Alasdair MacIntyre: differenze tra le versioni

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La crisi diviene pienamente visibile nel Kierkegaard di ''[[Enten-Eller]]'', in cui la morale sembra avere uno statuto preciso almeno quanto in Kant, come morale del puro dovere, ma manca completamente di “buone ragioni”, si fonda unicamente sulla scelta individuale. La scelta in favore del dovere non è l’unica nè la migliore, così come la scelta di fede (quella di Abramo, il cavaliere della fede) non è fondata su ragioni morali, anzi, se valutata secondo criteri morali appare come crimine.
Andando a ritroso, MacIntyre rintraccia però già in Kant un preludio di consapevolezza della fragilità di un progetto morale totalmente autonomo: egli infatti da un lato vuole accedere in campo morale a un sapere rigoroso, autonomamente fondato, esattamente come nella gnoseologia. Ma è un ''factum'' e non un principio l’unico elemento cui si può appellare, il dovere è un fatto e per di più intimo; a partire da questo Kant mostra, ma non dimostra. Subito poi deve riconoscere con la dottrina dei postulati che «senza una struttura teleologica l’intero progetto della morale diviene inintelligibile».
Continuando a risalire a ritroso, MacIntyre afferma che «se comprendiamo la scelta kierkegaardiana come un surrogato della ragione kantiana, dobbiamo comprendere anche che Kant stava a sua volta reagendo a un episodio filosofico precedente, che l’appello di Kant alla ragione è stato l’erede e il successore storico degli appelli di Diderot e di Hume al desiderio e alle passioni»<ref> Alastir MacIntyre, ''Dopo la virtù. Saggio di teoria morale'', 2007, Armando Editore, pag. 80 </ref>. L’intenzione di Hume e Diderot non è individualistica nè tantomeno relativistica, ma la dottrina ha un nucleo analogo a quello dell’emotivismo contemporaneo, pronto a emergere nella sua portata nichilista non appena venga meno lo sfondo sociale e culturale che sorregge il pacchetto di valori di riferimento (conservatori) e consente la distinzione fra passioni buone e cattive.
L’utilitarismo, prima di Bentham e poi di Stuart Mill, rappresenta per MacIntyre la reazione più coerente al fallimento del progetto illuministico: fa ricorso a un criterio apparentemente inconfutabile, radicato nell’individualità concreta e al tempo stesso capace di garantire il buon funzionamento di una collettività, la felicità. Dopo essere stata da Kant esclusa, in quanto movente inadeguato di una morale autonoma, la felicità torna in auge. Il calcolo dei piaceri perseguibili dagli individui viene sottoposto al criterio della crescita complessiva della felicità “oggettiva”, per il maggior numero.
Il tema delle regole, in questo excursus, sembra il vero scopo della riflessione morale. Ma le regole si rivelano in ultima istanza infondate. Ci si può chiedere se invece non sia proprio questo il problema, aver ridotto la morale a una questione di regolamentazione quando probabilmente per le regole sarebbe sufficiente il costume. Invece la vocazione della morale potrebbe essere quella di affrontare l’eccezione, il caso di insufficienza delle regole. La situazione della morale potrebbe essere più simile a quella dell’arte, che dà luogo a forme il cui valore deve poter essere giustificato e condiviso, ma che non possono essere l’esecuzione precisa di regole a priori. Le forme riuscite, nell’arte come nella morale, sono modelli, non regole. La stessa nozione di responsabilità, che ha il suo habitat nel discorso morale, non può reggersi se si appella a un’universalità a priori, eppure guarda all’universalità. Essa riguarda un fare che dà realizzazione a un principio assoluto, ma il principio non è evidente se non nell’atto realizzato.