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Giovanni Presta, celebre medico e studioso Gallipolino del XVIII secolo, è noto per i suoi approfonditi studi sull’olivicoltura nel Salento. Egli infatti decise di dedicarsi allo studio “degli ulivi, interrogandone non men gli Autori che il gran libro della Natura e la infallibil Maestra della verità, la sperienza”. Quest’ultima frase, che si riporta integralmente, è contenuta in una delle quattro lettere che il Presta scrisse nel 1783 al “Veneratissimo Signor Proposto Marco Lastri”, illustre letterato fiorentino. Un decennio dopo, precisamente nel 1794 pubblicherà un trattato, “Degli ulivi, delle ulive e della maniera di cavar l’olio” che sarà il più completo e documentato testo sull’argomento. Cittadino illustre di questo lembo di terra della Puglia il Presta diede un notevole impulso all’olivicoltura salentina di quegli anni; “nel giro di cinque anni”, scrive nel 1794, “almeno cinquantamila ulivi erano stati piantati nel Salento su terre incolte e macchiose”. L’olivo nella sua forma selvatica (Olea europea oleaster) è presente allo stato spontaneo nelle macchie e nei boschi salentini, mentre nella sua forma coltivata (Olea europea sativa) è la coltura arborea più diffusa nel Salento. Sono i Romani a diffondere l’uso alimentare dell’olio che in precedenza era sempre stato secondario. Nella concezione romana era molto radicata l’idea che l’oliveto costasse poco e rendesse bene, “tra tutte le piante l’olivo è quello che richiede spesa minore, mentre tiene tra tutte il primo posto” scriveva Lucio Giunio Moderato Columella nell’Arte dell’Agricoltura, I secolo dopo Cristo.
[[Immagine:Un_torchio.jpg|thumb|200px|right|Frantoio Ipogeo.]][[Immagine:Torchii.jpg|thumb|200px|left|Torchi.]] Nel Salento, la più antica delle terre pugliesi, si produce l’olio extra vergine d’oliva TERRA D’OTRANTO DOP (denominazione di origine protetta) ottenuto dalle varietà Cellina di Nardò e Ogliarola Leccese, per almeno il 60%. Terra d’Otranto è il nome con cui fu chiamato il Salento nel Medioevo. L’area interessata comprende l’intera provincia di Lecce e parte di quella di Brindisi e Taranto. Una società dell’olio e dell’olivo si affermò in terra d’Otranto a partire dal basso medioevo. Dal 400 e soprattutto dal 500, l’olivo si estese su tutta la superficie salentina. Nell’età moderna, per facilitarne l’esportazione, furono potenziati i porti adriatici e ionici, dai quali, fino a tutto l’800, partivano bastimenti carichi di olio per tutta l’Europa. Nel XVIII secolo la coltura dell’olivo si caratterizzò come monospecifica e costituì il settore portante dell’economia provinciale. Accanto alla coltura dell’olivo viveva un’economia legata alla trasformazione del prodotto che avveniva nei cosiddetti “trappeti”, dove venivano portate le olive raccolte. I trappeti potevano essere a pianterreno o sotterranei, scavati nella roccia. Questi ultimi erano preferiti perché garantivano un ambiente più caldo durante la spremitura delle olive, così che l’olio non solidificasse durante l’estrazione. I trappeti sotterranei sono rimasti pienamente attivi fino alla metà dell’800 e in alcuni casi fino ai primi del 900, poi completamente abbandonati. In questi ultimi anni sono stati rivalutati, quali segni della civiltà contadina. Essi rappresentano una cultura del lavoro che è parte della nostra storia sociale.
L’organo di lavoro principale nel trappeto è la macina a ruota con la quale si effettuavano contemporaneamente tre operazioni: schiacciamento, frangitura e impastamento. La vasca, di grandi dimensioni e cilindrica, ospitava due macine di pietra durissima: una (funnu) posta orizzontalmente a costituire il fondo e l’altra (petra) posta verticalmente e ruotante intorno ad un albero. Le superfici della macina e del fondo venivano lavorate col piccone e rese scabre affinché le olive non sfuggissero. La macina era fatta girare da un mulo legato alla stanga, bendato e fornito di campanella. Per la spremitura della pasta, dalla quale si otteneva l’olio, si utilizzavano i torchi. I torchi più diffusi nel Salento per lungo tempo sono stati i torchi “alla calabrese”, poi sostituiti da quelli “alla genovese”. Il nachiru incolonnava 20-25 “fisculi” riempiti sotto il torchio, quindi cominciava a compiere lenti giri col torchio. Dal torchio colava in un pozzetto antistante (anciulu) olio misto a morchia. Con una brocca, si raccoglieva l’olio galleggiante, in modo da separarlo dalla morchia (crisciri l’uejiu) e lo si versava negli “zirri” (rcipienti di capacità variabile da 50 litri a 6 quintali). In una giornata lavorativa (18 ore) si lavoravano 10-12 quintali di olive. Il periodo di attività dei trappeti cominciava a settembre-ottobre con le olive verdi e proseguiva con l’olio maturo, senza che le fasi di lavorazione variassero.
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