Tale impostazione, tuttavia, non fu priva di contraddizioni e illusioni. Innanzitutto, con questo «assolutismo giuridico», come è stato definito dallo storico del diritto [[Paolo Grossi]], si creò una "staticità" del diritto «legata all'autorità della legge intesa come dato oggettivo» difficilmente conciliabile con una società che comunque si trova in costante evoluzione.<ref>{{cita|Del Frate et al., 2018|p. 249}}.</ref><ref>{{cita|Fassò, 2020|p. 19}}.</ref> In secondo luogo, ciò si trattava di una mera utopia, in quanto anche il codice meglio scritto e più completo mai avrebbe potuto essere totalmente autosufficiente a dirimere qualsiasi [[fattispecie]] che un giudice si sarebbe trovato ad affrontare. Per questo, già gli stessi giuristi esegeti francesi finirono per svolgere comunque una sorte di abile interpretazione sulle norme stesse e sulla volontà del legislatore pur sempre senza far ricorso a fonti esterne o al diritto naturale.<ref name=Ascheri288-290>{{cita|Ascheri, 2008|pp. 288-290}}.</ref><ref>{{cita|Del Frate et al., 2018|pp. 247-248}}.</ref>
=== InfluenzaImpatto sulsull'evoluzione del diritto civile italiano ===
{{...|storia|diritto}}
==== DirittoImpatto esul storiadiritto italianacivile dal 1815italiano ====
Passato il Congresso di Vienne nel 1815, la Santa Alleanza (Russia, Prussia, Austria) tentò di ripristinare la situazione politica prima della Rivoluzione Francese. L'Italia fu separata di nuovo in Regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna, Liguria), in Stato Pontificio, Granducato di Toscana e Regno delle Due Sicilie. La Lombardia ed il Veneto furono annesse dall'Austria. L'epoca tra il regime napoleonico e la l'unificazione nel 1861 è caratterizzata da mutamenti sociali e politici, che partirono grazie alla Rivoluzione e che la Restaurazione non poté fermare. Oltre alla repressione del potere nobiliare da parte della borghesia, che ricevette importanza già con Napoleone, in Europa sbocciarono il libero mercato e l'industrializzazione. Con breve ritardo rispetto alla Germania, la Francia e l'Inghilterra, la rivoluzione industriale raggiunse a metà del secolo gli stati dell'Italia Settentrionale. Da un lato furono le leggi liberali del periodo napoleonico a fare in modo che si potesse creare un'economia di mercato, dall'altro lato si dovette riguardare la legislazione civile della Restaurazione per stare al passo dei fenomeni socio-economici che offrica l'industrializzazione.
Il primo periodo dopo il 1815 è caratterizzato da un'enorme passo indietro verso il diritto privato prima del 1796, con una forte impronta clericale e feudalistica. Ad eccezione del Piemonte e dello Stato Pontificio, che praticarono la Restaurazione con più radicalità, i legislatori dell'epoca cercarono di mantenere il diritto di proprietà e d'ipoteca proposto dal ''Code Civil,'' mentre il diritto di famiglia e di successione francese fu bocciato quasi sino all'unificazione. La borghesia liberale, che godè a partire dal 1796 delle prime libertà politiche ed economiche, non fu più in grado di accettare pure la restaurazione del diritto. Nel corso del secolo, oltre alla secolarizzazione del diritto di famiglia, sono sorte altre importanti necessità giuridiche private: l'economia di mercato ha imposto la creazione di nuove leggi sull'acquisizione dei diritti di proprietà e contrattuali. Anche l'industrializzazione ha posto tre sfide giuridiche: in primo luogo, la produzione di macchine e la costruzione di impianti industriali hanno portato a una riorganizzazione dei diritti di vicinato e del diritto fondiario. Inoltre, la produzione di massa aumentò la quantità di capitale in circolazione e gli imprenditori dovettero investire sempre più capitale nella produzione. Le società personali vennero separate dalle grandi società per azioni e il mercato azionario diede vita alle prime grandi borse. Infine, la produzione agricola di massa rese necessaria una riorganizzazione del diritto ipotecario e del credito fondiario
== Note ==
