Giovanni Amendola: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
caveat spostato al sottolemma successivo, ancora da correggere
processo NPOV
Riga 88:
 
=== L'aggressione a Pieve a Nievole, la malattia e la morte ===
{{F|politici italiani|arg2=giornalisti italiani|aprile 2022}}
 
Il 19 luglio 1925 Amendola giunse a [[Montecatini Terme]] per la consueta cura delle acque a beneficio del [[fegato]]. Sparsasi la voce del suo arrivo, sin dal mattino successivo davanti all'albergo nel quale alloggiava (l'Hotel La Pace) si formò un assembramento di facinorosi intenti a contestare la presenza del ''leader'' dell'opposizione<ref>Umberto Sereni, “Un’azione fascista: l’aggressione a Giovanni Amendola. Montecatini 20 luglio 1925”, in Giovanni Amendola tra etica e politica, atti del convegno, Montecatini Terme, 25‑27 ottobre 1996.</ref>. Facendosi la dimostrazione sempre più minacciosa e trascorrendo la giornata senza che dal Comando di [[Lucca]] giungessero i rinforzi richiesti dai carabinieri locali, il segretario federale di Lucca [[Carlo Scorza]] si offrì di tutelare l'incolumità di Amendola facendolo fuggire di nascosto<ref>Per la smentita di Amendola in merito alla presunta "cavalleria" di Scorza, v. [https://www.isreclucca.it/wp-content/uploads/2023/03/DS_27-28-A.pdf?utm_source=chatgpt.com Documenti e studi, Istituto storico della resistenza e dell'età contemporanea in provincia di Lucca, n. 27/28 del dicembre 2006], p. 126, nota 258.</ref>.
 
Secondo quanto [[Giorgio Amendola]] raccontò di aver poi appreso dal padre <ref>Giorgio Amendola, ''Una scelta di vita'' (Rizzoli, 1976).</ref>, la fiducia concessa a Scorza riposava sul fatto che era stato garantito a Giovanni Amendola che sarebbe stato scortato da un contingente di carabinieri: invece, dopo il percorso concordato per l'uscita secondaria dell'albergo<ref>Secondo G. Alessandri, ''Una testimonianza sull'aggressione subita da Giovanni Amendola a Pieve a Nievole'', in giuseppealessandri.myblog.it, 22 aprile 2014, l' ''escamotage'' sarebbe stato il seguente. Mentre nella camera da lui occupata veniva posto accanto alla finestra un dipendente dell'albergo, in modo da far credere ai manifestanti che vi fosse ancora presente il politico campano, questi fu fatto uscire dall'ingresso secondario e quindi venne fatto salire sull'automobile (una Fiat 501, messa a disposizione assieme all'autista dal Garage Morescalchi) che avrebbe dovuto condurlo alla [[Stazione di Pistoia|stazione ferroviaria di Pistoia]]. Da qui sarebbe partito per [[Roma]] viaggiando in uno scompartimento riservato e per di più protetto da un tenente della Milizia con due militi.</ref> Amendola trovò in automobile tre giovani militanti fascisti locali, uno dei quali alla guida, un secondo all'interno della vettura mentre il terzo, salito sul predellino, ne discese all'uscita dalla cittadina termale. Ma una
Una volta superata [[Pieve a Nievole]], poco oltre l'incrocio della Colonna di Monsummano, la macchina fu costretta a fermarsi a causa di un tronco d'albero che ostruiva la strada: dal fosso di fianco alla carreggiata che da una stradina adiacente sbucarono vari aggressori, uno dei quali, armato anch'egli di bastone, raggiunto il lato destro della vettura, ne sfondò il finestrino posteriore, in corrispondenza del posto occupato da Amendola; questi fu poi colpito ripetutamente dagli aggressori fino a quando sopraggiunsero una dopo l'altra due automobili, inducendo i criminali - con ogni probabilità [[squadrismo|squadristi]] montecatinesi - a rinunciare definitivamente ai loro propositi e a fuggire<ref>Secondo G. Alessandri, ''Una testimonianza sull'aggressione subita da Giovanni Amendola a Pieve a Nievole'', in giuseppealessandri.myblog.it, 22 aprile 2014, al pronto soccorso dell'[[Ospedale del Ceppo|ospedale di Pistoia]] furono medicati sia Amendola, cui le schegge del vetro avevano provocato delle lesioni alla parte destra del capo, che il suo accompagnatore preso a bastonate.</ref>.
 
