Economia dell'Impero romano: differenze tra le versioni

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{{vedi anche|Commercio romano con l'India|Relazioni diplomatiche sino-romane}}
 
Nella prima età imperiale l'impulso fornito dalla forte urbanizzazione<ref>La civiltà imperiale fu essenzialmente una civiltà urbana. Nelle popolose città dell'Impero risiedevano i ceti privilegiati. Specie in Occidente la città era prima di tutto un centro amministrativo, attraverso il quale veniva esercitato il controllo e lo sfruttamento della regione agricola circostante, ma era anche il luogo dove veniva distribuita e consumata la ricchezza prodotta ed il centro di diffusione dei modelli di comportamento della società imperiale (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 231).</ref> e la sicurezza delle linee di traffico favorirono l'espansione del commercio terrestre e marittimo<ref>Da Narbona a Cartagine si impiegavano in media cinque giorni di navigazione, da Marsiglia ad Alessandria, invece, trenta ({{cita|Ruffolo|p. 130)}}</ref>:<ref>Giorgio Ruffolo calcola in 4 miliardi di sesterzi (un quinto del Pil totale) il valore aggiunto complessivo del settore commerciale nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 28).</ref><ref>«Attraverso queste strade passava un traffico sempre crescente, non soltanto di truppe e funzionari, ma di commercianti, mercanzie e perfino di turisti. Lo scambio di merci fra le varie province si era sviluppato rapidamente, e presto raggiunse una scala senza precedenti nella storia». Grazie a un sistema altamente organizzato di trasporto e vendita, si muovevano liberamente da un angolo all'altro dell'Impero migliaia di tonnellate di prodotti: metalli estratti nelle regioni montagnose dell'Europa occidentale: stagno dalla Britannia, ferro dalla Spagna, piombo dalla Sardegna; pelli, panni e bestiame dai distretti pastorali della Britannia, della Spagna e dai mercati del Mar Nero; vino dalla Provenza, dall'Aquitania, dall'Italia, da Creta, dalla Numidia; olio dall'Africa e dalla Spagna; lardo dalla Lucania; miele dall'Attica; formaggio dalla Dalmazia; frutta secca, datteri e prugne dalla Siria; cavalli dalla Sicilia e dalla Numidia; legname, pece e cera dalla Russia meridionale e dal nord dell'Anatolia; marmo dai litorali egei, dall'Asia Minore, dall'Egitto, dai Pirenei e anche dal Mar di Marmara; e - il più importante di tutti - grano dai distretti dell'Africa del nord, dell'Egitto, della Sicilia, della Tessaglia e della valle del Danubio per i bisogni delle grandi città (H. St. L. B. Moss, ''The Birth of the Middle Ages'', p.1).</ref> a Roma, per esempio, si moltiplicarono le botteghe, le aziende commerciali all'ingrosso e al dettaglio, i depositi, i magazzini, le corporazioni di artigiani e trasportatori. I traffici commerciali si spinsero fino alle coste del Baltico, in Arabia, India e Cina per importare prodotti di lusso e di prestigio a prezzi astronomici (al valore della merce andava infatti aggiunto il costo elevatissimo dei trasporti e una lunga serie di dazi e pedaggi). Per quanto non paragonabile con i concetti moderni, ci fu un costante legame di importazione tramite carovaniere ed il commercio marittimo con le regioni orientali, in particolare l'India e la penisola Arabica, da dove arrivavano incenso, profumi, perle, gemme, spezie, sete, carni e pesci rari, frutta esotica, ebano, unguenti. L'emorragia di monete in metallo prezioso per l'acquisto dei prodotti di lusso finirà, però, per provocare nei secoli successivi gravi conseguenze a livello di bilancio commerciale.<ref>Plinio il Vecchio calcolava in 100 milioni di sesterzi la somma che ogni anno usciva dall'Impero per pagare le merci pregiate: era una cifra davvero enorme, corrispondente al gettito annuale di tutte le imposte indirette ed era pari a a 1/14 di tutte le entrate dell'Impero al tempo di Vespasiano (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 247).</ref><ref>Nessun aristocratico romano si sarebbe sognato di chiamar "consumi" le attività rivolte all'acquisto di prodotti di lusso o a generare piaceri. L'ideale della società aristocratica romana era l'''otium'', non il lavoro produttivo. Della riproducibilità delle risorse usate ci si occupava poco: c'erano gli schiavi e le legioni a provvedervi. Tanto meno ci si occupava della disuguaglianza della distribuzione delle risorse: la società romana, come tutte quelle antiche, era spietata e considerava naturale che alla concentrazione delle ricchezze in pochissime mani corrispondesse la povertà estrema dei consumi delle masse. Quel che contava non era tanto migliorare la produzione di risorse e distribuirle meglio, quanto piuttosto l'intensità dei piaceri che si potevano trarre dal loro sfruttamento (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 64).</ref>
 
