Grazia Deledda: differenze tra le versioni

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* {{cita|A. Pellegrino,Dizionario Biografico degli Italiani}}.</ref>
 
Le spoglie delladi Deledda sono custodite in un sarcofago di granito nero levigato nella [[Chiesa della Madonna della Solitudine|chiesetta della Madonna della Solitudine]], ai piedi del [[monte Ortobene]] di Nuoro.
 
Lasciò incompiuta la sua ultima opera ''Cosima, quasi Grazia'', autobiografica, che apparirà in settembre di quello stesso anno sulla rivista ''Nuova Antologia'', a cura di Antonio Baldini e poi verrà edita col titolo ''Cosima''.
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Il primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli [[Anni 1930|anni trenta]] fu [[Francesco Bruno (critico letterario)|Francesco Bruno]].<ref>Francesco Bruno, ''Grazia Deledda'', Di Giacomo, Salerno 1935.</ref>
Negli [[Anni 1940|anni quaranta]]-[[Anni 1950|cinquanta]], [[Anni 1960|sessanta]], nelle storie e nelle antologie scolastiche della [[letteratura italiana]], la presenza delladi Deledda ha rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle.
 
Tuttavia parecchi critici italiani avanzavano riserve sul valore delle sue opere.
I primi a non comprendere la Deledda furono i suoi stessi conterranei. Gli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria, ad eccezione di alcuni: [[Enrico Costa (scrittore)|Costa]], [[Salvator Ruju|Ruju]], [[Giuseppe Biasi|Biasi]]. Le sue opere le procurarono le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell'opinione che descrivesse la Sardegna come terra rude, rustica e quindi arretrata.<ref>{{cita|Turchi|p. 15}}</ref>
 
===Verismo===
Ai primi lettori dei romanzi delladi Deledda era naturale inquadrarla nell'ambito della scuola verista.
 
Luigi Capuana la esortava a proseguire nell'esplorazione del mondo sardo, "una miniera" dove aveva "...già trovato un elemento di forte originalità".<ref>Luigi Capuana, ''Gli 'ismi' contemporanei'', Giannotta, Catania 1898; Nuova Edizione a cura di G.Luti, Milano, Fabbri Editori 1973, pp. 96-97.</ref>
 
Anche Borgese definisce la Deledda "degna scolara di [[Giovanni Verga]]".<ref>Giuseppe Antonio Borgese, ''Grazia Deledda'', in ''La vita e il libro'', Torino 1911, pp. 104, 97.</ref>
Lei stessa scrive nel 1891 al direttore della rivista romana ''La Nuova Antologia'', [[Maggiorino Ferraris]]: "L'indole di questo mio libro mi pare sia tanto drammatica quanto sentimentale e anche un pochino veristica se 'verismo' può dirsi il ritrarre la vita e gli uomini come sono, o meglio come li conosco io."
===Differenze rispetto al Verismo===
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Emilio Cecchi nel 1941 scrive:"Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non s'improntò in lei di naturalismo e di verismo...Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco..."<ref>Emilio Cecchi, ''Introduzione'' in Grazia Deledda, ''Romanzi e novelle'' , 4 volumi, Milano, Mondadori 1941.</ref>
 
[[Natalino Sapegno]] definisce i motivi che distolgono la Deledda dai canoni del [[Verismo]]: "Ma da un'adesione profonda ai canoni del verismo troppe cose la distolgono, a cominciare dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell'ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di un'assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata. A dare alle cose e alle persone un risalto fermo e lucido, una illusione perentoria di oggettività, le manca proprio quell'atteggiamento di stacco iniziale che è nel Verga; ma anche nel Capuana e nel De Roberto, nel Pratesi e nello Zena."<ref>{{cita|Sapegno|p. XIV}}</ref>
===Decadentismo===
Vittorio Spinazzola scrive: "Tutta la miglior narrativa deleddiana ha per oggetto la crisi dell'esistenza. Storicamente, tale crisi risulta dalla fine dell'unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili. Per questo aspetto la scrittrice pare pienamente partecipe del clima decadentistico. I suoi personaggi rappresentano lo smarrimento delle coscienze perplesse e ottenebrate, assalite dall'insorgenza di opposti istinti, disponibili a tutte le esperienze di cui la vita offre occasione e stimolo."<ref>[[Vittorio Spinazzola]], ''Introduzione'', in Grazia Deledda, ''La madre'', Mondadori, Milano 1980, p. 17.</ref>
=== La Deledda e i narratori russi ===
[[File:Deledda3.jpg|thumb|La scrittrice Grazia Deledda]]
È noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle [[Rivista (periodico)|riviste]] di [[Fashion design|moda]], si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in [[lingua italiana]] di quei giornali e la sua esigenza di impiegare una lingua italiana più vicina alla realtà e alla società dalla quale proveniva.
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La Sardegna, tra la fine dell'[[Secolo XIX|Ottocento]] e il primo Novecento, tenta come l’[[Irlanda]] di [[Oscar Wilde]], di [[James Joyce|Joyce]], di [[William Butler Yeats|Yeats]] o la [[Polonia]] di [[Joseph Conrad|Conrad]], un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande [[letteratura russa]].
 