L'incongruenzaLe dellelesioni conclusionisubìte delladal corteparlamentare d'assisefurono rispettomolteplici ae quantonon emersotutte inemersero dibattimentonella indusseconcitazione ladel Cassazione ad accogliere parzialmentemomento: il ricorsoreferto avanzatodel dallapronto difesasoccorso degli imputatipistoiese, rinviandocui il processoferito dinanzifu allacondotto, cortelimitava d'appelloi didanni Perugia:riportati lada quale rimediòAmendola alle forzatureferite deicausate giudicidai divetri<ref>Secondo primoG. gradoAlessandri, sia''Una sottoponendotestimonianza lesull'aggressione testimonianzesubita utilizzateda aGiovanni supportoAmendola dellaa sentenza di condannaPieve a unNievole'', esamein più scrupolosogiuseppealessandri.myblog.it, sia22 attribuendoaprile la giusta rilevanza2014, al referto del pronto soccorso pistoiese. Questdell'ultimo[[Ospedale infattidel limitandoCeppo|ospedale idi danniPistoia]] riportatifurono damedicati sia Amendola, allecui feritele causateschegge daidel vetrivetro escludevaavevano cheprovocato eglidelle fosselesioni statoalla colpitoparte condestra corpidel contundenti non solo e non tanto dagli ignoti autori dell'aggressionecapo, quanto dall'accompagnatore accusato di averlo percosso. A conferma del fatto che il parlamentaresuo avesseaccompagnatore riportatopreso lesionia cutanee e non interne abbiamo inoltrebastonate.</ref>; la testimonianza del figlio Pietro, ainvece, dettaattesta del qualeche il 30 agosto 1925 il padre si trovava in una clinica francese, "dove è andato a sottoporsi a un trattamento chirurgico che limiti i danni riportati al volto e alla testa nella seconda aggressione, subita a Montecatini (...). Gli hanno rasato i capelli perché si possa lavorare alle ferite". Dalla degenza Amendola aveva difatti inviato alla famiglia una foto che lo ritraeva con la testa rasata<ref>{{Cita pubblicazione|autore=N. Ajello|titolo=L'assassinio di Giovanni Amendola|rivista=La Repubblica|numero=Roma, 5 aprile 2006}}</ref></ref>.
Peggiorando nei mesi successivi le sue condizioni di salute, a fine anno Amendola decise di andare a curarsi a [[Parigi]]. Essendogli stato rilevato un [[ematoma]] all'emitorace sinistro (un [[tumore]], secondo il figlio Giorgio)<ref>Cfr. ''Un'isola'', Milano, Rizzoli, 1980.</ref>, agli inizi del 1926 venne operato. Per favorire il decorso post-operatorio i familiari lo trasferirono a [[Cannes]], in [[Provenza]], presso la clinica Le Cassy Fleur: qui egli si spense, all'alba del 7 aprile 1926.<ref>«Colpito da un male incurabile», secondo il sarcastico commento di [[Antonio Casertano]], [[Presidenti della Camera dei deputati (Italia)|Presidente della Camera dei deputati]].</ref> La salma fu dapprima tumulata a Cannes, sotto una lapide che recitava: «Qui vive Giovanni Amendola...aspettando»; nel 1950 fu traslata in Italia, e collocata nel [[Cimitero di Poggioreale]] a Napoli.
 