La completa unificazione dell'Italia avvenne il 20 settembre 1870, quando i ''Bersaglieri'' conquistarono Roma. Dopo la guerra d'indipendenza del 1859 e il "Treno dei Mille", quasi tutta l'Italia era sotto un'unica bandiera.[2] Poiché il Regno di Sardegna ebbe un ruolo di primo piano nell'unificazione, il ''codice civile albertino'' fu introdotto negli altri territori fino al 1865, quando apparve il ''Codice Civile'', molto fedele all'ideologia del Codice Napoleonico. L'affetto per il ''Codice Napoleonico'' si riflette nella citazione del giurista Giuseppe Montanelli "''Viva il Regno d'Italia! Viva Vittorio Emanuele re d'Italia! Viva il Codice Napoleone!''"'''''[3]''''' . A partire da questi anni, il Paese fu penetrato dalla rivoluzione industriale e le relative rivendicazioni sociali divennero sempre più evidenti. Negli anni Settanta, il partito socialista ''Sinistra'''[4]''''' ha la maggioranza in parlamento e si fa molta pubblicità per rendere il codice individualista socialmente più accettabile. Tuttavia, proprio come il parlamentare Emilio Bianchi, che nel 1893 fondò una commissione per la modifica del diritto privato, il "''socialismo'' giuridico"[5] non ebbe successo in termini di legislazione. Le riforme riuscirono solo dopo la Prima Guerra Mondiale. Inizialmente, una commissione italiana e una francese lavorarono insieme per riformare il diritto civile esistente in tutti i settori del diritto. Questo lavoro ha influenzato notevolmente il ''Codice Civile'', pubblicato nel 1942. Ci si chiede ora se la versione del ''Codice Civile'' del 1942 abbia assunto significativi tratti fascisti. A parte le disposizioni influenzate dalle leggi razziali (ad esempio il diritto matrimoniale) o dal corporativismo fascista (?), il codice era molto moderno e rimase sostanzialmente intatto nell'ultima Repubblica.[6]
====== Impatto sul diritto di famiglia ======
Dopo il crollo del dominio napoleonico, in Italia furono abolite le norme sul matrimonio civile. In alcuni Stati, come il Piemonte, il Granducato di Toscana e le Sedi Ecclesiastiche, si tornò impietosamente al diritto canonico. In altri Stati si cercò di coinvolgere lo Stato nei matrimoni. Il primo passo in questa direzione fu fatto a Modena: anche se l'ufficio anagrafe non poteva solennizzare il matrimonio, gli sposi dovevano recarsi dall'ufficiale di stato civile prima del matrimonio per ottenere la licenza matrimoniale. Questa legge divenne un modello per Parma e Napoli in quegli anni e caratterizza ancora oggi il diritto matrimoniale italiano. Nella prima metà del XIX secolo gli Stati italiani non miravano a limitare i diritti della Chiesa e intervenivano solo nei casi in cui il diritto matrimoniale canonico non era applicabile, ad esempio per quanto riguarda il diritto di consenso del padre o l'età minima. Il matrimonio civile era ancora vietato, motivo per cui gli ebrei e gli altri non cattolici non potevano sposarsi legalmente. Tuttavia, le richieste liberali per l'uguaglianza giuridica di tutti i cittadini furono alimentate anche dal matrimonio civile. Il primo tentativo fu fatto in Piemonte nel 1850, quando le forze liberali sostituirono il governo conservatore del 1848 e i privilegi giurisdizionali del clero furono limitati. Dopo accesi dibattiti, nel 1852 si decise che i non cattolici potevano contrarre un matrimonio civile d'emergenza; i riti ecclesiastici furono mantenuti per i cattolici. A causa dell'opposizione della Chiesa e dei conservatori, la legge fu comunque respinta dal Senato. Questo rivela la lotta tra forze liberali e confessionali che avrebbe caratterizzato in seguito la legislazione matrimoniale nel Regno d'Italia. [1]
La comunione dei beni coniugali incontrò una grande disapprovazione, poiché la tradizione giuridica restauratrice rifiutava l'equiparazione dei diritti patrimoniali dei coniugi e tutti i beni, ad eccezione dei ''bona dotalia,'' erano di proprietà del marito. Pertanto, nel 1814, si tornò immediatamente alla vecchia legge statutaria, che prevedeva solo la separazione dei beni coniugali.[2]
