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=== Detti memorabili di Filippo Ottonieri ===
{{leggi il testo|sezione=s|[[s:Operette morali/Detti memorabili di Filippo Ottonieri/Capitolo primo|Detti memorabili di Filippo Ottonieri]]}}
Composta a [[Recanati]], tra il 29 agosto e il 26 settembre
'''Capitolo primo'''<br />Seconda operetta divisa in capitoli dopo il Parini, che narra in stile biografico la vita di Filippo Ottonieri, filosofo
Dopo una serie di ritratti di filosofi del passato<ref>Rousseau, Democrito, Diogene</ref>, apprendiamo che l'Ottonieri si professava epicureo nella vita, probabilmente per gioco<ref>Leopardi, afferma che il filosofo riponeva nell'ozio, nella negligenza e nei piaceri del copro il ''sommo bene degli uomini'', riportando un'interpretazione tradizionale, ma inesatta, della dottrina di Epicuro, il quale "[...]invece insegnava a posporre i piaceri del corpo a quelli dello spirito men fallaci e più durevoli." G. Gentile, ''Operette morali'', Bologna, Zanichelli, 1925.</ref>, mentre nella filosofia diceva di seguire l'esempio di [[Socrate]], colui che ha ''fatto scendere la filosofia dal cielo'', secondo [[Marco Tullio Cicerone|Cicerone]], esempio di massima coerenza nei costumi e nel pensiero. Del maestro di [[Platone]] apprezza il parlare ''ironico e dissimulato'' e i particolari della sua vita: nato per amare, ''dal cuore delicato e fervido'', fu dalla natura condannato per la forma del corpo e vissuto in un ambiente deditissimo a motteggiare. Il primo capitolo si trasforma in un'apologia di Socrate e si conclude con una felice metafora sui libri e la lettura, che spiega perché il filosofo non affidò mai il suo pensiero alle ''carte'':
{{citazione|[...] il leggere è un conversare, che si fa con chi scrisse. Ora, come nelle feste e nei sollazzi pubblici, quelli che [...] non credono di esser parte dello spettacolo, prestissimo si annoiano; così nella conversazione è più grato generalmente il parlare che l'ascoltare. Ma i libri per necessità sono come quelle persone che stando cogli altri, parlano sempre esse, e non ascoltano mai. Per tanto è di bisogno che il libro dica molto buone e belle cose, e dicale molto bene; acciocché dai lettori gli sia perdonato quel parlar sempre. Altrimenti è forza che così venga in odio qualunque libro, come ogni parlatore insaziabile.|ibidem}}
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'''Capitolo secondo'''<br />
{{citazione|Dimandato a che nascano gli uomini, rispose per ischerzo: a conoscere quanto sia più spediente il non esser nati.|ibidem}} https://it.wikisource.org/wiki/Pagina:Zibaldone_di_pensieri_II.djvu/139)
Con un andamento sempre più aforistico, vicino allo stile dello Zibaldone, il capitolo si apre con un incitamento all'azione<ref>cfr. Zibaldone ec.</ref> che allontana dalla noia e un'interessante allegoria del carciofo per spiegare il '''piacere''' umano,<ref>una felice metafora usata, in tempi più recenti, anche da Calvino per spiegare la complessità del reale e le difficoltà dello scrittore a raccontarla. </ref>, ritenuto dal filosofo il peggior momento della vita umana. La speranza e la rimembranza dei piaceri sono infatti cose migliori e più dolci degli stessi diletti. Tra questi, ritiene che i ricordi scaturiti dall'odorato sono i migliori, perché le cose gustate piacciono meno che a odorale. <ref>Anche in questo passo troviamo un'interessante anticipazione di quello che sarà il tema poetico di talune avanguardie del novecento: si pensi alla madelaine nell'opera di Proust in cui certi odori giocano un ruolo fondamentale nell'aprirsi della memoria diventando protagonisti assoluti della costruzione narrativa</ref>. Usava spesso definire la vita come un ''letto duro'' dove si corica il malcapitato che per tutta la notte tenta invano di addormentarsi; ma quando è sul punto di farlo, senza essersi mai riposato, giunge l'ora di alzarsi.
{{Quote|[...]essendo (gli uomini) sempre infelici, che meraviglia è che non sieno mai contenti?|ibidem}}
Nessuno è contento della propria condizione (Orazio e Dialogo Ercole/Atlante); tutti sperano sempre in un miglioramento, in un avanzamento del proprio stato: l'uomo più FELICE della terra che non può avanzare in nessun modo la sua condizione, è il più misero di tutti!
