Esercito dello Stato della Chiesa: differenze tra le versioni

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Seconda guerra di Castro.
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== Storia ==
=== La politica militare dello Stato Pontificio ===
In base a una considerazione generica si può affermare che lo Stato della Chiesa ha cercato di difendere i beni materiali e la sua autonomia religiosa, ricorrendo, in prima istanza, al potere religioso, specie a quello della [[scomunica]], o più raramente dell'[[interdetto]], ma, quando questo non bastasse, anche all'uso delle [[arma|armi]].<ref>{{citaCita libro | cognome= Contamine| nome= Philippe | wkautore = Philippe Contamine| titolo= La guerra nel Medioevo| editore= Il Mulino| città= Bologna| anno= 2005 | ISBN = 88-15-10781-9}}</ref>
 
La politica più seguita dai papi era quella di coinvolgere nei propri interessi un altro Stato, di solito confinante, che con il suo esercito difendesse l'integrità territoriale e politica dello Stato pontificio, ricevendone in cambio onori, denaro, legittimazione della sua condotta politica e condanna religiosa dei suoi nemici.
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Nel corso del [[XVIII secolo]], dopo la cattiva prova data nella [[Guerra di successione spagnola]], l'esercito papalino fu sempre più trascurato dal governo pontificio sino a ridursi a poche migliaia di soldati, posti alla difesa di presidi, perdendo quindi ogni caratteristica di mobilità.
 
Un esercito ridotto ai minimi termini non fu dunque in grado di difendere adeguatamente il papa quando lo Stato pontificio fu invaso dalla [[Francia]] del [[Direttorio]]. Il 31 gennaio [[1797]] [[Napoleone Bonaparte]] dichiarò guerra allo Stato pontificio; subito dopo l'esercito francese ne varcò i confini. Il 4 febbraio l'esercito pontificio subì una netta sconfitta a [[Faenza]] ([[Battaglia di Faenza (1797)|Battaglia di Faenza]]). La facilità con cui i francesi vinsero lo scontro colpì fortemente i contemporanei. Ha commentato lo storico Giustino Filippone: "si rise, e per molto tempo, sulla resistenza dell'esercito pontificio e forse troppo, e con non molta ragione"<ref>Giustino Filippone, ''Le relazioni tra lo Stato pontificio e la Francia rivoluzionaria. Storia politica del trattato di Tolentino''. Milano: Giuffré, 1967. ''Citato in'': Sandro Petrucci, "L'insorgenza dell'Italia Centrale negli anni 1797-1798". Convegno nazionale dell'Istituto per la Storia delle Insorgenze (ISIN) «''Le insorgenze anti-giacobine, il problema dell'identità nazionale e la "morte della patria". Spunti per la rinascita della "nazione spontanea"''», Milano, 26 ottobre 1997 ([http://users.libero.it/oscar.sanguinetti/petrucci.htm on-line]).</ref>. Seguì l'occupazione della piazzaforte di [[Ancona]] (9 febbraio). Il 17 febbraio fu siglato il [[Trattato di Tolentino]]: la Santa Sede cedette alla [[Repubblica francese]] le Legazioni di Bologna, Ferrara, Romagna e la Marca di Ancona.
 
L'11 febbraio [[1798]] i francesi entrarono a Roma; successivamente l'esercito pontificio fu sciolto; [[Papa Pio VI]] si rifugiò prima a [[Siena]] e poi nella [[certosa]] di [[Firenze]]. Qui venne difeso dal Corpo delle "Lance spezzate", così chiamato in ricordo dei cavalieri feudali che spezzavano le loro lance per difendere il proprio signore. Il corpo, istituito da [[Paolo IV]] nel [[1555]] a difesa della persona del pontefice, era costituito da cento effettivi, scelti tra nobili e cittadini.
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[[File:Guardia palatina d'onore.jpg|miniatura|destra|Guardia palatina d'onore: 1 tamburo, 2 sottotenente, 3 sergente maggiore, 4 guardie]]
{{vedi anche|Battaglia di Cornuda|Operazioni_militari_in_Veneto_(1848)#La_guerra_dell.27esercito_romano_in_Veneto}}
Il 13 aprile [[1848]] una speciale commissione cardinalizia impose lo sganciamento del Papa dalla coalizione anti-austriaca. Pio IX con l'allocuzione ''"[[Non semel]]"''<ref>[http://www.totustuustools.net/magistero/p9nonsem.htm Testo della allocuzione ''"Non semel"'' del 29 aprile 1848].</ref> fatta al [[Concistoro#Cattolicesimo|Concistoro]] dei cardinali del 29 aprile [[1848]], mise in evidenza le motivazioni della posizione del pontefice, che come capo della Chiesa universale ed allo stesso tempo capo di uno Stato italiano, non poteva mettersi in guerra contro un legittimo regno. Il pontefice sottolineò che l'unico scopo della spedizione militare era difensivo:
 
