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Gli arrestati furono tradotti al carcere di Tor di Nona e immediatamente posti sotto [[processo]]. I primi interrogatori furono condotti dal procuratore fiscale Giovambattista Bizzoni, cui poi subentrò il governatore [[Alessandro Pallantieri]]. Per primo fu ascoltato il cavalier Pelliccione, che diede conto dei vagheggiamenti del conte Manfredi in merito alle sue mire sulla valle del [[Lamone]], antico feudo della sua famiglia, ove affermava di voler provocare una [[sommossa]] e, una volta postosi a capo dell'esercito dei rivoltosi, prendere il mare e attaccare [[Venezia]]. Disse altresì che Benedetto Accolti, da lui definito ''figlio bastardo del cardinale d'Ancona'', lo aveva attirato con discorsi evocanti la necessità di una ''liberatione de Italia'' e ''revolutione della Chiesa'' passante attraverso l'uccisione di Pio IV, che a detta di Benedetto ''non era il vero papa'' e avrebbe pertanto dovuto essere eliminato per far spazio a un ''papa vero e santo''.
Taddeo Manfredi confermò quanto detto dal
Antonio Canossa impostò la sua strategia difensiva sulla falsariga dei compagni, asserendo che il movente della congiura era completamente spirituale. Appellandosi al suo stato di aristocratico ed esponente di una famiglia (i [[dinastia dei Canossa|Canossa]]) ''cui la Sede Apostolica è obbligata più che a nessuna famiglia de Italia'', egli rifiutò ripetutamente di rispondere alle domande del governatore, chiedendo poi di essere risparmiato dalla tortura e di poter prendere visione dei capi d'accusa per approntare la sua difesa. Tali garanzie gli furono negate e tra il 20 e il 28 dicembre il Canossa venne orrendamente torturato, giungendo quasi in punto di morte.
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