La volontà umana non è libera e l'uomo non è, come credono alcuni filosofi, padrone del suo destino. I beni e i mali non sono nella potestà dell'essere umano, che liberamente decide come ''evitarli, mantenerli o liberarsene''. Mente e corpo, inscindibili, sono soggetti al decadimento; si spengono lentamente, colpiti da ''innumerevoli morbi e infiniti accidenti''; la felicità e la beatitudine non dipendono dalle nostre scelte:
{{Quote|[...] l'uomo tutto intero, e sempre, e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.
|ibidem}} [[File:Kuntze-Konicz Fortune.jpg|thumb|upright =0.7|[[Taddeo Kuntze]] La Fortuna, olio su tela, 1754 ]]
'''Capitolo terzo'''<br />
Il capitolo si apre con una rapida analisi sul dolore della perdita della persona amata. (<ref>cfr. anche la canzone ''Per una donna inferma di malattia lunga e mortale'', del 1819: “Io so ben che non vale/Beltà nè giovanezza incontro a morte;/E pur sempre ch’io ’l veggio m’addoloro:/Che s’io nol veggio, il mio desir prevale,/Tanto ch’io spero pur che l’enea sorte/Altrove ad altri casi ad altri tempi/Riservi i tristi esempi;/Fin che dal mal presente è sbigottita/La misera speranza./Com’or che a l’occidente di sua vita/Veggio precipitar questa dogliosa,/Poi ch’altro non m’avanza,/Già mai di lagrimarla io non fo posa. vv.1-13 </ref> Meglio una malattia breve e rapida che una morte per ''infermità'' lunga e travagliata. La lenta agonia trasforma non solo l'anima e il corpo della persona amata ma anche il ricordo della sua immagine, tanto che non sopravvive neanche nell'immaginazione, non portando più alcuna consolazione ma solo tristezza.
Il cuore del capitolo tratta dei rapporti sociali tra esseri umani.
Negli scambievoli rapporti si solidarietà umana, sia il tempo del dolore sia il tempo dell'allegria sono ostacoli alla compassione verso il prossimo. Entrambe le passioni riempiono l'uomo del ''pensiero di se medesimo'' e non lasciano spazio alle preoccupazioni altrui.
{{Quote|[Nel] il tempo del dolore, perché l'uomo è tutto volto alla pietà di sé stesso; [nel tempo] della gioia, perché allora tutte le cose umane ci si rappresentano lietissime e piacevolissime, […] e le sventure e i travagli paiono quasi immaginazioni vane […] troppo discordi dalla presente disposizione del nostro animo|ibidem}}
Le migliori occasioni di vedere gli uomini disposti alla compassione e all'azione lodevole e disinteressata si presentano quando la gioia nasce da pensieri vaghi e da oggetti indeterminati, provocando una ''tranquilla agitazione dello spirito'' che predispone volentieri a gratificare gli altri.
Non è vero che l'infelice trova maggiore comprensione presso suoi simili, anzi, più spesso, invece di partecipare al dolore, gli sventurati spostano l'attenzione sulla loro condizione, cercando di convincere che i propri malanni siano ''più gravi''. Quando Priamo supplica Achille per la restituzione del copro dell'amato figlio Ettore, l'eroe inizia a piangere non per compassione dell'anziano genitore ma per il ricordo di suo padre e dell'amico morto in battaglia, Patroclo.
[[File:Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25 ca. (particolare).JPG|thumb|400px|Priamo chiede ad Achille il corpo di Ettore di Antonio Giaccarelli, 1819-25]]
La crudeltà e la malvagità nascono spesso dalla negligenza e dalla leggerezza delle nostre azioni, piuttosto che dalla ''pessima qualità morale'' degli uomini. Spesso però è meno grave ricevere un'offesa manifesta (per maleducazione o per malvagità) che un ''piccolo'' riconoscimento per un ''grande'' beneficio elargito; perché da un lato questo secondo caso priva il benefattore della ''nuda e infruttuosa gratitudine dell'animo'' (il fare qualcosa per la gloria, ecc.); dall'altro impedisce di lamentarsi giustamente del torto ricevuto. Allo stesso modo siamo portati a non riconoscere le buone qualità degli altri quando non sono a nostro vantaggio. <ref>Quando non siano a nostro vantaggio, le buone qualità degli altri, se pure le scorgiamo, vogliamo celare a noi stessi di scorgerle. Porena, ''Operette Morali, Milano Hoepli, 1921</ref>.
