Attentato di via Rasella: differenze tra le versioni

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=== Valutazioni storiografiche ===
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Al contrario, altri autori hanno individuato proprio nella volontà di scatenare una prevedibile reazione tedesca, violenta al punto da indurre la popolazione a schierarsi contro gli occupanti, uno dei motivi che spinsero i partigiani comunisti a effettuare, nel pieno centro di Roma, un attacco che giudicano di portata senza precedenti. La prevedibilità di una strage sarebbe derivata, oltre che da una generale notorietà del ricorso a rappresaglie indiscriminate da parte degli occupanti, da precedenti nella stessa Roma individuati in varie [[Martiri di Forte Bravetta|esecuzioni di Forte Bravetta]] (fucilazioni di una decina di prigionieri alla volta) seguite ad attentati partigiani ai danni di uno o più soldati tedeschi. Formulata inizialmente per affermare la "moralità rivoluzionaria" della strategia gappista, la tesi della rappresaglia cercata è stata in seguito proposta soprattutto dai suoi critici.
 
==== Le prime interpretazioni degli anni sessanta ====
Tra i primi ad affermare che i GAP agissero per provocare i tedeschi e spingerli a inasprire le violenze verso la popolazione vi fu – valutando positivamente tale condotta – il giornalista ed ex partigiano [[Giorgio Bocca]]. In una sua opera del 1966, Bocca afferma che il terrorismo urbano dei GAP rappresentava «un atto di moralità rivoluzionaria», la quale «non può tollerare isole di privilegio e di ingiusto rispetto, che si uccida, si torturi, si incendi nei villaggi di montagna e nei quartieri operai mentre le enclaves della borghesia cittadina restano tranquille e, dentro, tranquilli gli oppressori»<ref>{{cita|Bocca 1996|p. 165}}.</ref>. Circa la strategia dei gappisti in generale e senza fare specifico riferimento all'attentato di via Rasella (definito più avanti «il maggiore atto del terrorismo partigiano»<ref>{{cita|Bocca 1996|p. 329}}.</ref>), Bocca continua scrivendo che, in contrasto con gli altri partiti e al di là delle loro stesse intenzioni dichiarate,
 
{{citazione|i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla, subito<ref>{{cita|Bocca 1996|pp. 165-6}}.</ref>{{#tag:ref|Bocca chiarì il suo punto di vista in un'intervista del 1981, nella quale dichiarò che l'attentato era stato un atto «necessario perché Roma, in quel periodo, era una città "aperta"; per ragioni di politica del Pontefice; del Vaticano; degli Alleati, veniva esclusa dalla guerra partigiana; [...] Allora, in una situazione come questa, mi pareva fosse giusto che dei gruppi, delle avanguardie partigiane in lotta cercassero di coinvolgere la città capitale del paese in una lotta che era la lotta di tutto il Paese. Questo privilegio di Roma di rimanere fuori dalla guerra, mi sembrava un privilegio un po' immorale. [...] con quell'atto, chiamiamolo pure "terroristico", si era cercato di far capire all'intero paese, e al mondo, che anche a Roma si combatteva contro i tedeschi». Cfr. ''Una «inutile strage»? Da via Rasella alle Fosse Ardeatine'', a cura di [[Angiolo Bandinelli]] e [[Valter Vecellio]], Napoli, Pironti, 1982, p. 152.|group=N}}.}}
 
