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[[Immagine:Un_torchio.jpg|thumb|200px|right|Frantoio Ipogeo.]][[Immagine:Torchii.jpg|thumb|200px|left|Torchi.]]
Nel Salento, la più antica delle terre pugliesi, si produce l’olio extra vergine d’oliva TERRA D’OTRANTO DOP (denominazione di origine protetta) ottenuto dalle varietà Cellina di [[Nardò]] e Ogliarola Leccese, per almeno il 60%. Terra d’Otranto è il nome con cui fu chiamato il Salento nel [[Medioevo]]. L’area interessata comprende l’intera provincia di [[Lecce]] e parte di quella di [[Brindisi]] e [[Taranto]]. Una società dell’[[olio]] e dell’olivo si affermò in terra d’Otranto a partire dal basso medioevo. Dal 400 e soprattutto dal 500, l’olivo si estese su tutta la superficie salentina. Nell’età moderna, per facilitarne l’esportazione, furono potenziati i porti adriatici e ionici, dai quali, fino a tutto l’[[800]], partivano bastimenti carichi di olio per tutta l’[[Europa]]. Nel XVIII secolo la coltura dell’olivo si caratterizzò come monospecifica e costituì il settore portante dell’economia provinciale. Accanto alla coltura dell’olivo viveva un’economia legata alla trasformazione del prodotto che avveniva nei cosiddetti “trappeti”, dove venivano portate le olive raccolte. I trappeti potevano essere a pianterreno o sotterranei, scavati nella roccia. Questi ultimi erano preferiti perché garantivano un ambiente più caldo durante la spremitura delle olive, così che l’olio non solidificasse durante l’estrazione. I trappeti sotterranei sono rimasti pienamente attivi fino alla metà dell’800 e in alcuni casi fino ai primi del [[900]], poi completamente abbandonati. In questi ultimi anni sono stati rivalutati, quali segni della civiltà contadina. Essi rappresentano una cultura del lavoro che è parte della nostra storia sociale.
L’organo di lavoro principale nel trappeto è la [[macina]] a ruota con la quale si effettuavano contemporaneamente tre operazioni: schiacciamento, frangitura e impastamento. La vasca, di grandi dimensioni e cilindrica, ospitava due macine di pietra durissima: una (funnu) posta orizzontalmente a costituire il fondo e l’altra (petra) posta verticalmente e ruotante intorno ad un albero. Le superfici della macina e del fondo venivano lavorate col piccone e rese scabre affinché le olive non sfuggissero. La macina era fatta girare da un mulo legato alla stanga, bendato e fornito di campanella. Per la spremitura della pasta, dalla quale si otteneva l’olio, si utilizzavano i torchi. I torchi più diffusi nel Salento per lungo tempo sono stati i torchi “alla calabrese”, poi sostituiti da quelli “alla genovese”. Il nachiru incolonnava 20-25 “fisculi” riempiti sotto il torchio, quindi cominciava a compiere lenti giri col [[torchio]]. Dal torchio colava in un pozzetto antistante (anciulu) olio misto a morchia. Con una brocca, si raccoglieva l’olio galleggiante, in modo da separarlo dalla morchia (crisciri l’uejiu) e lo si versava negli “zirri” (rcipienti di capacità variabile da 50 litri a 6 quintali). In una giornata lavorativa (18 ore) si lavoravano 10-12 quintali di olive. Il periodo di attività dei trappeti cominciava a settembre-ottobre con le olive verdi e proseguiva con l’olio maturo, senza che le fasi di lavorazione variassero.
==Biografia==
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