[[Nicola Tanda]] nel saggio, ''La Sardegna di [[Canne al vento]]'' scrive che, in quell’opera delladi Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l'opera narrativa deleddiana: «L'intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita».
 
Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quelli in cui la scrittrice si dedica alla ricerca di un proprio stile, concentra la sua attenzione, sull'opera e sul pensiero di [[Lev Nikolaevič Tolstoj|Tolstoj]]. Ed è questo incontro che sembra aiutarla a precisare sempre meglio le sue predilezioni letterarie. In una lettera in cui comunicava il progetto di pubblicare una raccolta di novelle da dedicare a Tolstoj, Deledda scriveva: «Ai primi del 1899 uscirà La giustizia: e poi ho combinato con la casa Cogliati di Milano per un volume di novelle che dedicherò a Leone Tolstoi: avranno una prefazione scritta in francese da un illustre scrittore russo, che farà un breve studio di comparazione fra i costumi sardi e i costumi russi, così stranamente rassomiglianti». La relazione tra la Deledda e i russi è ricca e profonda, e non è legata solo a Tolstoj ma si inoltra nel mondo complesso degli altri contemporanei: [[Maksim Gor'kij|Gor'kij]], [[Anton Čechov]] e quelli del passato più recente, [[Nikolaj Vasil'evič Gogol'|Gogol']], [[Fëdor Michajlovič Dostoevskij|Dostoevskij]] e [[Ivan Sergeevič Turgenev|Turgenev]].
===Altre voci di critici===
[[Attilio Momigliano]] in più scritti<ref>Attilio Momigliano, ''Grazia Deledda'' in Storia della letteratura italiana, Principato, Milano-Messina 1936.</ref><ref>Attilio Momigliano,''Storia della Letteratura Italiana dalle origini ai nostri giorni'', Principato, Milano-Messina 1948.</ref> sostiene la tesi che Deledda sia "un grande poeta del travaglio morale" da paragonare a [[Dostoevskij]].
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[[Maksim Gorkij]] raccomanda la lettura delle opere di Grazia Deledda a L. A. Nikiforova, una scrittrice esordiente. In una lettera del 2 giugno del 1910 le scrive: «Mi permetto di indicarLe due scrittrici che non hanno rivali né nel passato, né nel presente: [[Selma Lagerlof]] e Grazia Deledda. Che penne e che voci forti! In loro c'è qualcosa che può essere d'ammaestramento anche al nostro ''mužik''».
 
[[David Herbert Lawrence]], nel 1928, dopo che la Deledda aveva già vinto il Premio Nobel, scrive nell'Introduzione alla traduzione inglese del romanzo ''La Madre'': «Ci vorrebbe uno scrittore veramente grande per farci superare la repulsione per le emozioni appena passate. Persino le ''Novelle'' di [[D’Annunzio]] sono al presente difficilmente leggibili: [[Matilde Serao]] lo è ancor meno. Ma noi possiamo ancora leggere Grazia Deledda, con interesse genuino». Parlando della popolazione sarda protagonista dei suoi romanzi la paragona ad Hardy, e in questa comparazione singolare sottolinea che la [[Sardegna]] è proprio come per [[Thomas Hardy]] l’isolato [[Wessex]]. Solo che subito dopo aggiunge che a differenza di Hardy, «Grazia Deledda ha una isola tutta per sé, la propria isola di Sardegna, che lei ama profondamente: soprattutto la parte della Sardegna che sta più a Nord, quella montuosa». E ancora scrive: «È la Sardegna antica, quella che viene finalmente alla ribalta, che è il vero tema dei libri di Grazia Deledda. Essa sente il fascino della sua isola e della sua gente, più che essere attratta dai problemi della psiche umana. E pertanto questo libro, ''La Madre'', è forse uno dei meno tipici fra i suoi romanzi, uno dei più ''continentali''».
 
