Alasdair MacIntyre: differenze tra le versioni
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Il caso della finzione burocratica: fatti, efficienza, competenza, leggi predittive, il mito della spiegazione. L’esclusione della teleologia dalle spiegazioni scientifiche si estende al comportamento umano, provocando una trasformazione del concetto di fatto che lo priva di qualunque riferimento al valore, il fatto è senza valore, occuparsi di questioni di fatto significa liberarli dal fardello delle credenze, delle valutazioni. Se la fede nel controllo sociale efficiente e giustificato, che si avvale di generalizzazioni sui comportamenti umani è illusoria, la figura del manager burocratico neutro moralmente è una mascherata, c’è in realtà una “perpetuazione del fraintendimento”.
Dunque: Nietzsche o Aristotele. In particolare: è vero che possiamo lasciare fuori dall’ambito pubblico, delle regole, la questione di che persone vogliamo diventare? E’ vero che la neutralità morale è dovuta nelle questioni pubbliche? Ma se questo è vero e Aristotele è irrecuperabile, non rimane che Nietzsche, la volontà senza ragioni altre che se stessa, il rovescio nichilistico della coincidenza di ragione e volontà di Kant.
== La società eroica ==▼
Il rango è il cardine che stabilisce doveri e privilegi di ogni uomo con certezza, il suo posto nella società e la sua identità dipendono da parentela e casato. ▼
«Le questioni assiologiche sono questioni di dati di fatto sociali. E’ per questo che Omero parla sempre di conoscenza di cosa fare e di come giudicare». ▼
L<nowiki>’</nowiki>''[[areté]]'', in seguito tradotta come virtù, «nei poemi omerici è usata per designare l’eccellenza di qualsiasi genere»<ref>Alastir MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 2007, Armando Editore, pag. 160</ref>, che si esprime in azioni conseguenti. ▼
L’insegnamento che possiamo ricavare dalla visione morale eroica, conclude MacIntyre, è che una morale si radica necessariamente in una dimensione socialmente locale e particolare, e che «le aspirazioni della morale della modernità a un’universalità affrancata da qualsiasi particolarità è un’illusione; [...] non c’è nessun modo di possedere le virtù se non come parte di una tradizione in cui esse e la nostra comprensione di esse ci vengono tramandate da una serie di predecessori»<ref>Alastir MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 2007, Armando Editore, pag. 165</ref>. ▼
Secondo MacIntyre comunque quando parliamo della “visione greca delle virtù” dobbiamo essere consapevoli che ce n’erano almeno quattro: quella dei sofisti, quella di Platone, quella di Aristotele e quella dei tragici. I sofisti sostengono i concetti di bene, giustizia, virtù come qualità che conducono al successo e alla felicità individuale. Nelle versioni più radicali, come quella di Callicle, questa visione è difficilmente scalzabile. Platone rifiuta che la felicità individuale risieda nell’esercizio di un potere individuale e introduce l’accezione di dikaiosyne come «virtù che assegna a ciascuna parte dell’anima la sua funzione particolare». Concezione (condivisa da Aristotele e poi da Tommaso) che considera virtù e conflitto incompatibili in quanto c’è un ordinamento cosmico delle virtù stesse, e «la verità, nella sfera morale, consiste nella conformità del giudizio morale all’ordine di questo schema». I tragici, Sofocle in particolare, presentano una visione che da un lato ammette il conflitto fra virtù diverse o fra interpretazioni della stessa virtù, ma non rifiuta l’idea dell’ordine cosmico, non rifiuta «la proprietà di essere veri o falsi» ai giudizi morali.▼
== L’interpretazione aristotelica delle virtù ==
Aristotele parla di una prassi precisa, inserita in una precisa forma politica, quella della “migliore città stato”, e di questa elabora la forma razionale. Il baricentro dell’intera morale aristotelica è il ragionamento pratico: la premessa maggiore dice che una certa azione è buona per l’uomo, la premessa minore che questo caso rientra nella fattispecie delle azioni descritte nella maggiore, ne consegue l’azione. L’azione dunque può essere vera o falsa. Il motivo risiede nell’intima connessione fra tutti i tasselli del mosaico. L'azione, come il giudizio, si radica nelle convinzioni profonde e condivise riguardo a ciò che è bene, nella conoscenza teoretica dei fini, di ciò che è buono per l’uomo, nella capacità, educata dall’educazione morale/sentimentale di giudicare se