Per quanto riguarda le posizioni di diritto familiare, l'autorità del padre divenne ancora più permanente e rigida. Secondo la legge toscana del 1814, i figli maschi fino a 30 anni e le figlie femmine fino a 40 anni erano soggetti al padre. I codici civili di Napoli e Parma avevano caratteristiche simili. Anche la moglie era completamente inferiore al marito. Le donne non avevano nemmeno la potestà legale sui figli dopo la morte del padre. Secondo l'<nowiki/>''autorizzazione materiale'''[3]''''' , prevista anche dalla legislazione napoleonica, le donne non potevano stipulare contratti commerciali senza il permesso del marito. L'ABGB austriaco, che si applicava in Lombardia e in Veneto, offriva un'eccezione, secondo la quale la moglie aveva l'indipendenza materiale e commerciale dal marito. Tuttavia, si dovettero apportare delle modernizzazioni a causa del nascente movimento femminista; ad esempio, la donna ''"che esercita mercatura"'''[4]''''' era esente dall'<nowiki/>''autorizzazione materiale ai'' sensi dell'art. 25 del Motuproprio toscano 1838 e dell'art. 137 del ''codice civile albertino''[5] 1837.[6]
Pochi anni dopo l'unificazione politica e geografica dell'Italia, il matrimonio civile fu uno dei temi più importanti per gli autori del ''Codice Civile'' del 1865. Casa Savoia, come gli Hohenzollern in Germania nove anni dopo, forniva il Re d'Italia e quindi il ''Codice Civile albertino'' del Piemonte fu applicato con riforme a livello nazionale. A differenza degli Stati preunitari, tuttavia, le tendenze liberali e anticlericali dominavano ora il Parlamento. Nel 1865, i nuovi legislatori abolirono tutti i regolamenti matrimoniali della Restaurazione e introdussero il matrimonio civile obbligatorio, una soluzione che si avvicinava al ''Codice Civile'' francese. Per legge, gli sposi dovevano contrarre il matrimonio civile prima di quello religioso. I parlamentari si resero conto che il matrimonio religioso era più che sufficiente per la maggioranza degli italiani, ma il matrimonio civile obbligatorio era considerato necessario per consolidare la tanto attesa separazione tra Stato e Chiesa. Fino alla prima guerra mondiale, decine di migliaia di coppie hanno aggirato questa legge, poiché il matrimonio religioso era troppo radicato nella tradizione italiana. Senza il matrimonio civile era possibile evitare problemi legali come l'eredità. Anche le fazioni parlamentari dell'allora "Sinistra storica"[1] osarono legalizzare il divorzio. Questo dibattito si intensificò nel 1884, quando il divorzio fu legalizzato in Francia, ma non portò a un risultato definitivo. Dopo la prima guerra mondiale, lo Stato si avvicinò alla Santa Sede e, secondo l'articolo 34 del Concordato del 1929, i matrimoni cattolici avevano validità civile come prima del 1865; anche il matrimonio contratto da una comunità religiosa riconosciuta in Italia aveva validità civile. I matrimoni civili divennero facoltativi. Tuttavia, gli obblighi matrimoniali, la potestà dei genitori, i diritti patrimoniali tra coniugi e la separazione dei letti e della tavola sono rimasti di competenza dei tribunali civili. Solo il 1° dicembre 1970, con un referendum, il Parlamento italiano ha dato validità giuridica al divorzio.[2]
Nel 1865, il nuovo Codice Civile continuò a rifiutare la comunione dei beni tra coniugi introdotta dal ''Codice Napoleonico'' e la introdusse come conseguenza automatica del matrimonio solo nel 1975. Una coppia italiana può aggirare questa legge solo facendone richiesta attiva.[3]
La fondazione dell'Italia non portò alcun cambiamento all'<nowiki/>''autorizzazione materiale'' del marito alla moglie. Grazie alle iniziative della Sinistra, le donne poterono partecipare agli atti notarili a partire dal 1877. Tuttavia, l'''autorizzazione materiale'' divenne storia in Italia solo il 17 luglio 1919.[4]
====== Impatto sul diritto di successione ======
La legislazione del XIX secolo si concentrava soprattutto sulla riforma del diritto ereditario. La tendenza era, ovviamente, quella di abolire i privilegi della successione intestata, così come le successioni ereditarie e i maggiorascati. Dopo il Congresso di Vienna, si tornò al diritto dell'Ancien Regime fino agli anni '40, quando si tornò ai principi del ''Code Civil,'' periodo caratterizzato dall'attuazione delle libertà civili.
Non sono state introdotte modifiche sostanziali per quanto riguarda il diritto alla porzione obbligatoria e alla successione testamentaria.
