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=== Dialogo di Tristano e di un amico ===
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Dialogo di Tristano e di un amico|Dialogo di Tristano e di un amico]]}}
 
{{citazione|[...] Se mi fosse proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.|ibidem}}
 
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Scritto nel [[1832]], non prima di maggio, a [[Firenze]],<ref name="Firenze1834" /> è l'ultima delle Operette morali.<ref>Per i contenuti cfr. la lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, Pensieri, LIV e Zibaldone, 4525; 2672; 96; 125; 473; 1332; 1601; 1631-1632; 358; 830-836; 646; 4269-4270; 4271-4272; 4354.</ref>
 
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Tristano, autore di un libro sull'infelicità e la miseria umana, rivela ad un amico, in modo ironico, di essersi sbagliato e che le sue teorie erano solo pazzie: la vita è felice,
 
[[File:Gino CapponiAleksander-d-store.jpg|thumb|leftright|upright=0.7|[[GinoAlessandro CapponiMagno]], amico di Giacomo, destinatario della famosa [[palinodia]].]]
[[File:Julius_Caesar.jpg|thumb|left|upright=0.7|[[Gaio Giulio Cesare|Giulio Cesare]]]]{{citazione|[...] anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, [...], tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva [...], parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. [...] anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi [...] il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, [...] e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: [...] Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. [...]Io per me, [...] rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. [...] Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.|ibidem}}
 
{{citazione|[...] anzi felicissima. Ora ho cambiata opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, [...], tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch’io faceva [...], parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse. [...] anzi mi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi [...] il tutto, e dire che la vita non è infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d’infermità, o d’altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, [...] e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: [...] Gli uomini universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più a proposito suo. [...]Io per me, [...] rido del genere umano innamorato della vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura e del destino. [...] Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione e ogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia dolorosa, ma vera.|ibidem}}
 
L'occasione del testo offre uno spunto per ribadire alcuni concetti cardine della riflessioni sulla natura dell'infelicità umana. In primo luogo l'età: queste riflessioni sulla miseria umana sono nuove quanto
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{{citazione|[...] È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo è l'uomo; perché [...] la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere [...] dipende dal vigore del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo, ma bambino; [...] la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono. [...] tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito. [...] L'effetto è che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini [...].|ibidem}}
 
[[File:Gino Capponi.jpg|thumb|right|upright=0.7|[[Gino Capponi]], amico di Giacomo, destinatario della famosa [[palinodia]].]]Le citazioni classiche<ref>[[Francesco Petrarca]], [[Salomone]], [[Omero]], [[Menandro]]</ref> fanno sempre da dotto contrappunto all'ironia del testo: Tristano crede nel secolo XIX, e nel progresso dell'umanità in ogni campo del sapere, tuttavia, stanco di vedere esaurita ''da ogni parte la favola della vita'', è spinto a disiderare ''solo la morte''.
 
Tornano riflessioni già affrontate in altre testi e più compiutamente in Plotino e Porfirio. La morte come fine delle sofferenze rimanda ad una conclusione cercata fuori dalla finzione narrativa ed è un effetto di costante sospensione per un finale che non arriva mai, incontrato spesso lungo tutta la lettura delle operette.