IRI: differenze tra le versioni
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Solo dopo il 1950 la funzione dell'Istituto fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l'ente venne da [[Oscar Sinigaglia]], che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della [[siderurgia]] italiana strinse un'alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l'IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in "supplenza" dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell'industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell'[[Autostrada del Sole]], iniziata nel [[1956]].
=== Il miracolo economico e la "formula IRI"
Negli anni sessanta, mentre l'economia italiana cresceva ad alti ritmi, l'IRI era tra i protagonisti del "[[miracolo economico italiano]]". Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla "formula IRI" come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell'economia, migliore della semplice "nazionalizzazione" perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
In molte società del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte
Ai vertici dell'IRI si insediarono esponenti della [[Democrazia Cristiana|DC]] come [[Giuseppe Petrilli]], presidente dell'Istituto per quasi vent'anni (dal 1960 al 1979). Petrilli nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della "formula IRI"<ref>Petrilli pubblicò un libro intitolato ''Lo stato imprenditore'', Cappelli, Bologna 1967; citato da M. Pini, ''I giorni dell'IRI'', Arnoldo Mondadori, 2004, pag. 26 e bibliografia a pag. 298</ref>. Attraverso l'IRI le imprese erano utilizzabili per finalità sociali e lo Stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti; significava che l'IRI non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avesse generato "oneri impropri", cioè anche in investimenti antieconomici<ref>M. Pini, ''I giorni dell'IRI'', pag. 26</ref>.
Questa prassi, generalmente ritenuta connaturata all'esistenza stessa dell'IRI per il suo essere ''[[azienda pubblica]]'', non era in realtà data per scontata al momento della sua creazione. La pratica amministrativa del suo fondatore, [[Alberto Beneduce]], si fondava al contrario sull'assoluto rigore di bilancio e sulla limitazione delle assunzioni all'essenziale per garantire un funzionamento snello ed efficiente dell'organizzazione<ref>M. Franzinelli, M. Magnani, ''Beneduce, il finanziere di Mussolini'', Mondadori 2009, pag. 239</ref>. Allo stesso modo, durante i primi anni di vita si scelse a livello gestionale di non procedere con operazioni di salvataggio, reali o camuffate<ref>ibidem, pagg. 230-31</ref>.
Critico verso la prassi assistenzialista, in linea quindi con la falsariga del modello beneduciano, fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, il liberista [[Luigi Einaudi]], che ebbe a dire: «''L'impresa pubblica, se non sia informata a criteri economici, tende al tipo dell'ospizio di carità''».
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