Assedio di Messina (1848): differenze tra le versioni
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Al contempo altri reparti d’insorti attaccavano il cosiddetto piano di Terranova, che era l’insieme d’opere accessorie e secondarie antistante la Cittadella, che comprendeva il fortino don Blasco, la porta Saracena, l’arsenale, le locali caserme. Nella stessa zona si trovava anche il monastero di Santa Chiara, che era stato occupato dai borbonici e trasformato in fortilizio improvvisato. Questo complesso d’opere era preso d’assalto e conquistato dai siciliani, costringendo i borbonici a ripiegare all’interno della gigantesca Cittadella.
L’artiglieria regia insisteva però nel bombardamento, che si protraeva dalla mattina del 22 febbraio sino alla sera del 24. Frattanto il generale Cardamona era sostituito dal maresciallo di campo Paolo Pronio, che riceveva inoltre rinforzi di truppe. Un contrattacco borbonico riusciva nel pomeriggio del 25 febbraio a riprendere forte Don Blasco.
Gli insorti procedevano da parte loro a riorganizzare la propria struttura di comando. Il comitato rivoluzionario aveva per presidente il dottor G. Pisano, anche se di fatto il comando degli insorti sul piano militare passava temporaneamente ad Ignazio Ribotti, un liberale e patriota costretto all’esilio del 1831 e che aveva combattuto in [[Spagna]] e [[Portogallo]] raggiungendo il grado di colonnello.
I siciliani facevano un ultimo tentativo di prendere la Cittadella, ordinando il fuoco alle proprie artiglierie contro la Cittadella stessa e forte San Salvatore, con un’azione che si protraeva per due giorni, il 7 e l’8 marzo. I borbonici replicavano sparando coi propri cannoni sulla città. Mentre i danni sulle massicce fortificazioni in cui erano rinserrati i regi erano scarsi, erano invece gravi quelli dell’abitato di Messina. Essendo le munizioni d’artiglieria dei siciliani ormai molto ridotte, gli insorti accettavano la proposta di una tregua d’armi, che venne abitualmente rispettata sino alla terza decade d’aprile, anche se le artiglierie borboniche di tanto in tanto riprendevano il fuoco sulla città, provocando danni e vittime e mantenendo la cittadinanza in uno stato di continua apprensione.
Questo periodo era impiegato dalle autorità provvisorie siciliane per cercare di costituire un esercito regolare. I primi reparti costituiti avevano una divisa formata da una blusa di colore blu scuro, berretto dello stesso colore con coccarda tricolore, mostrine rosse, pantaloni di colore grigio. Il popolo soprannominò da subito questi militari col nome di “camiciotti” per la blusa che indossavano e così furono tramandati alla storia. Le unità regolari erano poi affiancate dalla Guardia nazionale, dagli irregolari delle squadre provenienti dall’entroterra ed all’occorrenza dal puro e semplice afflusso di cittadini di Messina. Erano invece pochi gli ufficiali con valida preparazione tecnica, indispensabile specialmente per il tipo di guerra d’assedio che si svolgeva, in cui il genio e l’artiglieria, le cosiddette “armi dotte”, erano basilari. Inoltre il comando degli insorti aveva problemi organizzativi.
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