==Poetica==
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L'esistenza umana è in preda a forze superiori, "canne al vento" sono le vite degli uomini e la sorte è concepita come "malvagia sfinge".<ref>Luperini-Cataldi-Marchiani-Marchese, ''La scrittura e l'interpretazione'', Dal naturalismo al postmoderno, Palumbo Editore, Firenze 1998, p. 158.</ref>
===Il peccato e la colpa===
La [[narrativa]] delladi Deledda si basa su forti vicende d'[[amore]], di [[dolore]] e di [[morte]] sulle quali aleggia il senso del [[peccato]], della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità.
«La coscienza del peccato che si accompagna al tormento della colpa e alla necessità dell’espiazione e del castigo, la pulsione primordiale delle passioni e l’imponderabile portata dei suoi effetti, l’ineluttabilità dell’ingiustizia e la fatalità del suo contrario, segnano l’esperienza del vivere di una umanità primitiva, malfatata e dolente, 'gettata' in un mondo unico, incontaminato, di ancestrale e paradisiaca bellezza, spazio del mistero e dell’esistenza assoluta».
 
===Il bene e il male===
«Nelle sue pagine si racconta della miserevole condizione dell'uomo e della sua insondabile natura che agisce - lacerata tra bene e male, pulsioni interne e cogenze esterne, predestinazione e libero arbitrio - entro la limitata scacchiera della vita; una vita che è relazione e progetto, affanno e dolore, ma anche provvidenza e mistero. La Deledda sa che la natura umana è altresì - in linea con la grande letteratura europea - manifestazione dell'universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni, compensazioni e censure. Spesso, infatti, il paesaggio dell'anima è inteso come luogo di un’esperienza interiore dalla quale riaffiorano ansie e inquietudini profonde, impulsi proibiti che recano angoscia: da una parte intervengono i divieti sociali, gli impedimenti, le costrizioni e le resistenze della comunità di appartenenza, dall’altra, come in una sorta di doppio, maturano nell'intimo altri pensieri, altre immagini, altri ricordi che agiscono sugli esistenti. La coscienza dell'Io narrante, che media tra bisogni istintuali dei personaggi e contro-tendenze oppressive e censorie della realtà esterna, sembrerebbe rivestire il ruolo del demiurgo onnisciente, arbitro e osservatore neutrale delle complesse dinamiche di relazione intercorrenti tra identità etiche trasfigurate in figure che recitano il loro dramma in un cupo teatro dell'anima».
===Sentimento religioso===
«In realtà il sentimento di adesione o repulsione autorale rispetto a questo o a quel personaggio, trova nella religiosità professata e vissuta, una delle discriminanti di fondo. Di fronte al dolore, all'ingiustizia, alle forze del male e all’angoscia generata dall'avvertito senso della finitudine, l’uomo può soccombere e giungere allo scacco e al naufragio, ma può altresì decidere di fare il salto, scegliendo il rischio della fede e il mistero di Dio. Altri tormenti vive chi, nel libero arbitrio, ha scelto la via del male, lontano dal timor di Dio e dal senso del limite, e deve sopportare il peso della colpa e l'angoscia del naufrago sospeso sull’abisso del nulla».
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«Le figure deleddiane vivono sino in fondo, senza sconti, la loro incarnazione in personaggi da tragedia. L'unica ricompensa del dolore, immedicabile, è la sua trasformazione in vissuto, l'esperienza fatta degli uomini in una vita senza pace e senza conforto. Solo chi accetta il limite dell'esistere e conosce la grazia di Dio non teme il proprio destino. Portando alla luce l'errore e la colpa, la scrittrice sembra costringere il lettore a prendere coscienza dell'esistenza del male e nel contempo a fare i conti col proprio profondo, nel quale certi impulsi, anche se repressi, sono sempre presenti. Ma questo processo di immedesimazione non conosce catarsi, nessun liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, perché la vicenda tragica in realtà non si scioglie e gli eventi non celano alcuna spiegazione razionale, in una vita che è altresì mistero. Resta la ''pietas'', intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, come comprensione delle fragilità e delle debolezze umane, come sentimento misericordioso che induce comunque al perdono e alla riabilitazione di una comunità di peccatori con un proprio destino ''sulle spalle''. Anche questo avvertito senso del limite e questo sentimento di pietà cristiana rendono la Deledda una grande donna prima ancora che una grande scrittrice».<ref>Sui paragrafi ''Il peccato e la colpa'', ''Il bene e il male'', ''Sentimento religioso'' e ''Personaggi'' cfr.: Dino Manca, ''Introduzione'' a ''L'edera'', edizione critica, Cagliari, Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, 2010, pp. IX-CXVI.</ref>
===Una Sardegna mitica===
La Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e della tradizione sarda, in particolare della [[Barbagia]].
«L’isola è intesa come luogo mitico e come archetipo di tutti i luoghi, terra senza tempo e sentimento di un tempo irrimediabilmente perduto, spazio ontologico e universo antropologico in cui si consuma l’eterno dramma dell’esistere.»<ref>Dino Manca, ''Introduzione'' a ''L'edera'' cit., p. XI.</ref>
 