Il giornalista americano [[Robert Katz]], autore nel 1967 della prima monografia sull'argomento, si schiera anch'egli apertamente in difesa della legittimità morale dell'attentato. Tuttavia, diversamente da Bocca, Katz non ritiene che i gappisti – descritti come giovani inconsapevoli del grado di ferocia del nemico<ref>{{cita|Katz 1968|pp. 187-8}}.</ref> – cercassero una violenta reazione tedesca per impartire una lezione alla popolazione. Allo stesso tempo, respinge l'accusa secondo cui i partigiani «avrebbero dovuto sapere che i tedeschi avrebbero commesso delle atrocità in una forma o nell'altra», e quindi astenersi dal compiere l'attentato, liquidandola come il prodotto di «ragionamenti che tendono ad incitare alla sottomissione» verso ogni forma di oppressione e minaccia. Lo scrittore americano giudica la lotta armata l'unica valida alternativa alla sottomissione, dato che anche la resistenza passiva e la non collaborazione potrebbero provocare reazioni violente dell'occupante. Proprio l'estrema violenza della strage delle Fosse Ardeatine, un massacro senza precedenti in Italia, avrebbe dimostrato che i partigiani agirono giustamente: non erano essi a dover prevedere le atrocità tedesche, bensì i non resistenti, i quali avrebbero dovuto quindi «lottare uniti contro l'occupante». Giudicando «assurdo isolare una singola azione in un movimento genuino di resistenza», negare l'opportunità dell'attacco di via Rasella equivarrebbe, secondo Katz, a rifiutare la resistenza nel suo complesso, dato che sarebbe «facile concludere che qualsiasi azione partigiana, fra le cento compiute a Roma, avrebbe potuto avere per conseguenza l'eccidio delle Ardeatine». Contestare l'azione gappista del 23 marzo (la cui unica criticità sarebbe il non aver dato i risultati sperati dai partigiani) equivarrebbe inoltre a screditare tutti i combattenti di ogni movimento di liberazione europeo e ciò a sua volta significherebbe «disarmare i combattenti per la libertà di domani»<ref>{{cita|Katz 1968|pp. 236-7}}.</ref>.
 
==== Il dibattito degli anni novanta ====
In un saggio del 1993 sull'occupazione tedesca in Italia, lo storico tedesco [[Lutz Klinkhammer]] cita la lettera di Luigi Longo al PCI romano dell'8 gennaio 1944, giudicandola «una fonte di fondamentale importanza per spiegare la crescita della Resistenza in Italia e della repressione contro di essa». Riconoscendo che Longo avesse ragione nell'affermare che le rappresaglie procurassero agli occupanti l'ostilità della popolazione, Klinkhammer ritiene che «i dirigenti comunisti mettevano consapevolmente in conto le rappresaglie contro la popolazione civile, anzi in questo conto individuavano quasi un effetto auspicabile, in quanto esso aizzava la popolazione contro la potenza armata e apportava un maggior potenziale di sostegno ai partigiani»<ref>{{cita|Klinkhammer 2007|pp. 213-4}}. In nota (p. 531, n. 130) si aggiunge che questa «fu anche la logica degli autori dell'attentato di via Rasella».</ref>. Tuttavia, se le rappresaglie in generale erano messe in conto dai partigiani, secondo Klinkhammer, tornato sull'argomento nel 1997, l'entità numerica della strage delle Fosse Ardeatine «era difficilmente prevedibile», dato che in precedenza «non c'era mai stato in Italia un atto di vendetta di tali dimensioni. Solo a seguito di questo diventò possibile presagire a quali repressioni fosse pronta la forza d'occupazione»<ref>{{cita|Klinkhammer 1997|pp. 11-2}}.</ref>.
 
Un altro storico tedesco, Friedrich Andrae, affrontando la questione in uno studio del 1995 sui crimini di guerra tedeschi in Italia, indica tre possibili motivazioni dell'attentato: oltre a denunciare la violazione dello status di città aperta da parte dei tedeschi e a demoralizzare i fascisti in un giorno per loro solenne, Andrae assegna «particolare rilevanza» alla terza possibile causa, individuata nell'«intenzione dei Gap di sfidare i tedeschi, di spingerli alla rappresaglia, che a sua volta avrebbe accresciuto l'odio della popolazione nei confronti della potenza occupante, come pure di dare nuovo impulso al movimento resistenziale romano, fortemente disunito al proprio interno, per mezzo di un'azione spettacolare, con l'obiettivo di provocare una sollevazione popolare dei romani o incitare uno stato d'animo rivoluzionario, anche tenuto conto della vicinanza delle forze armate alleate e di una loro auspicata rapida avanzata su Roma»<ref>{{cita|Andrae 1997|p. 120}}.</ref>.
 