PeggiorandoEssendogli stato rilevato un [[ematoma]] all'emitorace sinistro, l’indebolimento fisico e lo shock post-traumatico peggiorarono nei mesi successivi le sue condizioni di salute, tanto che a fine anno Amendola decise di andare a curarsi a [[Parigi]]. EssendogliAgli statoinizi rilevatodel un1926 [[ematoma]]venne all'emitoraceoperato sinistroper (un [[tumore]], secondo il figlio Giorgio)<ref>Cfr. Giorgio Amendola, ''Un'isola'', Milano, Rizzoli, 1980.</ref>, agli inizi del 1926 venne operato. Per favorire il decorso post-operatorio i familiari lo trasferirono a [[Cannes]], in [[Provenza]], presso la clinica Le Cassy Fleur: qui egli si spense, all'alba del 7 aprile 1926.<ref>La scelta di evidenziare l'eziologia tumorale come unica causa del decesso emerse sin dalla commemorazione in aula a Montecitorio, in cui lo si disse «Colpitocolpito da un male incurabile», secondo il sarcastico commento di [[Antonio Casertano]], [[Presidenti della Camera dei deputati (Italia)|Presidente della Camera dei deputati]]. Al contrario, sottolineano la concausa fisica e morale dell'aggressione, nel peggioramento delle condizioni di salute del deputato, Simona Colarizi, ''I democratici all’opposizione'' (1973), e Giampiero Carocci, ''Giovanni Amendola nella crisi dello Stato italiano'' (1956).</ref> La salma fu dapprima tumulata a Cannes, sotto una lapide che recitava: «Qui vive Giovanni Amendola...aspettando»; nel 1950 fu traslata in Italia, e collocata nel [[Cimitero di Poggioreale]] a Napoli.
===Il processo===
{{C|Contenuto a tesi, che tende a minimizzare il ruolo avuto da Scorza e dal fascismo nel pestaggio che portò poi alla morte di Amendola. Ciò tra l'altro in assenza di fonti, come segnalato da altro avviso e sulla base di luoghi comuni, dicerie e pseudostoria di un POV revisionista, che contravvengono alla storiografia più autorevole e accreditata, che certificano nel fascismo gli autori e responsabili del pestaggio dal quale Amendola non si riprese mai completamente e portò in breve alla morte.|politici|arg2=giornalisti|aprile 2024}}
La giustizia di regime non poté esimersi dall'aprire sull'attentato di Pieve a Nievole un procedimento d'ufficio, per quanto rivolto contro ignoti e destinato a finire rapidamente archiviato. L'indagine fu tuttavia riaperta nel 1945, risentendo inevitabilmente del particolare clima politico dell'immediato dopoguerra: nel nuovo impianto accusatorio il capo d'imputazione era omicidio premeditato, il mandante dell'aggressione veniva identificato nello stesso Scorza e i suoi esecutori individuati negli esponenti del Fascio montecatinese - a cominciare dall'ex podestà - compresi i tre accompagnatori di Amendola e a prescindere dal ruolo da ciascuno effettivamente assunto nella vicenda. Grazie a testimonianze emerse a distanza di 20 anni dai fatti venivano così messi sotto accusa non i responsabili dell'agguato (del resto mai identificati) bensì coloro che si erano adoperati per la salvezza del parlamentare; con Scorza giudicato in contumacia essendo nel frattempo riparato in Argentina. Pur essendo l'episodio avvenuto in territorio all'epoca lucchese, il procedimento si tenne presso il tribunale di Pistoia (dal 1927 capoluogo di provincia), andando avanti per tre anni e non modificando il proprio orientamento neppure dopo l'amnistia Togliatti del 1946, finalizzata a risolvere casi di questo genere nel segno della pacificazione nazionale.
 