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L'attività epistolare e autocorrettoria di Grazia Deledda è ben ponderata, cosa che non le impedì di scrivere in lingua italiana questa lettera del [[1892]] sull'italiano: "Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà". Dall'[[epistolario]] e dal suo [[Biografia|profilo biografico]] si evince un distinto senso di noia per quei manuali di "lingua" italiana che avrebbero dovuto insegnarle lo stile e che sarebbero dovuti esserle di aiuto nella formazione della sua cultura letteraria di autodidatta, di contro emerge una grande abitudine alla lettura e una grande ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi.
 
Quella delladi Deledda era una scrittura moderna che ben si adattava alla narrazione cinematografica, infatti dai suoi romanzi vennero tratti diversi film già nei primi [[anni 1910|anni dieci]] del XX secolo. Nel 1916 il regista [[Febo Mari]] aveva iniziato a girare ''Cenere'' con l'attrice [[Eleonora Duse]], purtroppo a causa della [[I guerra mondiale|guerra]] il film non fu mai concluso.
 
Nel più recente dibattito sul tema delle identità e culture nel terzo millennio, il [[filologo]] [[Nicola Tanda]] ha scritto: "La Deledda, agli inizi della sua carriera, aveva la coscienza di trovarsi a un bivio: o impiegare la lingua italiana come se questa lingua fosse stata sempre la sua, rinunciando alla propria identità o tentare di stabilire un ponte tra la propria lingua sarda e quella italiana, come in una traduzione. Comprendendo però che molti di quei valori di quel mondo, di cui avvertiva imminente la crisi, non sarebbero passati nella nuova riformulazione. La presa di coscienza, anche linguistica, della importanza e dell'intraducibilità di quei valori, le consente di recuperare termini e procedimenti formali del fraseggio e della colloquialità sarda che non sempre trovano in italiano l'equivalente e che perciò talora vengono introdotti e tradotti in nota. Nei dialoghi domina meglio l'ariosità e la vivacità della comunicazione orale, di cui si sforza di riprodurre l'intonazione, di ricalcare l'andamento ritmico. Accetta e usa ciò che è etnolinguisticamente marcato, imprecazioni, ironie antifrastiche, risposte in rima, il repertorio di tradizioni e di usi, già raccolto come materiale etnografico per la [[Rivista di tradizioni popolari]], che ora impiega non più come reperto documentario o decorativo ma come materiale estetico orientato alla produzione di senso. Un'operazione tendenzialmente espressionistica che la prosa italiana, malata di accademismo con predilezione per la forma aulica, si apprestava a compiere, per ricavarne nuova linfa, tentando sortite in direzione del plurilinguismo o verso il dialetto."<ref>Nicola Tanda, ''Dal mito dell’isola all’isola del mito. Deledda e dintorni'', con un’appendice di lettere, Roma, Bulzoni, Roma, 1992; ''Introduzione'' a ''Canne al vento'', Milano, Mondadori, 1993.</ref>
 
Alcuni studiosi asseriscono che la Deledda, benché sardofona, abbia deciso di scrivere in lingua italiana, in risposta al clima di italianizzazione e omogenizzazione culturale, per raggiungere un più ampio mercato.<ref>[http://www.manifestosardo.org/il-bilinguismo-di-grazia-deledda/ Il bilinguismo di Grazia Deledda - Il Manifesto Sardo]</ref>
 
== Riconoscimenti ==