Secondo [[Aurelio Lepre]], autore nel 1996 di un ''instant book'' su via Rasella, i romani erano impegnati nella difficile lotta per la sopravvivenza ed erano restii a farsi coinvolgere nella guerra (atteggiamento riflesso nella posizione dei moderati del CLN), cosicché il fine dei gappisti – giudicato dallo storico «una forzatura degli avvenimenti» – era «tentare di costringerli a schierarsi, attraverso un gesto di estrema violenza»<ref>{{cita|Lepre 1996|p. 51}}.</ref>. Sulla scelta dei GAP di attaccare i tedeschi avrebbe influito anche il fatto che «la facilità dell'esecuzione dell'attentato in via Tomacelli e la mancanza di reazioni diedero la falsa impressione di una guerriglia che poteva portare i suoi colpi senza coinvolgere la popolazione civile nelle rappresaglie»; si trattava però di un «calcolo errato», giacché i gappisti praticavano, oltre a un terrorismo scientifico, anche uno «fondato sull'improvvisazione, sull'intuito, che guardava al gesto da compiere più che alle sue possibili conseguenze»<ref>{{cita|Lepre 1996|p. 22}}.</ref>. Attaccare dei soldati tedeschi «non era la stessa cosa, e l'esempio di via Tomacelli non valeva più», cosicché Lepre conclude: «Se i gappisti avessero esaminato le possibili conseguenze dell'attentato, avrebbero dovuto prevedere una dura rappresaglia»<ref>{{cita|Lepre 1996|p. 29}}.</ref>{{#tag:ref|È tuttavia da rilevare che {{cita|Bentivegna 2004|p. 118}}, afferma che già nel dicembre 1943, allorché fu dato loro l'ordine di attaccare i tedeschi, i gappisti erano perfettamente consapevoli che l'assenza di reazioni a precedenti attacchi contro i fascisti non era significativa, e che «certamente diversa» sarebbe stata la reazione dei tedeschi se avessero «cominciato a colpire anche loro».|group=N}}. Più avanti, Lepre critica comunque la condotta dei gappisti, perché se «prima di via Rasella non immaginavano che vi sarebbero potute essere rappresaglie così spietate e che all'uccisione dei soldati tedeschi si sarebbe risposto con una strage, continuarono anche in seguito a progettare attentati di eguale portata e che avrebbero potuto avere conseguenze analoghe»<ref>{{cita|Lepre 1996|p. 49}}.</ref>.
 
In un saggio del 1997 dedicato a un analogo caso di "memoria divisa", quello dell'[[eccidio di Guardistallo]], [[Paolo Pezzino]] dedica alcune riflessioni anche a via Rasella. Richiamandosi a Lepre, Pezzino ritiene che lo scopo dei partigiani fosse quello di costringere la popolazione a schierarsi. Facendo riferimento alla tesi della "pedagogia impietosa" di Bocca, Pezzino individua proprio nella rappresaglia lo strumento mediante il quale coinvolgere la popolazione nella lotta contro gli occupanti, come fu intuito anche da quegli ufficiali tedeschi che si opposero senza successo alla strage «per motivazioni appunto "politiche" e non certo umanitarie»<ref>{{cita|Pezzino 2007|p. 168}}.</ref>. Pezzino sostiene che i partigiani agissero mossi da un'"etica del sacrificio" (una forma di "etica della convinzione", concetto elaborato da [[Max Weber]] in contrapposizione all'"etica della [[responsabilità (filosofia)|responsabilità]]"), la quale li «spinge[va] spesso a valutare come secondarie le considerazioni di salvaguardia della vita umana (in primo luogo la propria)»<ref>{{cita|Pezzino 2007|p. 170}}. Pezzino riprende l'applicazione delle categorie etiche di Weber alla guerra partigiana da un saggio del filosofo [[Tzvetan Todorov]] sulla strage di [[Saint-Amand-Montrond]]: ''Una tragedia vissuta. Scene di guerra civile'', Milano, Garzanti, 1995.</ref>.
 
