Quinto Furio Pacilio Fuso: differenze tra le versioni

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== Biografia ==
Appartenente alla [[Gens Pacilia]], fu ''[[pontifex maximus]]'' dal 449 a.C. al 431 a.C.
Eletto alla massima carica religiosa romana, sostenne l'opposizione al [[Decemviri Legibus Scribundis Consulari Imperio (450 a.C.)|secondo collegio dei decemviri]] <ref name=Smith461>{{cita|Smith|p. 461|cidSmithI}}.</ref> <ref>Livio, ''Ab urbe condita'', Libro III, 38,1.</ref> , a seguito della drammatica morte di [[Verginia]], uccisa dal proprio padre [[Lucio Verginio]] per sottrarla ai desideri sessuali di [[Appio Claudio Crasso Inregillense Sabino|Appio Claudio Sabino]], membro estremamente influente dello stesso decemvirato <ref>{{cita|Smith|p. 767|cidSmithI}}.</ref> .
 
La rivolta popolare che ne seguì, con la [[secessio plebis|plebe si era ritirata]] sul ''[[Monte Sacro|Mons Sacer]]'', indusse il [[senato romano|senato]] ad abolire il decemvirato e ripristinare il potere dei [[tribuni della plebe]] <ref name=Smith461/>.
 
Pertanto, fu affidato a "'''Quinto Furio Pacilio Fuso''"', in qualità di ''[[pontifex maximus]]'', il compito di tenere i [[Comizio|comizi]] in cui furono nuovamente selezionati i [[Tribuno della plebe|tribuni della plebe]] <ref>[[Tito Livio]], III, 54</ref> <ref>{{Cita libro|nome=T. Robert S.|cognome=Broughton|titolo=The Magistrates of the Roman Republic|url=|anno=1952|città=[[New York]]|p=49|volume=I}}</ref> .
 
[[File:Loix des Douze Tables.jpg|thumb|Esposizione delle tavole in bronzo recanti la cosiddetta legge delle "Dodici Tavole"]]
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Pochi mesi dopo '''Quinto Furio Pacilio Fuso''' partecipò alla cerimonia per l'esposizione pubblica, nel Foro cittadino, delle [[leggi delle XII tavole]] <ref>Livio, ''Ab urbe condita'', Libro III, 57, 10.</ref> (''duodecim tabulae; duodecim tabularum leges''), la più antica opera legislativa di Roma, secondo la tradizione, riportata da Tito Livio, redatta negli anni 451 e 450 a.C. per volontà della plebe, allo scopo di rendere più conoscibile e certo il diritto, fino ad allora tramandato oralmente e applicato di volta in volta, caso per caso, in forza dell’interpretazione segreta ed esclusiva del Collegio dei pontefici, all'epoca appartenenti al solo patriziato.
 
Considerate, dunque, dai Romani, fonte di tutto il diritto pubblico e privato (''fons omnis publici privatique iuris'') <ref>[[Tito Livio]], ''[[Ab Urbe condita libri]]'', III, 34.6.</ref> , come ricordato da [[Tito Livio]], i consoli dell'anno [[449 a.C.]] [[Lucio Valerio Potito]] e [[Marco Orazio Barbato]] <ref>Livio, ''Ab urbe condita'', Libro III, 44, 55.</ref> le fecero incidere su 12 tavole di bronzo, purtroppo andate perdute nel saccheggio di Roma da parte dei [[Galli]] di [[Brenno]] nel [[390 a.C.]]).
 
Secondo lo storico [[Ettore Pais]] <ref>''Storia di Roma'', 2 voll., 1898-99.</ref> i redattori si sarebbero limitati a redigere per iscritto gli antichi ''mores'', trattandosi, dunque, di una raccolta delle consuetudini precedentemente esistenti ed oralmente tramandate.