'''Capitolo quarto'''<br />
Ha per argomento i ''generi'' di persone.
Gli ''indecisi'' sono sempre quelli più determinati nel perseguire i loro propositi perché temono, a causa dell'ansia e dell'incertezza in cui vivono quotidianamente, di tornare in quella condizione di “perplessità e sospensione d'animo” che alimenta le loro esistenze: la vera sfida non è l'oggetto dell'impresa, ma vincere sé stessi. Negli uomini sia antichi che moderni la ''grandezza'' è frutto dell'eccesso di una loro particolare ''qualità'', tanto che la ''straordinarietà'' non si acquisisce se le qualità di un uomo, seppur grande, siano ''bilanciate'' tra loro.
Nelle nazioni civili esistono tre generi di persone:
1) I mediocri, la cui natura è trasformata dall'arte e dagli abiti della vita ''cittadinesca'';
2) Il volgo, composto da persone che per ragioni varie non sono riuscite a ricevere e conservare “le impressioni e gli effetti dell'arte, della pratica e dell'esempio”, fermandosi al primo stadio della condizione naturale.
3) I sommi, pochissimi, la cui sovrabbondanza di forza ha resistito alla natura del viver presente. Essi sono di due specie:
a. disprezzatori forti e gagliardi che rifiutano il commercio degli uomini e vivono solitari in mezzo alla città.
b. i ''timidi'', uguali in forza ai primi, ma più deboli e riservati nell'addestrarsi all'uso pratico della vita. Molti esempi antichi portati a testimonianza: Rousseau, grande filosofo ma noto misantropo; o Virgilio che nelle Georgiche esalta la vita solitaria e oscura contro l'uso romano dell'epoca.
In conclusione, si riceve tanta stima e attenzione più ci si allontana dall'essere naturale: ''Volgo'' e ''Sommi'' sono tenuti in scarsissima o nessuna considerazione, mentre il “maneggio e la podestà” delle cose sono in mano ai “mediocri”.
Esistono poi tre tipi di ''vecchiezza'':
1) ''venerabile'': quando la società era giusta e virtuosa nella vecchiaia si trovava SENNO e PRUDENZA;
2) ''abbominabile'': quando la società diventò più incline al MALE, l'età avanzata non era altro che la ''prova'' di una lunga ''consuetudine'' con la malvagità; in molti casi produceva comportamenti abiettissimi;
3) ''tollerabile'': quando la corruzione superò ogni limite e fin da giovane l'uomo imparò a disprezzare la virtù ancor prima di scoprire ed avere esperienza dell'arido vero, la vecchiaia divenne tollerabile a causa del ''decadere fisico del corpo'', che mitigava, con il raffreddarsi del cuore e con la debolezza dei sensi, l'inclinazione alla malvagità.
'''Capitolo quinto'''<br />
{{citazione| […] il vivere, per sé stesso non è bisogno; perché disgiunto dalla felicità non è BENE|ibidem}}
Capitolo dedicato interamente all'egoismo.
Oggi lodare qualcuno significa misurare la soddisfazione “nel bene o nel male” che si ha di lui. Non si può amare senza un rivale: chiedere un piacere a qualcuno produce odio da parte di un terzo e alla fine i nostri desideri non saranno esauditi perché si teme maggiormente l'odio e l'ira degli uomini. Oggi se servi qualcuno nella speranza di essere ricompensato non otterrai nessun risultato: le persone sono facili a ricevere e difficili a rendere. MODA: ha un potere grandissimo, capace di far cambiare idea e costumi anche a persone radicali, tanto da convincerle del contrario delle loro precedenti convinzioni. (rif. Dialogo della Moda e della Morte). RISO: si ride di tutto tranne delle cose veramente ridicole. Ciascuna generazione crede la precedente migliore della successiva: eppure si crede che i popoli migliorino più ci si allontana da una condizione ''primitiva'' e che fare un passo indietro significherebbe peggiorare. Il VERO non è bello. Ma quando manca il BELLO è da preferire a ogni altra cosa. Le città grandi sono luoghi di infelicità e miseria, dove si respira solo falsità perché ogni cosa è finta e vana. Per gli spiriti ''delicati'' sono il posto peggiore del mondo. OCCUPARE la vita è un bisogno maggiore del vivere stesso: il vivere per sé stesso non è BISOGNO perché separato dalla felicità non è BENE. Sul finale un curioso riferimento all'innesto del vaiolo e una battuta sulla retorica: fatta promessa di non ladare nessuno, torna su i suoi passi per non dimenticare l'arte della retorica.