[[Alberto Benzoni]] (saggista, esponente del PSI, già vicesindaco di Roma) e sua figlia Elisa (storica), in una loro monografia su via Rasella del 1999, interpretano l'attentato come parte di un piano strategico del PCI romano, finalizzato a suscitare un'insurrezione popolare, della quale i comunisti avrebbero voluto porsi alla guida e che, nelle loro intenzioni, avrebbe dovuto fortemente ridimensionare l'influenza degli altri partiti in seno al movimento resistenziale. Gli autori respingono la tesi, già proposta da Amendola e Bentivegna, secondo cui una rappresaglia per l'attentato di via Rasella, data la presunta mancanza di significative reazioni alle tante azioni a fuoco precedenti, sarebbe stata imprevedibile: «Al contrario, come in una specie di [[roulette russa]], ogni attentato senza risposta accresceva la possibilità che essa scattasse e con maggiore violenza dopo l'azione seguente. In altre parole, la rappresaglia tedesca era da ritenere pressoché certa, proprio perché si riferiva a un'azione non solo clamorosa ma successiva a molte altre»<ref>{{cita|Benzoni 1999|pp. 77-8}}.</ref>. Individuato comunque un precedente significativo nella rappresaglia del 7 marzo conseguente a un attentato gappista in piazza dei Mirti, resa nota dai tedeschi con un comunicato che i due autori giudicano «ampiamente noto a tutti» (e ricordato da Bentivegna stesso<ref name=bentivegna-desimone/>), i Benzoni ritengono «indiscutibile che, nell'orizzonte della dirigenza gappista, una reazione violenta e sproporzionata dei tedeschi, rispetto alla provocazione gravissima che avrebbero subito, dovesse essere considerata quasi una certezza. Essa era un elemento fondamentale dell'equazione politico-militare che il PCI aveva di fronte»<ref>{{cita|Benzoni 1999|pp. 78-9}}.</ref>. In quest'ottica, secondo gli autori, l'attentato ebbe come bersaglio principale i tedeschi, e come bersaglio secondario le posizioni – dal PCI considerate attesiste – di chi, nella popolazione e nello stesso fronte resistenziale, era contrario ad alzare il livello di violenza dello scontro con gli occupanti. La rappresaglia tedesca sarebbe stata considerata in anticipo dagli attentatori come un elemento utile a diffondere nella popolazione l'odio contro l'occupante, in modo da metterla – sulla base di un calcolo poi rivelatosi errato – sulla strada dell'insurrezione<ref>{{cita|Benzoni 1999|pp. 82-6}}.</ref>. Precedenti come la rappresaglia per l'attentato in piazza dei Mirti avrebbero dovuto far dubitare che i tedeschi avrebbero reagito con una violenza indiscriminata contro la popolazione, essendo «assai più probabile che reagissero seguendo quella prassi di rappresaglia feroce, ma mirata, che avevano già avuto occasione di applicare»<ref>{{cita|Benzoni 1999|p. 87}}.</ref>{{#tag:ref|Dopo la morte di [[Erich Priebke]] nel 2013 è stato diffuso un suo video-testamento, nel quale l'ex capitano delle SS afferma che a via Rasella i gappisti agirono allo scopo di provocare la rappresaglia. In tale occasione Alberto Benzoni ha riproposto la sua tesi: «può succedere che anche il peggiore dei criminali [...] possa enunciare una qualche verità. E, nel caso specifico, l'ex ufficiale delle SS, quando sostiene che l'attentato del 23 marzo aveva per scopo di scatenare reazioni e controreazioni incontrollabili che dovevano sfociare nell'insurrezione, ha perfettamente ragione». Cfr. {{cita news|Alberto Benzoni|http://www.avantionline.it/2013/10/1944-via-rasella-una-scomoda-verita/|1944, via Rasella. Una scomoda verità|Avanti!|17 ottobre 2013}}|group=N}}.
 
