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MARTIRI D’ISTIA
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== '''UNDICI VITE SPEZZATE, LA STORIA DEI “MARTIRI D’ISTIA”''' ==
 
La triste vicenda degli undici giovani, passati alla storia con il nome di Martiri d’Istia, uccisi il 22 marzo del 1944 a Maiano Lavacchio. La loro unica colpa? Non aver voluto imbracciare le armi per combattere una guerra che ad un certo punto, dopo il vuoto istituzionale, creatosi dopo l’8 settembre, stava diventando sempre più assurda…
di Maria Grazia Lenni
Il 18 dicembre 1946 la Corte d’Assise di Grosseto emise un verdetto di condanna “alla pena della morte mediante fucilazione” nei confronti di otto imputati, riconosciuti colpevoli dei “fatti di Monte Bottigli”.
Il reato più grave, tra i molti contestati, era quello di “omicidio continuato” nei confronti di undici giovani, i “Martiri d’Istia”, avvenuto nel 1944, anno in cui anche nella provincia grossetana, come in altre parti d’Italia, si consumarono molti e gravi episodi di violenza, che segnarono l’ultima fase del secondo conflitto mondiale.
Lo scenario era quello dei boschi delle colline intorno a Istia d’Ombrone; il periodo quello, confuso e drammatico, che si aprì con la firma dell’armistizio, nel settembre 1943, quando l’Italia si trovò all’improvviso divisa in due: due governi, due eserciti, due possibili schieramenti. Il vuoto istituzionale che ne seguì provocò scompiglio negli appartenenti alle forze armate, mentre accentuò la sensazione di smarrimento della popolazione, peraltro già duramente provata dallo sfacelo dell’economia, a cui si era sommato l’orrore dei bombardamenti alleati.
La guerra, teoricamente terminata, in realtà aveva solo cambiato aspetto, frammentandosi in molte guerre: non essendoci più un unico fronte, qualunque luogo poteva trasformarsi in fronte; non essendoci più un nemico da tutti chiaramente individuabile, chiunque poteva diventare il nemico.
Non si combatteva più nelle trincee e non si partiva più per la guerra, perché dovunque ci fosse qualcuno che compiva una scelta, e bisognava per forza scegliere, lì c’era una guerra. E ogni decisione si rivelava comunque dolorosa, accompagnandosi sempre a un pesante tributo da pagare.
In questo clima di incertezza si verificò un fatto nuovo, che riguardò inizialmente i soldati che, dopo l’otto settembre, si erano sbandati per raggiungere le proprie abitazioni o più semplicemente per sfuggire all’assoggettamento ai tedeschi, che nei quarantacinque giorni che seguirono la caduta di Mussolini e il suo arresto, avvenuto il 25 luglio 1943, avevano occupato militarmente l’Italia.
Questo fenomeno andò ad aggiungersi, con evidenti similitudini, all’altro già noto dello sfollamento ed ebbe come protagonisti tutti coloro che, per sfuggire alla coscrizione obbligatoria o per opposizione ideologica al regime fascista, scelsero di rendersi irreperibili alle autorità, trovando rifugio in zone isolate della Maremma, coperte da una fitta macchia e rese ancor più inaccessibili dalla mancanza di un’adeguata rete viaria.
In quell’occasione tutti, disertori, renitenti o antifascisti, senza distinzione di provenienza sociale e geografica, furono accolti e aiutati dalla popolazione rurale, che si prodigò in ogni modo per sostenerli, rifornendoli di cibo e vestiario e offrendo loro un alloggio sicuro.
Gesti di autentica solidarietà, resi ancora più preziosi dal reale pericolo a cui andavano incontro tutti coloro che, a qualunque titolo, si fossero resi “complici” degli sbandati.
Proprio per evitare guai alle famiglie contadine che li ospitavano, gli undici “ragazzi”, che già dalla fine del ’43 si trovavano nella zona di Maiano Lavacchio, si rifugiarono nel bosco di Monte Bottigli, dove avrebbero potuto contare su un nascondiglio più protetto, riparandosi in due capanne di scopi, che gli uomini “grandi” della zona avevano costruito per loro.
E loro erano studenti, ragionieri, operai e maestri di età compresa tra i diciannove e i ventiquattro anni, tranne “lo spezzino”, allora trentottenne. Non si consideravano partigiani, anche se con quelli avevano in comune la necessità di nascondersi, da cui derivava, come logica conseguenza, quella di organizzarsi, più o meno con gli stessi criteri usati dai combattenti delle bande operanti anche nel grossetano.
Ma i “ragazzi” non volevano combattere, e proprio per questo si erano dati alla macchia, e proprio per questo non avevano armi addosso.
Furono traditi da una volgarissima spia, ingannati da quello stesso meccanismo di solidarietà spontanea che fino ad allora li aveva sostenuti e aveva permesso loro di non essere scoperti.
Il tale che, mostrando una “ferita di guerra”, si presentò come un reduce della campagna di Russia e perseguitato dai fascisti, conquistò, infatti, la fiducia di un contadino della zona che, ricordando la propria sofferenza in quella campagna, lo invitò a entrare in casa.
Rifocillato e ospitato per la notte, raccolse le informazioni utili per la cattura dei “refrattari” e li vendette poi per una manciata di banconote.
Inconsapevoli del pericolo imminente, forse sottovalutando gli inequivocabili segnali, gli undici ragazzi non predisposero adeguate contromisure. Una leggerezza che pagarono fin troppo cara. Il 22 marzo, al mattino presto, le capanne furono assalite e distrutte, senza che gli occupanti, assonnati e indifesi, potessero opporre alcuna… resistenza. Vennero arrestati a Maiano Lavacchio e portati nella locale scuola elementare, dove si tenne una sorta di processo farsa, conclusosi con la condanna a morte di Mario Becucci, Antonio Brancati, Rino Ciattini, Alfiero Grazi, Alcide Mignarri, Corrado e Emanuele Matteini, Attilio Sforzi, Alfonso Passannanti, Silvano Guidoni e Alvaro Minucci, che vennero fucilati sul posto.
Non ebbero modo di comunicare con l’esterno, ma pur se sottoposti a una strettissima sorveglianza, alcuni riuscirono a lasciare un saluto per i loro familiari, come i fratelli Matteini che, tracciando le parole su una lavagna ancora conservata nel Comune di Grosseto, mandarono un bacio alla loro mamma (“Mamma. Lele e Corrado un bacio”), che fuori dalla scuola tentò disperatamente di salvarli, offrendo la sua vita in cambio di quella dei figli.
Il siciliano del gruppo, invece, Antonio Brancati, scrisse una lettera per i suoi genitori, che venne ritrovata nella tasca dei pantaloni dopo l’uccisione.
Le parole delicate, e a volte ingenue, non contengono alcun accenno a sentimenti di rabbia o rancore per chi stava per togliergli la vita, ma esprimono amore e accettazione della propria tragica sorte.
Tragica sorte che invece non toccò ai responsabili di questo crimine, perché la sentenza pronunciata dal tribunale di Grosseto (la pena di morte mediante fucilazione) non fu mai eseguita: un atto di civiltà e una scelta di buon senso, in fin dei conti, perché già troppo sangue era stato versato per lavare altro sangue.
--[[Utente:Tiziano Minucci|Tiziano Minucci]] 19:40, 4 ago 2006 (CEST)
 
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