L'urgenza di tornare alla legislazione precedente fu evidente nel 1814 in Toscana e nel Regno delle Due Sicilie, tra gli altri, dove le ''"leggi sull'ordine delle successioni''"'''''[1]''''' furono immediatamente promulgate prima dei codici civili. Nella legge toscana del 1814, nel Motuproprio romano del 1816 e in Piemonte, le donne erano completamente escluse dalla successione intestata. Secondo il ''Regolamento Giudiziario'' di Roma del 1834 e il ''Codice albertino'' del 1837, anche gli agnati erano legalmente favoriti. Il ritorno illimitato al ''"principio agnatizio" fu'' contrastato da Genova e Lucca, dove le figlie e i figli avevano una quota uguale nella successione intestata della madre, e da Napoli e Parma, che introdussero la parità dei sessi nel diritto ereditario. Nel 1848, il deputato piemontese Cioffi propose al Parlamento di abolire gli articoli 942-948 del ''codice civile albertino,'' che regolavano la successione intestata a favore degli agnati. A causa dell'obiezione che la legge ''"trovisi in urto colle tendenze, e colle consuetudini della maggioranza dei cittadini, e che porti il malcontento e lo sconcerto nelle famiglie"'''[2]''' ,'' non fu ufficialmente introdotta.[3]
A parte la Toscana, i fedecommessi e i maggioraschi furono reintrodotti dopo la caduta di Napoleone, talvolta senza eccezioni, come in Piemonte e a Modena, o con restrizioni, come a Napoli. "''Lo arricchire la nobiltà era nell'interesse di ogni governo e di ogni'' stato"[4] contrastava, però, con la crescita di una società borghese. Dopo la promulgazione del ''codice albertino nel'' 1837, il fedecommesso fu effettivamente utilizzato solo tre volte fino al 1848. Con lo scoppio delle riforme liberali, la nuova legislatura piemontese propose una legge ''"sull' abolizione dei fidecommessi, delle primogeniture, die maggioraschi e delle commende di famiglia''"'''''[5]''''' . Questa legge fu approvata nel 1851 e rappresentava l'unico modo per i singoli successori di conservare le loro proprietà. Due anni prima, tutte i fedecommessi e i maggiorascati erano stati aboliti anche nella ''Repubblica Romana'''[6]''''' e reintrodotti nello Stato Pontificio nel 1870.
L'odierno diritto successorio italiano trae origine principalmente dal ''codice civile'' del 1865. Nel 1865 fu vietata la diseredazione con l'obiettivo di ''"dare un posto sempre più preminente alla successione legittima''"[1] . Il diritto a una porzione obbligatoria dell'eredità e le quote ereditarie legali furono regolamentate in modo più preciso. Dall'articolo 805 all'articolo 826, le quote del diritto successorio legale sono disciplinate in modo dettagliato. In relazione a ciò, sono stati fatti grandi progressi anche in termini di uguaglianza tra uomini e donne nella successione intestata. L'uguaglianza è stata infine confermata nel Codice Civile italiano nel 1865, dichiarata nell'articolo 736 (''"Al padre, alla madre e ad ogni altro ascendente succedono i figli legittimi o i loro discendenti, senza distinzione di sesso e quantunque nati da matrimonio diverso''")
Infine, fu definitivamente confermata l'abolizione dei fedecommessi e dei maggiorascati. Subito dopo l'unità d'Italia, la legge piemontese del 1851 entrò in vigore in tutti i territori italiani ad eccezione dello Stato Pontificio, che rimase indipendente in piccola parte fino al 1870.[4] Nel 1866, il ''codice civile'' all'art. 899 stabiliva che "''Qualunque disposizione in base alla quale l'erede o il legatario sia gravato con qualsivoglia espressione di conservare e restituire ad una terza persona, è sostituzione fedecommissaria''"[5] I maggiorascati erano resi impossibili dalle leggi sulla successione obbligatoria. I fedecommessi furono nuovamente ammessi in Italia con l'art. 692 del nuovo ''"Codice civile del 1942''", ma solo se il primo erede ''("istituito"'') era dichiarato dalla legge incapace di gestire da solo il patrimonio. In questo caso, interviene un tutore legale, che normalmente eredita (''"sostituito''") i beni amministrati dopo la morte dell'''istituito.''
====== Impatto sul diritto immobilare ======
Il Lombardo-Veneto e il Regno delle Due Sicilie, nonostante le proteste dei "Baroni", mantennero la legislazione napoleonica contro la proprietà feudale. In Piemonte, a Modena e nello Stato Pontificio furono introdotti resti dei vecchi diritti feudali. Questi furono aboliti per decreto prima in Sardegna negli anni '30, poi in Piemonte nel 1851 e infine a Modena e Parma nel 1859.
