Filosofia greca: differenze tra le versioni

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[[File:Herma of Plato - 0042MC.jpg|upright=0.7|thumb|Platone]]
Socrate giunse così a connettere in modo inscindibile il bene con la conoscenza: non si può non seguire il bene, se lo si conosce. Mentre tuttavia lasciava indeterminato e avvolto nel mistero l'oggetto della sua indagine filosofica e del suo continuo cercare, il suo allievo [[Platone]] ([[427 a.C.|427]]-[[347 a.C.]]) si spinse verso un più alto grado di riflessione e definì ''[[idea]]'' il vero oggetto della conoscenza umana.<ref>Platone tuttavia si mantenne ben consapevole del grado di incertezza e fallibilità della conoscenza umana, infatti: «Di certo, affermare che le cose stiano davvero come io le ho esposte non si addice ad un uomo dotato di buon senso; ma affermare che questo, o qualcosa di simile a questo, debba capitare alle nostre anime e alle loro dimore, ebbene, tutto ciò mi sembra che si addica e che si meriti di arrischiarci a crederlo, perché bello è rischiare!» (Platone, ''Fedone'', 114 d).</ref> Questa idea (oggi diremmo «forma»)<ref>«Nel linguaggio moderno "Idea" ha assunto un senso che è estraneo a quello platonico. La traduzione esatta del termine sarebbe "forma"» (G. Reale, Il pensiero antico, pag. 120, Vita e Pensiero, Milano 2001 ISBN 88-343-0700-3).</ref> doveva risolvere non solo la questione di “cosa” sapere sollevata da Socrate, ma anche la dicotomia e le divergenze sorte tra [[Parmenide]] ed [[Eraclito]]. Essa aveva infatti i tratti della staticità e incorruttibilità dell'[[essere]] parmenideo da un lato, ma conciliava in sé anche il [[divenire]] di Eraclito: così ad esempio bianco e nero rimangono termini contrapposti e molteplici sul piano [[sensibilità (filosofia)|sensibile]]; tuttavia, è solo cogliendo questa differenza di termini che si può risalire al loro fondamento e comune denominatore, cioè l'Idea di Colore.
 
L'[[Idea]] è dunque l'origine (e meta finale) sia della [[conoscenza]] che della [[realtà]], essendo cioè il modello, l'esemplare, tramite cui le cose reali sono fatte, e tramite cui ci è possibile conoscerle. Il processo mentale con cui si risale dal molteplice sensibile all'unità intelligibile venne chiamato da Platone [[dialettica]], e consiste nella [[filosofia]] stessa, assimilata all'[[amore]], e interpretata socraticamente come riflessione sociale, svolta dal filosofo nel dialogo con altri personaggi; in realtà questo [[dialogo]] ha una funzione più apparente che reale, consentendo al filosofo di emendare la sua ricerca dagli errori dovuti alle apparenze, spinto dal desiderio "erotico" di sapere. L'Idea sta al culmine di questo processo e supera (trascende) le particolarità relative e transitorie degli oggetti sensibili, pur essendone il fondamento.
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La rigida separazione tra mondo ideale e reale, propria di Platone, piacque poco al suo discepolo [[Aristotele]] ([[384 a.C.|384]]-[[322 a.C.]]), che in opposizione alle teorie platoniche sostenne invece l'[[immanenza]] dell'[[universale (metafisica)|universale]] e considerò la [[realtà]] come sintesi di [[materia (fisica)|materia]] (elemento particolare) e [[forma (filosofia)|forma]] (elemento appunto universale), in un continuo [[divenire]] che si attua nel perenne passaggio degli organismi dalla potenza all'atto. Solo [[Dio]], ovvero il primo motore o causa prima, che determina il divenire di tutti gli altri corpi, è atto puro, ed è perciò immobile, ma attrae verso di sé gli elementi ancora in potenza.<ref>«Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col Bene, e sotto tale profilo è principio assoluto. [...] Se perciò Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso, e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia maggiore. Ma Dio è appunto in tale stato!» (Aristotele, ''Metafisica'', XII, 7, 10-12).</ref> Secondo Aristotele ogni realtà ha in se stessa, e non in cielo, le ragioni (''[[entelechia]]'') per cui tende a essere fatta così e non in un altro modo. Egli introdusse in questo modo il concetto di [[sostanza (filosofia)|sostanza]], cioè di un sostrato che rimane sempre identico a se stesso e prescinde dalle sue particolarità esteriori.
 
Le differenze rispetto a [[Platone]] tuttavia, pur importanti, non portarono a una radicale contrapposizione,<ref>Grote, ''Aristotele'', Londra, 1872; G. Reale, ''La metafisica aristotelica come prosecuzione delle istanze di fondo della metafisica platonica'', in «Pensamiento», n. 35 (1979), pagg. 133-143.</ref> perché anche Aristotele dava grande importanza al pensiero sistematico e alle forme universali, e concepiva l'[[essere]] in forma dinamica (come passaggio dalla potenza all'atto) anziché staticamente contrapposto al non-essere. Aristotele propose in definitiva una soluzione diversa al medesimo problema di come conciliare le divergenze tra [[Parmenide]] ed [[Eraclito]], tra l'[[essere]] e il [[divenire]].
 