In un saggio di [[storia orale]] sulla memoria di via Rasella e delle Fosse Ardeatine del 1999, [[Alessandro Portelli]] si propone di contestare l'interpretazione presente «nella maggior parte della storiografia e nei libri di scuola, oltre che nelle polemiche politiche e giornalistiche», in cui le due vicende sono «trattate come un evento unico e autoconcluso», sostenendo che invece rappresentano «''due eventi distinti'', connessi tra loro da una relazione evidente ma tutt'altro che automatica, anzi altamente problematica»<ref name="Portelli19">{{cita|Portelli 2012|p. 19}} (corsivo nel testo).</ref>. Secondo Portelli, la «credenza nell'automaticità e inevitabilità della rappresaglia» si fonderebbe sulla convinzione che via Rasella fosse la prima azione dei partigiani romani, mentre «al centro di Roma erano già avvenuti attentati in cui erano stati uccisi parecchi tedeschi, senza che ne seguisse una rappresaglia sulla popolazione»<ref>{{cita|Portelli 2012|pp. 150-1}}.</ref>. Più in generale, dopo aver sottolineato come l'occupazione tedesca di Roma fosse caratterizzata da numerose e gravi violenze contro i civili spesso non determinate da alcun precedente attentato partigiano<ref name="Portelli19"/>, Portelli sostiene non esservi mai stato un rapporto di [[Implicazione logica#Coimplicazione|coimplicazione]] fra le stragi perpetrate dai nazisti e i precedenti attacchi effettuati dalla Resistenza, in quanto, da una parte, non ogni attacco partigiano era seguito da una corrispondente rappresaglia tedesca; dall'altra, «non è vero [...] che ''ogni'' massacro tedesco fu una ''risposta'' a un'azione partigiana»<ref name="Portelli207">{{cita|Portelli 2012|p. 207}} (corsivo nel testo).</ref>. In specifico, Portelli reputa che una rappresaglia come quella delle Fosse Ardeatine (che egli definisce «un massacro senza precedenti in Italia»<ref name="Portelli207"/>) non si potesse prevedere sulla base delle fucilazioni avvenute a Forte Bravetta prima del 23 marzo, poiché, pur seguendo talvolta ad azioni partigiane, in quei casi «non si trattò di stragi indiscriminate, ma dell'esecuzione di condanne a morte già pronunciate dopo almeno una parvenza di processi, su persone accusate di azioni specifiche. La notizia fu data, con manifesti e sui giornali, solo dopo il fatto; la relazione con gli attentati venne suggerita per contiguità ma non formalmente proclamata». Data la propensione dei tedeschi a non dare notizia degli attentati subiti in modo da non dare pubblico rilievo alla Resistenza, la particolarità di via Rasella consiste, per Portelli, nell'essere il primo attentato «''che non si può pubblicamente fingere di ignorare''», a causa della sua «combinazione di gravità e visibilità»<ref>{{cita|Portelli 2012|p. 208}} (corsivo nel testo).</ref>.
 
Recensendo il saggio di Portelli, Paolo Pezzino scrive che «la valutazione della ricaduta dell'azione sulla popolazione non poteva non essere stata presa in considerazione dai gappisti, e appare poco convincente Portelli quando sostiene che non era affatto scontata la reazione tedesca, dato che in passato l'automatismo fra azione partigiana e rappresaglia tedesca non era scattato, e "al centro di Roma erano già avvenuti attentati in cui erano stati uccisi parecchi tedeschi, senza che ne seguisse una rappresaglia sulla popolazione". Egli stesso deve ammettere che via Rasella non era "il primo attentato partigiano – ma il primo ''che non si può pubblicamente fingere di ignorare''", e quindi, proprio per la sua "combinazione di gravità e visibilità", una rappresaglia era da considerare più che probabile, anche se non se ne potevano prevedere le esatte dimensioni». Pezzino ribadisce la propria tesi secondo cui la rappresaglia fu «una delle conseguenze volute dai gappisti» per costringere la popolazione a schierarsi, come spiegato da Giorgio Bocca «in un libro che per essere stato scritto in tempi più tolleranti verso le ideologie rivoluzionarie è senz'altro meno reticente su questo punto»<ref>{{cita|Pezzino 2000|pp. 243-5}}.</ref>. Tale mutamento interpretativo nella storiografia più favorevole ai gappisti va inquadrato, secondo Pezzino, in una generale «autocensura partigiana» sulla propria «identità rivoluzionaria», dovuta a «un imbarazzo, precisamente quello di riportare la giustificazione delle proprie azioni a motivazioni di un'ideologia rivoluzionaria oggi non solo sconfitta sul terreno politico, ma anche accompagnata da un generale e progressivamente incontrastato disdoro sul piano etico. Eppure è da presumere, considerando i caratteri di quell'ideologia, nella specifica declinazione [[stalinismo|stalinista]] che era propria di quegli anni, che proprio l'intento rivoluzionario fosse prevalente in molti di quei giovani che con cosciente scelta politica parteciparono alla resistenza, e tanto più in gappisti come quelli romani, per lo più intellettuali di giovane età, e perciò propensi ad una valutazione positiva di gesti estremi»<ref>{{cita|Pezzino 2000|p. 243}}.</ref>.
 