il caso in questione rientri nel modello generale. «L’etica di Aristotele presuppone la sua biologia metafisica». La determinazione di cos’è bene per l’uomo è fondamentale: il telos, il fine dell’uomo non è un possesso, un culmine, un momento di felicità o di prosperità, ma «un’intera vita umana vissuta nel modo migliore, e l’esercizio delle virtù è una parte necessaria e fondamentale di una vita del genere, non un semplice esercizio preparatorio per assicurarsela. Perciò non possiamo dare una caratterizzazione adeguata del bene per l’uomo senza aver fatto riferimento alle virtù». Ci si pongono fini buoni nell’agire in quanto si esercita una virtù, essa conduce alla scelta giusta e all’azione giusta. E la virtù è disposizione che si acquista, coltivabile ed educabile, ad agire ma anche a «sentire» nel modo “giusto”. L’educazione morale è educazione anche sentimentale, che educa le inclinazioni. Il giudizio morale è un giudizio in situazione, non è un giudizio che applichi meccanicamente regole. Leggi e virtù richiedono valutazione in relazione a un bene che viene prima, il bene della comunità e il bene per l’uomo. Il giudizio di ciò che richiede la giustizia nelle circostanze particolari non applica formule statiche ed è definito da Aristotele un agire «kata ton orthón lógon», secondo giusta ragione. E’ un uso saggio e complesso della ragione che non ha nulla di esecutivo, per questo occorre la phrónesis, la saggezza pratica ed educata. Aristotele – come già Platone - vede in connessione sistematica tutte le virtù: come il telos e il ragionamento pratico come l’azione giusta da compiere in ciascun tempo e luogo particolare».
Dopo aver indicato gli elementi più preziosi della concezione morale aristotelica, M. si pone il problema della loro recuperabilità all’interno di un tempo e di un contesto così radicalmente mutati, e articola il problema in tre punti precisi. E’ plausibile immaginare di tenere la teleologia aristotelica senza la sua biologia metafisica? E di tenere l’etica in assenza della struttura sociale della polis che la sostiene? E ancora, può esistere un aristotelismo etico senza la concezione armonicista e ostile al conflitto? Su quest’ultimo punto specialmente
== Aspetti e situazioni medievali ==
La società medievale appare alle prese con una difficile opera di educazione e civilizzazione, che fa i conti con un insieme composito di stili di vita, ideali, modelli in conflitto. Una società che lavora incessantemente, in assenza di istituzioni stabili (a cominciare dal diritto) ma con l’intenzione di costruirne, per «la creazione di categorie generali di giusto e sbagliato». Elementi cristiani e pagani, ebraici e islamici, frammenti lacunosi di cultura classica (Aristotele viene scoperto tardi dal Medioevo, Tommaso stesso lo legge in traduzione) recuperati o osteggiati, spesso integrati con la instabile tradizione cristiana anche allo scopo di creare programmi di studi per le nascenti università, interpretazioni diverse di ciascuno di questi ingredienti ci pongono di fronte a un assortimento difficile da dipanare. Nel lungo processo di integrazione del cristianesimo con le «forme della vita quotidiana», a cominciare dal XII secolo il «problema si pone in termini di virtù. Nell’opera di ridefinizione delle virtù che viene compiuta in quell’ibrido che è il “cristianesimo politico”, le prime a dover essere ripensate sono la lealtà e la giustizia, virtù centrali in una società feudale. La concezione cristiana introduce virtù inedite, di cui Aristotele non sapeva nulla, la più importante delle quali è la carità; il progetto cristiano ha a disposizione la categoria del perdono oltre a quella della punizione. La giustizia e l’intera concezione del bene vengono ripensate alla luce della possibilità del perdono, della riconciliazione, della redenzione. Lo schema narrativo che diviene prevalente per raccontare questa storia è quello del viaggio, l’uomo è in cammino, il suo fine è oggetto di una ricerca, ed è potenzialmente in grado di redimere tutto il passato. «Le virtù sono quelle qualità che consentono di superare i mali, di adempiere il compito, di completare il viaggio». Storicità della concezione morale cristiana: «muoversi verso il bene vuol dire muoversi nel tempo». Concludendo
