Renzo De Felice: differenze tra le versioni

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Figlio unico, Renzo De Felice conseguì la maturità nel [[1949]] presso il [[liceo classico]] [[Marco Terenzio Varrone]]. Si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Roma [[La Sapienza]] e nell'[[anno accademico]] [[1951]]-[[1952]] ottenne il passaggio al secondo anno del corso di [[laurea]] in Filosofia. Durante gli studi universitari si era iscritto al [[Partito Comunista Italiano]] e, secondo la testimonianza del suo collega di studi [[Piero Melograni]], decise il suo passaggio al corso di laurea in Filosofia, perché lo studio della stessa gli sembrava – in una prospettiva [[marxismo|marxista]] – indispensabile per fondare adeguatamente gli studi di carattere storico, che lo appassionavano sin dalla sua iscrizione a Giurisprudenza<ref>[[Piero Melograni]], ''Studenti di Federico Chabod'' in Luigi Goglia, Renato Moro, Fiorenza Fiorentino (a cura di), ''Renzo De Felice. Studi e testimonianze, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura'', 2002. ISBN 88-87114-81-1, pp.102-103</ref><ref>[http://www.giomurru.com/papers/antologia/Renzo%20De%20Felice.pdf ''Renzo De Felice, la storia al di là delle trappole ideologiche'', ricordo - intervista a De Felice a cura di Giò Murru]</ref>.
 
Era un militante di ispirazione [[trotskista]] e, nel 1952, fu arrestato insieme a [[Sergio Bertelli]] mentre preparava una contestazione contro la visita a Roma del generale americanostatunitense [[Matthew Ridgway]], veterano della [[guerra di Corea]] e comandante della [[NATO]]<ref>Fabio Felicetti, ''[http://archiviostorico.corriere.it/1992/settembre/22/Felice_fini_cella_non_tollerava_co_0_92092214180.shtml E De Felice finì in cella. Non tollerava Ridgway]'', in ''Corriere della Sera'', 22 settembre 1992, p. 19; L'episodio è menzionato anche da {{cita|Gentile, 2002|p. 14 n. 1}}.</ref>. Alla fine degli anni ottanta, interrogato su cosa avesse conservato dell'ideologia coltivata in gioventù, rispose:
 
{{citazione|Oggi nulla, salvo che l'essere stato marxista e comunista mi ha immunizzato dal fare del moralismo sugli avvenimenti storici. I discorsi in chiave morale applicati alla storia, da qualunque parte vengano e comunque siano motivati, provocano in me un senso di noia, suscitano il mio sospetto nei confronti di chi li pronuncia e mi inducono a pensare a mancanza di idee chiare, se non addirittura ad un'ennesima forma di ricatto intellettuale o ad un espediente per contrabbandare idee e interessi che si vuol evitare di esporre in forma diretta. Lo storico può e talvolta deve dare dei giudizi morali; se non vuole tradire la propria funzione o ridursi a fare del giornalismo storico, può farlo però solo dopo aver assolto in tutti i modi al proprio dovere di indagatore e di ricostruttore della molteplicità dei fatti che costituiscono la realtà di un periodo, di un momento storico; invece sento spesso pronunciare giudizi morali su questioni ignorate o conosciute malamente da chi li emette. E questo è non solo superficiale e improduttivo sotto il profilo di una vera comprensione storica, ma diseducativo e controproducente<ref>Citazione in E. Romeo, ''La scuola di Croce. Testimonianze sull'Istituto Italiano per gli Studi Storici'', Bologna, Il Mulino, 1992, p. 249, cit. in {{cita|Gentile, 2002|pp. 57-58}}.</ref>.}}