==== Dagli anni duemila ====
Joachim Staron, storico tedesco autore di un ampio studio sugli eccidi delle Fosse Ardeatine e di [[strage di Marzabotto|Marzabotto]] nel mito nazionale dell'Italia repubblicana, scrive che ai vari miti sugli eventi romani del marzo 1944 diffusi a destra corrispondono «altre leggende, diffuse soprattutto a sinistra, come quella riassumibile nell'affermazione, più volte ripetuta dagli attentatori di via Rasella nel corso dei vari processi, secondo cui essi non avrebbero assolutamente potuto prevedere l'eventualità di una rappresaglia»<ref>{{cita|Staron 2007|p. 9}}.</ref>. L'autore cita diversi testimoni del processo Kappler del 1948 a sostegno del fatto che, prima dell'attentato di via Rasella, i tedeschi avessero già eseguito rappresaglie per azioni partigiane mediante fucilazioni di dieci prigionieri per ogni loro caduto{{#tag:ref|Tra i testimoni citati, due ex difensori dei partigiani innanzi al tribunale di guerra tedesco: Ottone (Otto) Vinatzer, che – giudicato da Staron «non sospettabile di nutrire simpatia per i tedeschi» – si disse peraltro convinto che i gappisti avessero agito per creare un «monumento» di odio antitedesco; e Arturo Gottardi, il quale riferì che in precedenza uno dei suoi assistiti era stato inserito in una lista di dieci persone da fucilare per rappresaglia. Negli anni settanta Vinatzer ribadì la sua convinzione: dopo via Rasella, presagendo insieme al collega [[Bruno Cassinelli]], difensore di Montezemolo, una rappresaglia contro prigionieri (essendocene già state in precedenza «tre o quattro»), Vinatzer aveva contattato padre [[Pancrazio Pfeiffer]], portavoce vaticano presso il comando tedesco, il quale gli aveva risposto di essersi già attivato per dissuadere i tedeschi dal compiere la strage, «onde non cadere nel tranello teso loro dagli attentatori, ai quali non interessava l'uccisione di una trentina di vecchi piantoni, ma che volevano provocare l'inevitabile rappresaglia tedesca, onde costruire a Roma [...] un momento di odio antitedesco, perenne». Cfr. {{cita news|Giovanni Preziosi|http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/071q01.pdf#page{{=}}4|E padre Pancrazio allargò le braccia|L'Osservatore Romano|25-26 marzo 2013|p=4}}|group=N}}. Inoltre rileva, sulla base delle testimonianze rese da [[Ivanoe Bonomi|Bonomi]] e dai generali [[Roberto Bencivenga|Bencivenga]] e [[Quirino Armellini|Armellini]] al processo Kappler, che la Resistenza romana era spaccata in merito all'opportunità di compiere attentati, con i favorevoli in posizione di minoranza, nonché, sulla base delle memorie di Bentivegna, che la questione era discussa all'interno dello stesso PCI<ref>{{cita|Staron 2007|p. 39}}.</ref>. Staron quindi scrive: «Se si considerano le rappresaglie compiute nelle settimane precedenti l'attentato di via Rasella e il gran numero di segnali che dovevano aver messo in qualche modo sull'avviso gli attentatori (occorre ricordare, al riguardo, che già prima dell'attentato anche in seno al Partito comunista si era discusso in merito alle possibili rappresaglie), l'affermazione più volte ripetuta dopo la guerra dagli attentatori, secondo cui non si era messa in conto una rappresaglia come quella delle Fosse Ardeatine (di più: si sarebbero costituiti se avessero immaginato che altrimenti ne avrebbero fatto le spese degli innocenti), non appare molto convincente. Certo, non si può che concordare con Klinkhammer quando afferma che fino a quel momento non era mai stata eseguita una rappresaglia di tali proporzioni, ma occorre anche tener conto del fatto che gli attentati precedenti avevano causato un numero di gran lunga inferiore di vittime, e quindi non si può ragionevolmente sostenere, come invece fa Katz, che "qualsiasi azione partigiana, fra le cento compiute a Roma, avrebbe potuto avere per conseguenza l'eccidio delle Ardeatine"»<ref>{{cita|Staron 2007|p. 42}}.</ref>. Secondo lo studioso, se è plausibile che i gappisti, allora appena ventenni, non avessero piena consapevolezza delle conseguenze della loro azione, lo stesso non si può affermare per i dirigenti che impartirono loro l'ordine. Dunque – rifacendosi anch'egli alla tesi del terrorismo "pedagogico" di Bocca – Staron, pur sottolineando la «fondamentale differenza» tra il regime di terrore dei nazisti e la resistenza, conclude che, «per lo meno ai livelli più alti del movimento resistenziale, si aveva piena consapevolezza delle dimensioni che avrebbe potuto assumere un'eventuale rappresaglia. Dunque, non era tanto l'attentato in sé quanto piuttosto la probabile rappresaglia che ne sarebbe conseguita che doveva risvegliare la popolazione romana dal suo letargo e convincerla della vera natura del regime di occupazione»<ref>{{cita|Staron 2007|p. 43}}.</ref>{{#tag:ref|In un [http://alessandroportelli.blogspot.it/2007/02/luoghi-comuni-ed-errori-sulle-fosse.html intervento scritto nel febbraio 2007], in risposta a una breve nota di [[Ernesto Galli della Loggia]] pubblicata sul ''Corriere della Sera'' del 6 febbraio 2007, Alessandro Portelli contesta tale tesi di Staron; secondo Portelli lo storico tedesco, dall'affermazione della prevedibilità di una rappresaglia da parte dei partigiani (prevedibilità che Portelli ritiene indimostrata), «salta, senza argomentarlo e con un notevole balzo logico, ad affermare che quindi hanno agito con l'intenzione di provocarla». Cfr. anche il contributo dello stesso Portelli in M. Caffiero, M. Procaccia (a cura di), ''Vero e falso. L'uso politico della storia'', Roma, Donzelli, 2008.|group=N}}.
 