{{citazione|In tale situazione Noi però ai Nostri Militi mandati ai confini dello Stato non volemmo che fosse ordinato altro che di difendere l’integrità e la sicurezza dei domini Pontifici.|Dalla allocuzione ''Non semel''}}
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Dopo il ripristino del potere pontificio (luglio 1849), l'esercito papalino fu formalmente sciolto. Nell'estate dello stesso anno la Francia decise di mantenere una propria guarnigione armata a difesa di Roma.
 
Nei primi anni cinquanta l'esercito fu ricostituito con effettivi sufficienti al mantenimento dell'ordine pubblico. Alla difesa dei confini esterni provvedevano le truppe francesi (che presidiavano le province centrali) e le guarnigioni austriache (di stanza ad Ancona, Bologna e Ferrara).<ref>{{citaCita|Orlandi|p. 113|Orlandi-Achille}}.</ref>
 
=== Da Castelfidardo a Porta Pia ===
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[[File:Generale Kanzler.jpg|thumb|upright=0.7|Il comandante delle truppe pontificie, il tedesco [[Hermann Kanzler]].]]
L'esito dello scontro fu sfavorevole: i sabaudi, forti di 38.000 uomini, con 5.000 cavalli e 78 pezzi d'artiglieria, sconfissero ripetutamente l'esercito pontificio, che disponeva di 21.000 effettivi e una trentina di cannoni, a Perugia, Spoleto, Castelfidardo (dove cadde de Pimodan) e Ancona. La [[Battaglia di Castelfidardo|sconfitta di Castelfidardo]] portò alla perdita di [[Marche]], [[Umbria]] e [[Sabina]]. Ai prigionieri fu riservato un duro trattamento: incolonnati, furono condotti a marce forzate in Piemonte, da dove tornarono a casa solo dopo lunghi mesi.<ref>{{citaCita libro | Roberto | De Mattei | Pio IX | 2000 | Piemme}}</ref> I feriti furono ammassati nei pressi del [[santuario di Loreto]], che fu trasformato in ospedale. Anche in questo caso i francesi non si mossero per combattere fuori da Roma. La Santa Sede ricompensò simbolicamente coloro che parteciparono alla sfortunata battaglia con un'onorificenza, la [[Medaglia di Castelfidardo]].
 
Dopo la perdita delle Marche, dell'Umbria e della Sabina l'estensione del confine terrestre dello Stato si era ridotta a 350&nbsp;km. La Santa Sede avviò una nuova riorganizzazione dell'esercito. L'esercito pontificio ritornò alla sua funzione tradizionale: il mantenimento dell'ordine pubblico. Il ministro de Mérode nominò due nuovi comandanti generali: il tedesco [[Hermann Kanzler]] e il romagnolo [[Giovanni Battista Zappi (generale)|Giovanni Battista Zappi]]. Fu ricreata la compagnia di San Patrizio, che si era dimostrata tanto valorosa negli scontri di Spoleto e Castelfidardo. La riorganizzazione fu completata con la creazione del reggimento degli [[Zuavi pontifici]] (1º gennaio [[1861]]).
 
