Scipione Ammirato: differenze tra le versioni
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È lo stesso Ammirato a spiegare per quale ragione abbia scelto Tacito come maestro del futuro principe, perché è il pittore più ampio ed accurato del principato romano e perché la sua opera è tra le mani di tutti. «''L'autor nostro'' – egli scrive – ''ci dimostra qual sono le vere arti del dominare, utilissime non meno a' signoreggianti, che a' signoreggiati et di tanta sicurezza, che niuna altra cosa può esser maggiore, come confesserà ciascuno che punto vi applica l'animo''».<ref>Discorso XX, 9.</ref> Oltre a Tacito l'Ammirato fece ampio ricorso alle opere di [[Tito Livio|Livio]], [[Gaio Giulio Cesare|Cesare]], [[Cassio Dione]], [[Plutarco]], [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]], [[Platone]] e [[Senofonte]].<ref>{{Cita libro|autore=Rodolfo De Mattei|titolo=Il pensiero politico di Scipione Ammirato: con discorsi inediti|editore=Giuffrè Editore|anno=1963|pp=10-11|citazione=Non vi è storico che non riscuota rispetto, credito e onor di citazione da parte dell'Ammirato. Gli son familiari i testi di Tucidide, di Senofonte, di Polibio, di Plutarco, di Sallustio, di Cesare, di Svetonio, di Appiano, di Dione, di Erodiano, nonché dei Villani, senz'accennare al citatissimo e ammiratissimo Guicciardini, e allo stesso Machiavelli. Ma, come si è detto, il testo storico di cui farà tesoro ai fini del suo commento è Tacito.}}</ref>
Nei ''Discorsi'' l'Ammirato sostiene che la ragione di stato «''altro non essere che contraventione di ragione ordinaria per rispetto di publico beneficio, overo per rispetto di maggiore e più universal ragione''».<ref>{{Cita web|url=http://www.filosofia.unina.it/ars/aammira.html|titolo=Scipione Ammirato|accesso=1º giugno 2019|dataarchivio=29 marzo 2019|urlarchivio=https://web.archive.org/web/20190329150225/http://www.filosofia.unina.it/ars/aammira.html|urlmorto=sì}}, p. 179.</ref> Egli riteneva che il monarca o il reggitore delle sorti dello stato fosse provvisto di una ''plenitudo potestatis'', sebbene dovesse essere saggio ed esemplare, consapevole dei suoi doveri.<ref name = "DBI"/> L'Ammirato in ultima istanza riteneva che la ragion di Stato fosse solo una deroga agli ordinamenti vigenti, in casi particolari in cui fosse a repentaglio l'esistenza stessa dello Stato, ma non una deroga alle leggi naturali o divine. In altri termini, esiste a suo giudizio una ragione di stato non arbitraria (''dominationis flagitia''), ma rispettosa del bene generale, tesa a limitare i privilegi e gli eccessi, a condizione che venga esercitata dal principe, solo e legittimo rappresentante dello stato, nel rispetto delle leggi di Dio e della natura.<ref>{{Cita libro|autore=Maurizio Viroli|titolo=Dalla politica alla ragion di stato: la scienza del governo tra XIII e XVII secolo|url=https://books.google.it/books?id=KkCm016TzqkC&pg=PA179&dq=giuristi#v=onepage&q&f=false|editore=Donzelli Editore|città=Roma|data=1994|p=179|accesso=4 gennaio 2012}}</ref>
L'esposizione chiara e, per quanto lo permetteva la materia, di non difficile lettura, nella quale l'erudizione non soffoca il ragionamento, assegna al libro dell'Ammirato il primo posto tra quanti trattarono di politica sulla fine del secolo XVI, di gran lunga al di sopra della gran massa degli altri che, eccettuato il Botero, non fanno che affastellare citazioni antiche e moderne e generare confusione e fastidio in chi si accinge a leggerli.<ref>{{cita|Congedo|p. 369}}.</ref>
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