Capitolo che, come il successivo, gioca sugli aforismi in maniera marcata. Qui sono contrapposti quelli di autori famosi, nel successivo esclusivamente quelli dell'Ottonieri. I grandi protagonisti del pensiero dell'umanità sono chiamati a testimoniare i temi centrali delle operette.
I parte
L'ignoranza produce speranza
La conoscenza produce l'oblio
la prima è un BENE la seconda un MALE
Gli uomini felici sono i più tormentati: i più fortunati traggono piacere da gioie minime che appena trascorse possono essere rivissute attraverso il ricordo (rimembranza)
Perché ci lamentiamo della NATURA che ci nasconde il VERO con vane apparenze, belle e dilettevoli, ma che ci lasciano nello stesso tempo LIETI?
L'unico cammino di lode e di gloria tra i giovani è quello che passa per il piacere (VOLUTTA'). Magnificarsi e pavoneggiarsi con infinite novelle su grandi imprese, spesso ritoccate o interamente false, davanti agli amici con lo scopo di ottenere effimeri lodi o riconoscimenti, è l'unico modo per ottenere la fama.<ref>Ad esempio di grande impresa l'autore porta la storica battaglia di Isso 333 a.C. combattuta fra Dario, re dei persiani, e Alessandro Magno.</ref>
II parte – Il valore di un gravo scrittore
I più eloquenti e i più coinvolgenti sono quelli che parlano di sé stessi perché più sinceri:
{{citazione| […] quelli che scrivono delle cose proprie hanno l'animo fortemente preso e occupato dalla materia, […] si astengono dagli ornamenti frivoli, […] o dall'affettazione o da tutto quello che è fuori dal naturale|ibidem}}
E i lettori lo apprezzano perché non esiste modo migliore per trattate con maggior ''verità'' ed ''efficacia'' le cose altrui che ''favellando'' delle proprie; perché tutti gli uomini si assomigliano tra loro, sia nelle gioie che negli accidenti, quindi non esiste espediente tecnico migliore che trattarli come ''fatti'' propri. Segue un elenco di esempi di famosi oratori che hanno animato il loro auditorio, ad un certo punto dell'arringa, parlando di sé stessi (Demostene, Cicerone Pro milione, Bousset, Giuliano imperatore, Lorenzino dei Medici).
'''Capitolo settimo'''<br />
Si conclude in chiave ironica la seconda prosa in capitoli (vedi il Parini) in cui si riportano le migliori sentenze e risposte argute dell'Ottonieri. La battuta sulla ''signora attempata'' che ''non intende certe voci antiche'' presenti in alcune poesie giovanili del filosofo e quella sugli antiquari sono probabili riferimenti all'esperienza negativa del soggiorno romano in casa di parenti, durante le frequentazioni dei vari circoli culturali. Leopardi se ne lamentava in diverse lettere indirizzate al fratello Carlo. Nei salotti romani dell'epoca un ''letterato'' era l'equivalente dell'Antiquario o Archeologo.
{{citazione| Vi ho parlato solamente delle donne, perché della letteratura non so che mi vi dire. Orrori e poi orrori. I più santi nomi profanati, le più insigni sciocchezze levate al cielo, i migliori spiriti di questo secolo calpestati come inferiori al minimo letterato di Roma, la filosofia disprezzata come studi da fanciulli, il genio, l'immaginazione e il sentimento, nomi (non dico cose ma nomi) incogniti e forestieri ai poeti e alle poetesse di professione; l'Antiquaria messa da tutti in cima al sapere umano, e considerata costantemente e universalmente come l'unico vero studio dell'uomo […] Letterato e Antiquario a Roma è perfettamente tutt'uno.|Lettera a Carlo Leopardi, Roma 16 dicembre 1822}}.
▲'''Capitolo terzo'''<br />'''Capitolo quarto'''<br />'''Capitolo quinto'''<br />'''Capitolo sesto'''<br />'''Capitolo settimo'''<br />[[File:JulianusII-antioch(360-363)-CNG.jpg|thumb|upright=0.7|[[Flavio Claudio Giuliano|Giuliano l'Apostata]] raffigurato su di una moneta.]]
=== Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ===
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