Da tutte queste esemplificazioni cosa si può ricavare in merito alla questione divenuta irrimandabile di “che cosa è la virtù”? Per ricostruire il concetto unitario di virtù occorre seguire tre piste, che corrispondono ad altrettanti ingredienti imprescindibili della concezione fondamentale della virtù, e di ognuno di questi ingredienti occorre dare un’interpretazione che permetta di determinarne la pertinenza all’interno del concetto di virtù. Si tratta rispettivamente dei concetti di pratica, di ordine narrativo di una singola vita umana, di tradizione morale. Di ciascuno
«Per pratica intenderò qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati». Attraverso una pratica così intesa, e solo attraverso di essa, si estendono al contempo «le facoltà umane di raggiungere l’eccellenza» ma anche o soprattutto «le concezioni umane dei fini e dei valori impliciti». Questo è il nodo centrale del concetto di pratica utile per la definizione della virtù: i valori insiti nella pratica, sono altro dai risultati esterni perseguiti attraverso di essa; là dove in una pratica contasse solo il risultato (es. vincere per il gioco degli scacchi) non ci sarebbe alcuna controindicazione nel machiavellismo, cioè nell’usare qualunque mezzo per ottenerlo (es. barare al gioco). Là dove invece di una pratica si comprendano i valori/fini intrinseci, nell’atto stesso di farne esperienza, l’adozione di mezzi estranei e impropri diviene una sconfitta, perché il risultato esterno passa in secondo piano rispetto alla conquista di quei valori. Conquistarli e apprenderli è tutt’uno, e per entrambi gli scopi la pratica in prima persona non è sostituibile con un apprendimento passivo o teorico. Altro elemento fondamentale per le pratiche è la presenza di modelli (i migliori fino a quel momento realizzati) di eccellenza, che comportano l’obbedienza a regole e l’esposizione di chi pratica al giudizio sulla base di quei modelli.
«Nel campo delle pratiche, l’autorità dei valori e dei modelli opera in modo tale da escludere ogni analisi soggettivista ed emotivista del giudizio. De gustibus est disputandum».
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«Ogni pratica richiede un certo genere di rapporto fra coloro che vi partecipano», e questo rapporto deve necessariamente essere improntato a veridicità, fiducia, giustizia e coraggio. Dunque non solo le virtù in generale sono implicate dall’esistenza di pratiche.
Le pratiche non vanno confuse con le istituzioni che le promuovono e le sostengono nel tempo. In genere le istituzioni si occupano dei valori esterni, di procurare e incrementare i mezzi per il perseguimento dei fini. «Gli ideali e la creatività della pratica sono sempre minacciati dall’avidità dell’istituzione, in cui la preoccupazione cooperativa per i valori comuni della pratica è sempre minacciata dalla competitività dell’istituzione. In questo contesto risulta evidente la funzione essenziale delle virtù. Senza di loro, senza la giustizia, il coraggio e la veridicità, le pratiche non potrebbero resistere alla potenza corruttrice delle istituzioni».
Dunque, se consideriamo la politica come una pratica, non possiamo secondo
== Le virtù, l’unità della vita umana e il concetto di tradizione ==
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« Le tradizioni, quando sono vitali, implicano continui conflitti».
Anche per mantenere vitali le tradizioni, che a loro volta sono indispensabili per sorreggere le pratiche, occorrono virtù: «La mancanza di giustizia, la mancanza di veridicità, la mancanza di coraggio, la mancanza delle virtù intellettuali appropriate; tutto questo corrompe le tradizioni, esattamente come corrompe le istituzioni e le pratiche».
== Dalle virtù alla virtù e dopo la virtù ==
Un’altra caratteristica dominante almeno da Hume in avanti è che al posto delle virtù al plurale si parla di virtù al singolare. Le virtù plurali servivano al conseguimento di un bene condiviso nel suo significato; la virtù al singolare è fine a se stessa, enigmatica nel suo contenuto, spesso coincidente nell’immaginario sociale con la morigeratezza sessuale, o comunque con il controllo delle passioni e con il “seguire le regole”. La morale è fatta di regole, è obbedienza alle regole, le regole servono a garantire che nelle comunità umane non ci si distrugga a vicenda e si possano perseguire l’utile e il piacevole.
«La sostanza della morale si va facendo sempre più sfuggente. Tale carattere sfuggente trasforma la natura sia della vita privata sia di quella pubblica. Ciò che questo comporta in particolare per la vita pubblica dipende dalla sorte della concezione di una specifica virtù, quella della giustizia».