Tra i prodotti industriali più diffusi tra la popolazione dell'Impero romano c'erano invece le ceramiche fini da mensa ([[ceramica sigillata]]), realizzate inizialmente in Italia (in particolare ad [[Arezzo]]). La produzione toscana verrà poi soppiantata nel corso del I secolo d.C. da quella gallica e, infine, africana.
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===Economia e società: mobilità sociale===
{{vedi anche|Ordine equestre}}
Mentre la società repubblicana fu caratterizzata dalla rigidità dell'oligarchia senatoria nel difendere i propri privilegi, la società imperiale si rivelò più mobile e aperta, favorendo l'emergere di un'ampia classe media e l'affermazione di un ceto professionale e burocratico (professionisti, ufficiali, funzionari imperiali, impiegati),<ref>La società imperiale dimostrò una forte capacità di assorbire per un certo numero di generazioni la spinta al ricambio che veniva dal basso, e a incanalarla in un rapporto di fedeltà al regime, al tempo stesso facendone un indispensabile strumento di governo (Luigi Bessone, ''Roma imperiale'', in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) ''Civiltà Antiche'', Sei, 1987, p. 236).</ref><ref>«Tecniche primitive, organizzazioni deboli e soprattutto mentalità ancorate a una cultura aristocratica impedirono che lo sviluppo mercantile investisse, trasformandola, la base produttiva della società, e che da quello nascesse una borghesia produttiva. I ''negotiatores'' (mercanti) erano più compratori che imprenditori; gli ''argentari'' più usurai che banchieri; e i ''publicani'' più concussori e taglieggiatori che gestori di servizi pubblici. Questi ceti non avevano la forza per orientare l'economia verso un processo di accumulazione autopropulsivo» (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 35).</ref> proveniente in particolare dall'[[ordine equestre]]. Ma furono soprattutto i ''[[Liberto|liberti]]'', ovvero gli schiavi affrancati, a compiere le più sorprendenti carriere (del resto erano fedelissimi all'ex padrone, al quale dovevano tutto: la libertà e il potere) nella burocrazia imperiale. Nella prospera società del "secolo d'oro" (II secolo d.C.) dell'Impero, caratterizzata per lo più da pace e grandi opere pubbliche (strade, ponti, acquedotti, fognature, templi, fori, basiliche, curie, terme, anfiteatri, portici, giardini, fontane, archi di trionfo), persistevano comunque fortissime disuguaglianze, visibili soprattutto nelle città, dove alla minoranza di ricchi, abitanti in case di lusso (''[[domus]]'') e dediti all'opulenza fastosa<ref>Le dissipazioni e le stravaganze dei romani più ricchi in fondo non erano diverse da quelle di tutte le classi agiate della storia: bagnarole d'oro e d'argento, bagni d'olio e di latte, perle triturate nel vino, fontane di profumi, assortimenti di pellicce, gioielli, porpore, armature, collezioni di carrozze, bestie esotiche, uccelli parlanti e canori, piscine con pescecani. Ma c'era anche chi preferiva il gusto e la raffinatezza del collezionismo prezioso, della passione artistica, della curiosità culturale e del mecenatismo elegante (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 66).</ref>, si contrapponeva la massa di piccoli borghesi (impiegati, militari, artigiani, insegnanti, piccoli negozianti, giudici) e soprattutto di proletari che si stipavano in casermoni (''[[insula|insulae]]'') a rischio di incendi e crolli ed erano costretti a sopravvivere<ref>Bastava un asse al giorno (un quarto di sesterzio) per sopravvivere, come scrisse [[Cicerone]] nelle sue ''Orationes in Catilinam'', in cui descriveva i seguaci di [[Catilina]] come rifiuti umani: «Vivono o sopravvivono con un asse al giorno, grazie a mestieri meschini e occasionali». E se non si riusciva a lavorare bisognava sperare o nei sussidi frumentari o nella "sportula", cioè l'elemosina raccolta davanti alle case dei ricchi (Giorgio Ruffolo, ''Quando l'Italia era una superpotenza'', Einaudi, 2004, p. 65).</ref> tra fame e malattie infettive (le condizioni igieniche nei quartieri-dormitorio erano fortemente inadeguate).
 