Eccezionalmente, i restauratori mantennero le leggi napoleoniche sui diritti dei proprietari privati, ma senza ulteriori espropri. Con le cosiddette ''"leggi Siccardi''" del 1850 e del 1855, tutte le proprietà ecclesiastiche rimaste in Piemonte furono dichiarate demaniali con un piccolo indennizzo; le voci del ''Codice Civile'' relative a "''demani e usi civici''" non furono toccate. Con l'industrializzazione, i proprietari terrieri sociali medievali non poterono più esistere, poiché la terra fu acquistata da imprenditori privati e fu soggetta alla pressione dell'economia di mercato.[1]
Il sistema delle concessioni minerarie proposte da Napoleone fu mantenuto nel Lombardo-Veneto, a Parma e in Piemonte, mentre la variante liberale fu preferita a Napoli e nel Granducato di Toscana. Dopo l'unificazione, il Piemonte voleva estendere il sistema di concessione a livello nazionale, ma non ci riuscì a causa delle proteste dei capitalisti toscani.
Le leggi che dovevano invalidare attivamente il diritto feudale non furono più esplicitamente incluse nel ''Codice Civile'' del 1865, poiché il feudalesimo era stato abolito da tempo nel 1865. L'espropriazione dei beni ecclesiastici continuò fino al 1929, quando i ''"patti'' lateranensi"[1] furono chiusi. Non solo l'esproprio fu interrotto, ma fu anche versato alla Chiesa un indennizzo di 1,75 miliardi di lire (art. 1 ''"L'Italia si obbliga a versare [...] alla Santa Sede la somma di lire italiane 750.000.000 [...] e a consegnare contemporaneamente [...] valore nominale di lire italiane 1.000.000.000'''[2]''''' ). Naturalmente questa legge andò solo a vantaggio della propaganda fascista tra i cattolici, ma fu accettata dall'articolo 7 della Costituzione del 1946. La revisione del 1984-85 portò solo al cambiamento che ogni contribuente è obbligato ''a versare l'otto per'' mille[3] del suo reddito alla Chiesa.
Per quanto riguarda la proprietà collettiva, le leggi del 1888 e del 1894 hanno reintrodotto la terra pubblica nell'Italia rurale centrale, anche se la tendenza è sempre stata verso la privatizzazione. Secondo le leggi del 16/06/1927<sup>[4]</sup> e del 20/11/2017<sup>[5]</sup> , in Italia si conoscono due forme di proprietà agricola collettiva: la prima è la proprietà comunale come prima di Napoleone, ma vengono concesse a ciascun utente della comunione quote di affitto ereditario, che possono essere acquistate dagli utenti come proprietà privata. La seconda è un terreno privato per il quale esiste un diritto di uso pubblico da parte della regione; il proprietario può possedere il terreno a titolo definitivo attraverso la liquidazione al comune sotto forma di denaro o di una quota di terreno. <sup>[6]</sup>
Il rapido aumento della popolazione e dell'industrializzazione portò anche a un'enorme necessità di collegamenti ferroviari e stradali, nonché alla costruzione di abitazioni e fabbriche in Italia. Ciò significava che i terreni dovevano essere espropriati, più che all'inizio del XIX secolo. Come stabilito dal ''Codice Napoleonico'', in caso di esproprio l'interesse pubblico prevaleva sulla proprietà privata. I legislatori della nuova Italia si ispirarono direttamente alla legge napoleonica del 1813. Il ''Codice Civile'' del 1942 affermava che "''Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità"'''[7]''' . L'''articolo 2 della Costituzione del 1946 sostiene questa legge perché ''"La Repubblica [...] richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"'''[8]''' .''
Il 29 luglio 1929 è stata riformata l'attuale legge mineraria, basata sul ''Codice Napoleonico.'' Si distingue tra cave (per l'estrazione di torba, materiali da costruzione, sabbia e semplice pietra), che sono interamente di proprietà del proprietario del terreno, e miniere sotterranee (per l'estrazione di metalli, minerali, carbone e sostanze radioattive), che sono regolate dal diritto pubblico e distribuite tramite concessioni. Le leggi del 1967 e del 1970 regolano le concessioni per il petrolio e il gas.[9]
=== Esplicative ===
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