L'[[etica]] era pure concepita da Aristotele al modo di [[Socrate]] e [[Platone]], cioè come ricerca della [[virtù]], di quelle attitudini che un uomo deve seguire perché possa vivere felice. Egli faceva coincidere il [[valore (etica)|valore]] con l'[[essere]]: quanto più una realtà realizza la propria ragion d'essere, tanto più essa vale. Agli uomini consigliava il "giusto mezzo": solo usando equilibrio e moderazione una persona può diventare felice e armonica. Allo stesso modo, le tre possibili forme [[politica|politiche]] dello [[Stato]] ([[monarchia]], [[aristocrazia]], e [[democrazia]]) devono guardarsi dall'estremismo delle loro rispettive degenerazioni: [[tirannide]], [[oligarchia]] e [[oclocrazia]].
 
Come già in Platone, inoltre, secondo Aristotele la [[conoscenza]] non deriva esclusivamente dall'[[esperienza]]. Essa implica la cooperazione di [[sensibilità (filosofia)|sensibilità]] ed [[intelletto]], e si attua in gradi, culminando con l'intervento di un [[trascendente]] intelletto attivo, che astrae la «[[forma (filosofia)|forma]]» intelligibile dalle qualità sensibili e provvisorie degli oggetti.
 
Distinta dall'intelletto è la [[Logica]] che è articolata attraverso un processo [[deduzione|deduttivo]], la cui forma tipica è il [[sillogismo]]. Altri principi essenziali della sua [[logica formale|logica «formale»]] (detta anche logica del «pensare astratto») sono il principio di [[identità (filosofia)|identità]], e quello di [[principio di non contraddizione|non-contraddizione]]. L'importanza di Aristotele per il pensiero [[civiltà occidentale|occidentale]] si deve, tra le altre cose, proprio alla sua [[logica aristotelica|logica]], al fatto cioè che fu lui col suo metodo a fondare e ordinare le diverse forme di conoscenza, creando i presupposti e i paradigmi dei linguaggi specialistici che vengono usati ancora oggi in campo [[scienza|scientifico]](sia pure con notevoli mutamenti di significato).
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A queste considerazioni etiche che sostanzialmente eliminavano ogni possibilità di una morale universalmente valida e fondata su una considerazione oggettiva del bene, risposero indirettamente le posizioni di [[Epicuro]] e della sua scuola (definita "Il Giardino"), nonché le differenti espressioni dello [[stoicismo]]. Per quanto riguarda Epicuro, il cui pensiero si fonda su una concezione radicalmente [[materialismo|materialistica]] e [[atomismo|atomistica]] della natura, egli concepì la filosofia stessa come un farmaco, per la precisione un tetrafarmaco, in grado di liberare l'uomo dalle sue paure esistenziali, in modo da condurlo alla libera espressione di se stesso e alla felicità. Per Epicuro, pertanto, obiettivo della morale non è il perseguimento del bene, ma il raggiungimento della [[felicità]]; e tale felicità consiste nel [[piacere]], purché si comprenda, tuttavia, che solo alcuni piaceri (fra i quali il cibo, l'[[amicizia]], una [[sessualità]] moderata) sono davvero necessari e vanno perseguiti, mentre tutti gli altri creano in realtà turbamento e sofferenza.
 
Per quanto riguarda invece la [[stoicismo|scuola stoica]],<ref>Lo stoicismo prende il suo nome dalla [[Stoà Pecile|Stoà Pecìle]] o «portico dipinto» (in greco στοὰ ποικίλη, ''Stoà poikíle'') dove il suo fondatore, [[Zenone di Cizio]], impartiva le sue lezioni.</ref> che si articolò in numerosi esponenti ([[Zenone di Cizio]], [[Panezio]], [[Posidonio]], [[Crisippo di Soli|Crisippo]] etc.) e che trovò una grande diffusione anche nella [[Roma]] imperiale, divenendone quasi la filosofia ufficiale, essa si occupò sia di logica che di fisica e di etica, ma il tema più rilevante restò in ogni caso quello [[morale]]. Nell'ambito di una concezione dell'uomo come partecipe del ''[[logos]]'' che unisce tutte le cose, secondo gli stoici l'individuo, per vivere rettamente, deve "omologarsi" in senso letterale (ovvero "rendersi uguale al ''Logos''"), cioè comportarsi sempre secondo la [[ragione]] che è comune a tutti gli uomini. L'[[apatia (filosofia)|apatia]] propria agli stoici, quindi, non consiste nell'indifferenza nei confronti delle passioni, ma nella capacità di accettare anche il [[male]] e il [[dolore]] come necessari e [[teleologia|finalisticamente]] positivi. Un forte senso del dovere e del rigore morale fece in modo che a questo tipo di etica aderirono soprattutto le classi dirigenti della [[Impero Romanoromano|Roma imperiale]].
 
=== Neoplatonismo e fine della filosofia greca ===