Nel [[1864]] lo Stato italiano trasferì la capitale da Torino a Firenze. Si trattava di una mossa di avvicinamento a Roma, considerata come obiettivo finale. Nello stesso anno il Regno d'Italia firmò con Napoleone III una convenzione («[[Convenzione di settembre]]») in base alla quale i francesi si impegnavano a ritirare le proprie truppe di stanza a Roma nel giro di due anni. Temendo attacchi non dichiarati, la Santa Sede chiamò a raccolta i cattolici di tutt'Europa; l'invito ricevette un'accoglienza positiva in molti Paesi europei, che inviarono armi (lo Stato Pontificio non disponeva di fabbriche d'armi) e denaro e raccolsero schiere di volontari. In Francia fu creata la "Legione d'Antibes" (dalla città di [[Antibes]]). Si arruolarono anche belgi, olandesi, irlandesi e anche inglesi. I volontari affluirono a Roma con le loro famiglie, che fornirono cavalli e denaro per l'armamento. Arrivarono addirittura dei volontari dal [[Canada]] e dagli [[Stati Uniti]]<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 664|O'Clery, 2000}}.</ref>. Dall'ottobre [[1865]] [[Hermann Kanzler]] avvicendò il cardinale de Mérode come ministro delle Armi.
 
[[File:Legione d antibes.jpg|miniatura|destra|Divise della Legione d'Antibes.]]
[[File:Messa soldati con Pio IX.jpg|thumb|Pio IX celebra la Messa con i soldati pontifici. 2 luglio 1868.]]
Nel [[1866]] la Legione d'Antibes, formata da 1.100 uomini, quasi tutti francesi, al comando del colonnello D'Argy, giunse a Roma come nuovo corpo francese dello Stato Pontificio<ref>{{citaCita|Orlandi|p. 139|Orlandi-Achille}}.</ref>. Nel settembre dello stesso anno iniziò il rimpatrio delle truppe francesi di stanza nel Lazio. L'ultimo reggimento partì da Civitavecchia il 12 dicembre. Le sentinelle pontificie sostituirono i soldati regolari francesi in tutte le postazioni militari, mentre nell'Urbe (comprese le Porte esterne) furono schierati gli [[Zuavi pontifici]]<ref>Luca Stefano Cristini, ''I soldati del Papa'', Soldiershop Publishing, 2015.</ref>.
 
Nel [[1867]] l'esercito pontificio contava 13.000 uomini (con dodici cannoni e novecento cavalli), a difendere il Lazio, sotto il comando del generale de Courten. Due terzi dei soldati erano italiani, mente l'altro terzo era composto di Zuavi<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 621|O'Clery, 2000}}.</ref>.
La truppa in armi, ammontante a diecimila uomini, fu schierata in quattro zone: Viterbo, Civitavecchia, Tivoli e Velletri-Frosinone. I corpi numericamente più consistenti erano: la Gendarmeria (2083 uomini con 305 cavalli); il Reggimento Zuavi (2237 uomini); il Reggimento Fanteria di Linea (1595 uomini); il Battaglione Carabinieri (1233 uomini) e il Battaglione Cacciatori (956 uomini).<ref>{{citaCita|Orlandi|p. 140|Orlandi-Achille}}.</ref> A guardia di Roma fu posta una guarnigione di 6.000 soldati, comandata dal generale Zappi. La principale funzione dell'esercito era la difesa dagli attacchi delle formazioni garibaldine; nel caso di un attacco dell'esercito italiano (che aveva quattro volte il numero dei soldati pontifici) il Papa avrebbe contato sull'intervento delle potenze cattoliche<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 622|O'Clery, 2000}}.</ref>.
 
