l'un via a me, l'altra ad te noce, unde pel meglio mi consumo e taccio, e cerco cun mio damno conservarte, perché in te sta de me la meglior parte".<ref name=":12" /> Un altro parla della bellezza e della crudeltà dell'amata, che non lo corrisponde.<ref name=":12" /> In una epistola metrica (di attribuzione anch'essa incerta) parla invece di un amore finalmente corrisposto: un "licito amor" di cui "l'oneste accoglienze siano il frutto", ma precisa che si tratta di una donna di bassa condizione sociale, che infatti non può sposare.<ref name=":12" />
 
Quanto ai ''[[Triumphi di Vincenzo Calmeta|Triumphi]]'', essi iniziano col poeta (Vincenzo) che piange la prematura morte della "sua cara compagna", la duchessa Beatrice, e si esprime addirittura con queste struggenti parole:<ref name=":15">Rassegna critica della letteratura italiana, Volumi 1-2, 1896, E. Percopo, pp. 146-148.</ref>
 
{{Citazione|Tolto m'ha morte el ben,<ref>Da notare che il bene, nella lingua letteraria, significa la persona amata.{{Cita web|url=https://www.dizionario-italiano.it/dizionario-italiano.php?parola=bene|titolo=bène 1|citazione=11 per estensione letterario persona amata: l'amato bene {{!}} il mio bene {{!}}[...]}}</ref> spietata e cruda, {{!}} del qual l'avaro Ciel me fu sì largo, {{!}} lassando nostra età di gloria nuda; e però aver vorrei le luce d'[[Argo Panoptes|Argo]], {{!}} che queste doi mei fonti<ref>I due fonti sono gli occhi</ref> han perso el lume {{!}} per le lacrime amar che ognora spargo. {{!}} Io son qual cigno in sul [[Meandro (fiume)|Meandro]] fiume {{!}} che la propinqua Morte canta e plora {{!}} scotendo spesso le sue bianche piume;<ref>Secondo il mito il cigno, già caro ad Apollo per la soavità del canto, canta ancor più soavemente quando si sente vicino alla morte. Il Meandro è un fiume della Lidia nelle cui acque vivevano molti cigni.</ref> {{!}} over qual [[Filomela|Filomena]] in su l'aurora {{!}} ch'empie di meste note la campagna {{!}} perché l'antiqua offesa ancor l'acora; {{!}} over qual tortorella che se lagna {{!}} in turbida acqua o in arbor senza fronde {{!}} poi che ha perduta sua cara compagna.<ref>Della tortora si dice che "non fa mai fallo al suo compagno, e se l'uno more, l'altro osserva perpetua castità, e non si posa mai su ramo verde e non beve mai acqua chiara", essa è dunque il miglior simbolo di un amore puro, fedele ed eterno.</ref>|Triumphi (I, 10-24)}}
Egli non fa che inveire contro il crudele [[Fato]] e tessere gli elogi della defunta, che è la "chiara luce al mio scuro intellecto" e "del mio ardente cor vera fenice", e invoca addirittura la Morte affinché lo faccia morire al più presto e gli conceda di riposare accanto alle sue "caste ossa":<ref name=":15" />{{Citazione|Pallida [[Morte personificata|Morte]], el tuo furor non temo, {{!}} ché se a felice già foste acra e bruna, {{!}} sareste or dolce a me in tal caso extremo. {{!}} Più de uom che viva qua sotto a la luna {{!}} felice fui, or son sopra la terra {{!}} remasto per exemplo di [[Fortuna]]. {{!}} Tu sola trar mi puoi di tanta guerra: {{!}} vien, sorda! Perché 'l tuo soccorso invoco, {{!}} il colpo acro e funesto in me disserra. {{!}} E tu beato saxo e dolce loco, {{!}} dove reposte son quelle caste ossa {{!}} che m'han per lacrimar già fatto roco, {{!}} perché a mia carne lacerata e scossa {{!}} non concedette per extrema pace {{!}} ivi propinqua la sua eterna fossa? {{!}} Dura terra, orbo mondo e ciel rapace, {{!}} fra voi diviso avete un tanto bene, {{!}} perché d'un loco sol non fu capace [...]|Triumphi (I, 43-60)}}[[File:Ludovico il Moro and Beatrice d'Este.jpg|miniatura|323x323px|[[Cenotafio di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este]], stampa antica.]]Passa poi a una più profonda meditazione sulla miseria umana, sulla [[Fortuna]] e su Dio:<ref name=":15" />
 
{{Citazione|E però spinto da un furore immenso, {{!}} a gridar cominciai con tal furia {{!}} ch'ancora abruscio e tremo quando el penso: {{!}} « O de mortali detestanda iniuria! {{!}} che l'om col proprio pianto quando nasce {{!}} subito ogni miseria e mal s'auguria! {{!}} Al mondo nudo vien, poi delle fasce {{!}} per conservar i membri è avolto e cinto, {{!}} sol con l'altrui mezanità si pasce. {{!}} Gli altri animal tutti hanno el suo d'istinto: {{!}} chi al corso, chi al natar, chi al volo è pronto {{!}} come più e meno da natura è spinto; {{!}} lui in questa valle de miseria gionto, {{!}} inerme e vinto iace mansueto, {{!}} quasi simili ad om che sia defunto. {{!}} Non è suo proprio istinto altro che 'l fleto, {{!}} sol tra tanti animali a pianger nato: {{!}} ah, de nostra natura impio decreto! [...] perché col tempo cresce la malizia, {{!}} la superbia, luxuria, ira e perfidia, {{!}} la ceca ambizione e l'avarizia. {{!}} Gli è ricco: orsù ognun li porta invidia; {{!}} gli è sano: infirmità lo expecta al varco; {{!}} gli è giovene: vechieza ognor lo insidia; {{!}} gli è virtuoso e d'ogni bontà carco: {{!}} sì ben, ma povertà li fa tal guerra {{!}} ch'oltra el dovere è nel suo viver parco. {{!}} Nessun felice mai se trovò in terra; {{!}} dunque l'umana specie è sempre in doglia; {{!}} se nulla è in ciel, chi more è for de guerra.|Triumphi (II, 121-138)}}
 
Nel mezzo di essa interviene la stessa Beatrice, che gli appare per consolarlo e per trarlo fuori dal suo "passato errore":<ref name=":0">{{Cita libro|autore=Vincenzo Calmeta|curatore=Rossella Guberti|titolo=Triumphi|pp=IX-XXIII}}</ref><ref name=":15" />
 
{{Citazione|Misero, perché vai tu consumando {{!}} in pianto amaro i fugitivi giorni, {{!}} la morte ad ora ad ora desiando? {{!}} Deh, non turbare i mei dolci sogiorni! {{!}} Morta non son, ma gionta a meglior vita {{!}} lassando el mondo e soi fallaci scorni. {{!}} E s'io fui sciolta nella età fiorita {{!}} con tuo dolor dal bel carcer terreno, {{!}} tanto più fu felice la partíta, {{!}} ch'è bel morir mentre è el viver sereno.|Vincenzo Calmeta, Triumphi (III, 55-64)}}Il poeta, commosso e sbigottito, le si rivolge allora con questa invocazione:<ref name=":15" />
{{Citazione|''Alma mia diva e mio terrestre sole'', {{!}} parlando e lacrimando alor dissi io, {{!}} ''o quanto el viver senza te mi dole! {{!}} Ché, te perdendo, persi ogni desio, {{!}} tua morte me interruppe ogni speranza, {{!}} né so più dove fermare el pensier mio'' [...]|Triumphi (III, 79-84)}}