===Il processo===
Latitando non solo le prove, ma pure gli indizi, decisiva ai fini dell'esito del processo risultò la testimonianza dell'autista: il quale dichiarò che a costringerlo a fermarsi nel luogo in cui avvenne l'imboscata era stato l'accompagnatore seduto davanti (ossia quello colpito dal primo degli aggressori), puntandogli contro la pistola per poi immediatamente iniziare a percuotere Amendola con un bastone. Sennonché in un'udienza successiva il medesimo teste, incalzato dalle domande degli avvocati difensori, cadde in contraddizione sia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in istruttoria che a quanto affermato in precedenza in aula, al punto di essere incriminato dal presidente della corte per falsa testimonianza; sull'attendibilità della sua deposizione gravò inoltre il fatto di non aver saputo rendere conto del motivo per cui egli avesse modificato a propria discrezione il percorso di fuga dall'albergo rispetto a quello indicatogli da un commissario di polizia<ref>{{Cita pubblicazione|autore=C. Martinelli|titolo=Incriminato l'autista che condusse l'on. Amendola|rivista=La Patria|numero=Firenze, 30 marzo 1947}}</ref>. Nel tentativo di difendersi l'autista sarebbe giunto a sostenere di essere stato costretto a dichiarare il falso dalle minacce ricevute da parte di tre individui penetratigli in casa la notte precedente la sua testimonianza allo scopo di imporgli la versione da sostenere in aula, terrorizzando sia lui che i familiari per mezzo delle armi impugnate.
 
Grazie all’amnistia a firma [[Alfredo Rocco|Rocco]] di dieci giorni dopo (il [[regio decreto]] 31 luglio 1925 n. 1277), “non venne allora istruito alcun procedimento penale”<ref>[[Archivio di Stato di Roma]], fondo Matteotti, vol. 81, Sentenza della Sezione istruttoria nel processo contro Mussolini e altri, 9 maggio 1946, p. 51; sull'effetto dell'amnistia v. anche Giancarlo Scarpari, ''Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo'', Il Mulino, Bologna, 2019.</ref>. L'indagine fu tuttavia riaperta nel 1945: nel nuovo impianto accusatorio il capo d'imputazione era omicidio premeditato, il mandante dell'aggressione veniva identificato nello stesso Scorza (giudicato in contumacia, essendo nel frattempo riparato in [[Argentina]]) e i suoi esecutori furono individuati negli esponenti del Fascio montecatinese - a cominciare dall'ex podestà - compresi i tre accompagnatori di Amendola.
Nemmeno tale incidente valse tuttavia a modificare il convincimento dei giudici pistoiesi, i quali riconobbero la colpevolezza di tutti gli imputati condannandoli a 30 anni di reclusione per concorso in omicidio premeditato, a piena conferma della tesi accusatoria che voleva un collegamento tra il decesso del deputato liberale e le percosse da lui presuntivamente subite nel corso dell'agguato. Secondo la sentenza, Scorza, di concerto con i dirigenti del Fascio montecatinese, avrebbe tratto volutamente in inganno Amendola, mostrandoglisi preoccupato per la gravità della situazione ma al solo scopo di farlo cadere nel tranello architettato. Nelle motivazioni non venivano tuttavia spiegati diversi punti cruciali: a cominciare dall'aggravante della premeditazione, che se risultava giustificata nei confronti di chi avrebbe organizzato l'attentato appariva meno applicabile a chi, ingaggiato all'ultimo momento per un incarico del tutto inatteso, era rimasto vittima egli stesso della violenza degli aggressori.
 