Il pericolo di un attacco garibaldino era concreto: infatti in quell'anno, tra luglio e agosto, [[Giuseppe Garibaldi]] organizzò una spedizione contro lo Stato della Chiesa. Il 28 settembre i primi garibaldini varcarono i confini. L'esercito pontificio intervenne prontamente; la Francia inviò una divisione di 9.000 uomini, che sbarcarono in ottobre a [[Civitavecchia]] in aiuto dei pontifici. Per la prima volta dal 1859, Pio IX si pronunciò pubblicamente con l'allocuzione ''Levate'' (27 ottobre 1867). L'attacco garibaldino fu respinto. La vittoria decisiva fu ottenuta nella '''[[Battaglia di Mentana]]''' (3 novembre): tremila pontifici e duemila francesi sconfissero circa novemila garibaldini.<br />
Tutti i reduci della vittoriosa campagna furono insigniti della ''Croce fidei et virtuti'' (nota come [[Croce di Mentana]])<ref>La Croce era costituita da un fregio d'argento, a forma di croce ottagonale, accompagnato da una medaglietta che riportava la scritta ''Fidei et Virtute'' da un lato e ''Hinc Victoria'' dall'altro.</ref>. Non tutti i militari francesi ritornarono in Patria: la Francia decise di mantenere una guarnigione di stanza nella fortezza di Civitavecchia e due presidi, uno a [[Tarquinia]] e uno a [[Viterbo]]: in tutto 4.000 uomini<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 664|O'Clery, 2000}}.</ref>.
 
L'esercito del [[1870]] era sempre costituito da oltre 13.000 effettivi (per la precisione, 13.624)<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 687|O'Clery, 2000}}.</ref>, di cui oltre circa 8.300 inquadrati nell'esercito regolare e 5.324 volontari stranieri. L'esercito regolare era così composto: Fanteria, Carabinieri, Cacciatori, Dragoni e Artiglieri (che avevano dato buona prova di sé a [[Mentana (Italia)|Mentana]], con il sostegno degli alleati francesi di [[Napoleone III]]). Al battaglione costituito dai gendarmi bolognesi si aggiunsero due squadroni a cavallo provenienti dalla città felsinea. Fra gli italiani non mancava nessuna delle famiglie dell'aristocrazia cattolica: il principe [[Pietro Aldobrandini]], il principe [[Paolo Borghese]], il principe [[Francesco Maria Ruspoli, VI principe di Cerveteri|Francesco Maria Ruspoli]], il principe Vittorio [[Odescalchi]], il principe Carlo [[Chigi]] Albani della Rovere, il principe [[Alfonso di Borbone-Due Sicilie]] fratello dell'ex Re delle Due Sicilie; il principe [[Alfonso Carlo di Borbone-Spagna]] ed altri rappresentanti della nobiltà europea. I 5.324 volontari<ref>Così ripartiti per nazionalità: 3.000 francesi, 1.200 tedeschi e austriaci, mille svizzeri, 900 olandesi, 700 belgi, 300 franco-canadesi, poi altre nazionalità in misura minore, tra cui Canada francese e Stati Uniti.</ref> costituivano i reggimenti degli [[Zuavi pontifici|Zuavi]], della Legione d'Antibes e dei Cacciatori stranieri.
 
Nella prima settimana di settembre il generale Kanzler aveva schierato 2.000 uomini nelle province di Velletri e Frosinone; 1.000 a Viterbo; altrettanti a Civitavecchia. Gli ordini erano di resistere all'attacco delle camicie rosse, ma in caso di invasione dell'esercito sabaudo, gli ordini erano di ripiegare verso Roma<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 688|O'Clery, 2000}}.</ref>.<br />
L'invasione dell'esercito italiano ebbe inizio all'alba del 12 settembre: le truppe sabaude, al comando del generale [[Raffaele Cadorna (1815-1897)|Raffaele Cadorna]] penetrarono nello Stato Pontificio in tre punti: la II Divisione, al comando del generale [[Nino Bixio]], attraversò il confine da nord-est muovendosi lungo la strada che costeggia ad est il [[lago di Bolsena]]; la XII Divisione (maggiore generale De La Roche) provenendo dalla [[Sabina]] attraversò il [[Tevere]] a [[Magliano Sabina]]; la IX divisione, partendo da sud, valicò l'[[Appennino abruzzese]] poi scese lungo la [[valle del Liri]] fino a [[Ceprano]]. La marcia verso l'Urbe delle due divisioni non incontrò seri ostacoli; la XII Divisione giunse in vista di Roma il 14 settembre mentre la IX occupava Frosinone e Anagni giungendo a Velletri il 16 settembre. <br />
In città, intanto, fu proclamato lo [[stato d'assedio]]. La giornata del 18 settembre, una domenica, trascorse in relativa tranquillità. Pio IX, avendo compreso che la fine dello Stato pontificio era inevitabile, diede ordine ai soldati di opporre una resistenza simbolica per mostrare al mondo che la Santa Sede non abdicava, ma veniva invasa da un esercito occupante<ref>{{citaCita libro | Gilberto | Oneto | La strana unità | 2008 | Il Cerchio | pag. 98}}</ref>. Il pontefice consegnò un ordine scritto al generale Kanzler in cui, dopo aver lodato la disciplina e il valore delle forze a difesa della Santa Sede, affermava:
 