== La giustizia come virtù: mutamento di concezioni ==
Le regole nascono per tutelare diritti (e ogni regola li limita, spesso tutelando i diritti di una categoria limita quelli di un’altra), quindi si genera una sorta di circolo: per stabilire quali regole sono giuste bisognerebbe condividere un’idea di diritti fondamentali da tutelare (e quest’idea comune non c’è, ci sono invece diverse famiglie di teorie dei diritti fondamentali, in conflitto) quindi un’idea di giustizia. Ma la giustizia (alias virtù) nella modernità ha bisogno del riferimento alle regole per poter essere pensata, perché non è altro che la disposizione a seguire le regole.
Due teorie della giustizia sono più rilevanti al tempo della redazione del saggio, quella di Robert Nozick e quella di John Rawls (rispettivamente contenute in Anarchy, State and Utopie, del 1974, e in A theory of Justice, del 1971. I due autori sostengono due concezioni di giustizia diverse, l’una (Nozick) basata sulla legittimità del titolo a possedere e quindi sul diritto su quanto si è acquisito lecitamente, anche se questo diritto genera disuguaglianze di ogni genere. Da quest’idea deriva un’idea di stato minimo, che vigila unicamente sulla correttezza delle procedure di acquisizione. L’altra (Rawls) basata sull’idea che creare disuguaglianze sia giusto solo se con esse si avvantaggiano i più deboli, garantendo loro l’accesso a una serie di diritti fondamentali, basati sui bisogni fondamentali.
Osserva
La critica allo Stato moderno è dunque l’ultima parola di
== Dopo la virtù: Nietzsche o Aristotele, Trotzkij e San Benedetto ==
Nietzsche non vince contro Aristotele, e neppure rappresenta una vera alternativa all’individualismo razionalista, perché ne è l’estremizzazione.
Perché Trotzskij e San Benedetto? Perché in conclusione del capitolo e del libro
▲== La società eroica ==
▲Il rango è il cardine che stabilisce doveri e privilegi di ogni uomo con certezza, il suo posto nella società e la sua identità dipendono da parentela e casato.
▲«Le questioni assiologiche sono questioni di dati di fatto sociali. E’ per questo che Omero parla sempre di conoscenza di cosa fare e di come giudicare».
▲L<nowiki>’</nowiki>''[[areté]]'', in seguito tradotta come virtù, «nei poemi omerici è usata per designare l’eccellenza di qualsiasi genere»<ref>Alastir MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 2007, Armando Editore, pag. 160</ref>, che si esprime in azioni conseguenti.
▲L’insegnamento che possiamo ricavare dalla visione morale eroica, conclude MacIntyre, è che una morale si radica necessariamente in una dimensione socialmente locale e particolare, e che «le aspirazioni della morale della modernità a un’universalità affrancata da qualsiasi particolarità è un’illusione; [...] non c’è nessun modo di possedere le virtù se non come parte di una tradizione in cui esse e la nostra comprensione di esse ci vengono tramandate da una serie di predecessori»<ref>Alastir MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 2007, Armando Editore, pag. 165</ref>.
▲Secondo MacIntyre comunque quando parliamo della “visione greca delle virtù” dobbiamo essere consapevoli che ce n’erano almeno quattro: quella dei sofisti, quella di Platone, quella di Aristotele e quella dei tragici. I sofisti sostengono i concetti di bene, giustizia, virtù come qualità che conducono al successo e alla felicità individuale. Nelle versioni più radicali, come quella di Callicle, questa visione è difficilmente scalzabile. Platone rifiuta che la felicità individuale risieda nell’esercizio di un potere individuale e introduce l’accezione di dikaiosyne come «virtù che assegna a ciascuna parte dell’anima la sua funzione particolare». Concezione (condivisa da Aristotele e poi da Tommaso) che considera virtù e conflitto incompatibili in quanto c’è un ordinamento cosmico delle virtù stesse, e «la verità, nella sfera morale, consiste nella conformità del giudizio morale all’ordine di questo schema». I tragici, Sofocle in particolare, presentano una visione che da un lato ammette il conflitto fra virtù diverse o fra interpretazioni della stessa virtù, ma non rifiuta l’idea dell’ordine cosmico, non rifiuta «la proprietà di essere veri o falsi» ai giudizi morali.
==Note==
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