==Economia del Tardo Impero (III-V secolo d.C.)==
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===Economia e società: fiscalità oppressiva, professioni coatte e disuguaglianza giuridica===
Il costo crescente dell'esercito nel Tardo Impero (erano necessari continui aumenti di stipendio ed elargizioni per tenerlo quieto)<ref>Il bilancio militare all'inizio del III secolo era salito a 3 miliardi di sesterzi, pari al 75% della spesa pubblica, che a sua volta contava per il 20% del Pil. ({{Cita|Ruffolo|p. 85}}).</ref> e le spese della corte e della burocrazia (aumentata anch'essa in quanto al governo servivano sempre più controllori che combattessero l'evasione fiscale ed applicassero le leggi nella vastità dell'Impero), non potendo più ricorrere troppo alla svalutazione monetaria che aveva causato tassi d'inflazione incredibili, si riversarono, soprattutto tra il III ed il IV secolo (quando le dimensioni dell'esercito furono vicine ai 500.000 uomini in armi, se non di più), sulle imposte con un intollerabile peso fiscale<ref>Ai tempi di Augusto la spesa pubblica (pari a circa il 5% del Pil era finanziata per un terzo dalle imposte dirette (fondiaria e personale) e per il resto da imposte indirette, dazi commerciali e redditi dei patrimoni imperiali: dunque la pressione fiscale si riduceva al 4% del Pil. Ai tempi di Diocleziano e [[Costantino]], invece, la pressione fiscale quadruplicò, fino ad arrivare a circa la metà del Pil intorno alla metà del IV secolo. Un indice quantitativo indiretto del fenomeno è costituito dal progressivo aumento dei ''reliquia'', ovvero gli arretrati delle tasse, che documentano una impossibilità di pagare o incapacità di incassare le tasse ({{cita|Ruffolo|p. 109}}).</ref> (riforma fiscale di [[Diocleziano]] attraverso l'introduzione della [[iugatio-capitatio|''iugatio''-''capitatio'']] nelle campagne e altre imposizioni fiscali per i centri urbani). Dato che i nullatenenti non avevano niente ed i ricchi contavano su appoggi e corruzione<ref>La corruzione nel Tardo Impero, a differenza che nell'Alto Impero, non era più semplicemente tollerata o dissimulata, ma ostentata ed acclamata. I poteri di fatto erano gestiti da una vera e propria categoria sociale (a Roma li chiamavano ''maiores'' o ''priores''), che comprava e vendeva tutto. C'era un vero mercato dei favori e dei delitti. Un verdetto di esilio costava 300 000 sesterzi, uno strangolamento in carcere 700 000. La rete dei poteri di fatto riusciva spesso a neutralizzare l'intervento correttivo dei funzionari e dello stesso imperatore. Agenti principali della corruzione erano gli esattori: quelli pubblici (''publicani'') e quelli semiprivati: «Richiedevano barche, cibo, cavalli; molestavano le spose». Arruolavano abusivamente contadini inermi, d'autorità, o intascavano dai latifondisti il prezzo del mancato arruolamento (R. MacMullen, ''La corruzione e il declino di Roma'', Il Mulino, 1991).</ref> chi ne pagò il costo furono il ceto medio (piccoli proprietari terrieri, artigiani, trasportatori, mercanti) e gli amministratori locali ([[decurione|decurioni]]), tenuti a rispondere in proprio della quota di tasse fissata dallo Stato (''indizione''<ref>L'indizione era una specie di finanziaria annuale, sulla base della quale erano calcolate le spese che l'Impero avrebbe dovuto sostenere l'anno seguente e quindi le entrate delle quali aveva bisogno.</ref>) a carico della comunità per evitare l'evasione fiscale. L'[[evergetismo]], che era un munifico e magnifico vanto, diventò sempre più una obbligazione imposta dal governo centrale. Le cariche pubbliche, che in precedenza erano ambite, significavano nel Tardo Impero gravami e rovina. Per arrestare la fuga dal decurionato, dalle professioni e dalle campagne, che divenne generale proprio con l'inasprimento della pressione fiscale tra il III ed il IV secolo d.C., lo Stato vincolò ciascun lavoratore e i suoi discendenti al lavoro svolto fino ad allora<ref>Stazionaria era l'economia, stazionaria divenne anche la società.</ref>, vietando l'abbandono del posto occupato (fenomeno delle "professioni coatte", che nelle campagne finirà per dare avvio, attraverso il ''[[colonato]]'', a quella che nel [[Medioevo]] verrà chiamata "[[servitù della gleba]]"). L' avanzamento sociale (possibile solo con la carriera militare, burocratica o ecclesiale) non derivava dalla competizione sui mercati, bensì dai favori provenienti dall'alto. È comprensibile, a questo punto, che molti considerassero l'arrivo dei barbari non tanto una minaccia, quanto una liberazione. Ormai si era scavato un solco profondo tra uno Stato sempre più invadente e prepotente (soprusi dell'esercito e della burocrazia) e la società. Lo Stato che nel V secolo crollò sotto l'urto dei barbari era uno Stato ormai privo di consenso<ref>{{cita|Ruffolo|p. 113.}}</ref>.
 
Quando le popolazioni germaniche occuparono i territori dell'Impero d'Occidente, si trovarono di fronte una società profondamente divisa tra una minoranza di privilegiati e una massa di povera gente. La distanza sociale prima esistente tra lavoratori liberi e schiavi si era, infatti, ridotta notevolmente con l'istituzione del ''[[colonato]]'': entrambi erano dipendenti nella stessa misura dal ricco proprietario del fondo agricolo. Anche questo fenomeno, quindi, contribuì alla biforcazione della società nelle due principali categorie sociali del Tardo Impero, profondamente differenti non solo per il censo (poveri e ricchi), ma anche per le condizioni giuridiche (con il fenomeno delle professioni coatte, infatti, la distanza economica tra classi ricche e classi povere divenne anche una distinzione di diritto, fissata dalla legge): gli "inferiori" (''humiliores''), cui appartenevano la massa dei ''coloni'' e dei proletari urbani, e i "rispettabili" (''honestiores''), cui appartenevano i grandi proprietari terrieri ed i vertici della burocrazia militare e civile. Solo agli ''humiliores'' erano riservate le punizioni più dure ed infamanti, come la fustigazione e la pena di morte.