{{citazione|[...] Per quanto riguarda la durata della difesa, resta mio dovere ordinare che questa consista solo in una protesta atta a testimoniare la violenza fattaci; in altre parole, che i negoziati di resa siano aperti non appena sia stata praticata una breccia.
:Dal Vaticano, 19 settembre 1870}}
 
Il 19 settembre alle ore 19 il generale Cadorna diramò l'ordine di attacco. Il primo colpo di cannone contro l'Urbe fu sparato alle 5,10 del 20 settembre. L'attacco alla città fu portato in diversi punti. A [[Trastevere]] Bixio ebbe a che fare con mura costruite solidamente e, allo stesso tempo, restò esposto al fuoco dei soldati pontifici<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 710|O'Clery, 2000}}.</ref>. Invece le mura tra [[Porta Salaria]] e [[Porta Pia]] (l'accesso sulla [[via Nomentana]]) erano molto più vulnerabili: qui si concentrò l'attacco dell'esercito italiano. Verso le 9 fu aperta una breccia alla sinistra di Porta Pia. Prima ancora che le truppe italiane penetrassero attraverso la breccia dentro la città murata fu issata la bandiera bianca<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 712|O'Clery, 2000}}.</ref>. Mentre la resistenza cessava a Porta Pia, la bandiera bianca fu issata lungo tutta la linea delle mura. Le perdite per l'esercito pontificio furono contenute: 15 morti e 68 feriti.
 
=== Dopo Porta Pia: lo scioglimento ===
{{Vedi anche|Città del Vaticano#Esercito, polizia e protezione civile{{!}}Esercito, polizia e protezione civile nella Città del Vaticano}}
[[File:Pio IX Saint Peter Square 1870.jpg|thumb|Le truppe pontificie salutano per l'ultima volta [[Pio IX]] prima di lasciare Roma (21 settembre 1870).]]
Tra le condizioni di capitolazione imposte dal generale Cadorna agli sconfitti, una di esse fu lo scioglimento dell'esercito pontificio. Rimasero operativi solamente quattro corpi: la [[Guardia Svizzera]], la [[Guardia Palatina]], la [[Guardia nobile]] e la [[Gendarmeria Pontificia]], che restarono a presidiare la [[Città Leonina]], ovvero l'ultimo lembo di Roma non occupato dai soldati italiani. Le restanti truppe, dopo l'onore delle armi tributato dai soldati vincitori, furono disarmate e condotte a Civitavecchia. Qui, soldati regolari e volontari stranieri si divisero: questi ultimi furono imbarcati su navi francesi, tra cui la fregata ''Orénoque''. Gli italiani furono avviati verso la fortezza di [[Alessandria]]. Dal 30 settembre in poi le autorità iniziarono a liberarli e a rimandarli alle proprie case<ref>{{citaCita|P. K. O'Clery|p. 724|O'Clery, 2000}}.</ref>.
 
Ai prigionieri fu proposto di passare sotto le insegne dei vincitori. Solo un centinaio accettò. Per gli altri, com'era già avvenuto nel 1860, fu riservato un trattamento molto rigido: 4.800 soldati furono condotti a marce forzate in alcune fortezze del Nord della penisola. Gli altri (emiliani, romagnoli, marchigiani, veneti e lombardi) furono considerati "traditori" e vennero rinchiusi nel carcere speciale di Fenestrelle. Per tutti la detenzione fu lunga e le condizioni di vita durissime.<ref>Marianna Borea, ''L'Italia che non si fece'', cit.</ref>