LatitandoPur nonessendo soloil lereato proveavvenuto in territorio all'epoca lucchese, mail pureprocedimento glisi indizitenne a [[Pistoia]] (dal 1927 capoluogo di provincia), decisivain aiassenza di finiapplicabilità dell'esito[[amnistia Togliatti]] del processo1946. risultòDopo laun testimonianzadibattimento delltravagliato<ref>L'autista: il quale dichiarò che a costringerlo a fermarsi nel luogo in cui avvenne l'imboscata era stato l'accompagnatore seduto davanti (ossiache quelloperò parrebbe essere stato colpito dal primo degli aggressori), puntandogli contro la pistola per poi immediatamente iniziare a percuotere Amendola con un bastone. Sennonché in un'udienza successiva il medesimo teste, incalzato dalle domande degli avvocati difensori, cadde in contraddizione sia rispetto alle dichiarazioni rilasciate in istruttoria che a quanto affermato in precedenza in aula, al punto di essere incriminato dal presidente della corte per [[falsa testimonianza]]; sull'attendibilità della sua deposizione gravò inoltre il fatto di non aver saputo rendere conto del motivo per cui egli avesse modificato a propria discrezione il percorso di fuga dall'albergo rispetto a quello indicatogli da un commissario di polizia<ref>: {{Cita pubblicazione|autore=C. Martinelli|titolo=Incriminato l'autista che condusse l'on. Amendola|rivista=La Patria|numero=Firenze, 30 marzo 1947}}</ref>. Nelche tentativoandò diavanti difendersiper l'autistatre sarebbeanni, giuntoi agiudici sostenerepistoiesi diriconobbero esserela statocolpevolezza costrettodi atutti dichiararegli ilimputati falsocondannandoli dallea minacce30 ricevute da parteanni di trereclusione individuiper penetratigliconcorso in casaomicidio lapremeditato, nottea precedentepiena laconferma suadella testimonianzatesi alloaccusatoria scopoche divoleva imporgliun lacollegamento versionetra dail sosteneredecesso indel aula,deputato terrorizzandoliberale siae luile chepercosse ida familiarilui persubìte mezzonel dellecorso armi impugnatedell'agguato.
L'incongruenza delle conclusioni della corte d'assise rispetto a quanto emerso in dibattimento indusse la Cassazione ad accogliere parzialmente il ricorso avanzato dalla difesa degli imputati, rinviando il processo dinanzi alla corte d'appello di Perugia: la quale rimediò alle forzature dei giudici di primo grado sia sottoponendo le testimonianze utilizzate a supporto della sentenza di condanna a un esame più scrupoloso, sia attribuendo la giusta rilevanza al referto del pronto soccorso pistoiese. Quest'ultimo infatti limitando i danni riportati da Amendola alle ferite causate dai vetri escludeva che egli fosse stato colpito con corpi contundenti non solo e non tanto dagli ignoti autori dell'aggressione, quanto dall'accompagnatore accusato di averlo percosso. A conferma del fatto che il parlamentare avesse riportato lesioni cutanee e non interne abbiamo inoltre la testimonianza del figlio Pietro, a detta del quale il 30 agosto 1925 il padre si trovava in una clinica francese, "dove è andato a sottoporsi a un trattamento chirurgico che limiti i danni riportati al volto e alla testa nella seconda aggressione, subita a Montecatini (...). Gli hanno rasato i capelli perché si possa lavorare alle ferite". Dalla degenza Amendola aveva difatti inviato alla famiglia una foto che lo ritraeva con la testa rasata<ref>{{Cita pubblicazione|autore=N. Ajello|titolo=L'assassinio di Giovanni Amendola|rivista=La Repubblica|numero=Roma, 5 aprile 2006}}</ref>.
 
La Cassazione poi accolse parzialmente il ricorso avanzato dalla difesa degli imputati<ref>Essi criticavano la sentenza nella parte in cui applicava l'aggravante della premeditazione: se risultava giustificata nei confronti di chi aveva organizzato l'attentato, appariva meno applicabile a chi, ingaggiato all'ultimo momento per un incarico del tutto inatteso come quello di autista, era rimasto vittima egli stesso della violenza degli aggressori.</ref>, rinviando il processo dinanzi alla corte d'appello di [[Perugia]]: qui la vicenda giudiziaria giunse a conclusione, nell'ottobre 1950, con l'assoluzione di tutti gli imputati per insufficienza di prove<ref>{{Cita pubblicazione|autore=G. Alessandri|anno=|titolo=Una testimonianza, cit|rivista=|numero=|url=https://giuseppealessandri.myblog.it/2014/04/22/testimonianza-sullaggressione-subita-giovanni-amendola-pieve-nievole/}}</ref>.
 
== Gli eredi ==