Secondo Santo Peli, nella strategia del PCI i GAP avevano una duplice funzione: prima di tutto quella di offrire alle masse, in particolare alla classe operaia, «esempi concreti di lotta» tali da vincere la loro passività e indurle all'azione<ref>{{cita|Peli 2014|pp. 16-7}}.</ref>; inoltre quella di creare nelle città un'atmosfera di guerra, al fine di impedire che vi si consolidasse «un ''modus vivendi''» fra i nazifascisti e la popolazione civile, il quale avrebbe garantito «ai tedeschi un comodo sfruttamento delle risorse e ai fascisti di accreditarsi come governo legittimo»<ref>{{cita|Peli 2014|p. 22}}.</ref>. Sulla scorta di tale ricostruzione, Peli offre una valutazione articolata della tesi di Bocca sulla "pedagogia impietosa". Egli scrive infatti che, se «applicata all'intera vicenda dei Gap, questa interpretazione si rivela assai schematica e riduttiva, oltre che tendenziosa». Peli riconosce invece alla tesi di Bocca una «verità parziale» se riferita alle prime azioni messe in atto dai GAP nel 1943: «per ''creare un clima di guerra'', per costringerli a mostrare anche nelle città del Centronord il vero volto dell'occupazione, i tedeschi vanno attaccati, subito e duramente, e la rappresaglia è un elemento dolorosamente utile, che serve a bruciare gli spazi di mediazione, i tentennamenti»<ref>{{cita|Peli 2014|p. 23}} (corsivo nel testo).</ref>. Passando poi a trattare l'attentato di via Rasella, Peli annovera tra quelle che definisce «pseudo-verità» l'asserzione secondo cui «il rapporto di 10 a 1 tra prigionieri da trucidare e tedeschi uccisi [...] fosse del tutto prevedibile, in quanto derivante da una presunta "legge di guerra", o da una prassi consolidata al punto da essere da tutti conosciuta. In realtà, in Italia come nel resto d'Europa, il rapporto 10:1 viene utilizzato in modo sporadico, a seconda di un insieme di mutevoli circostanze, e gli esempi di mancate rappresaglie, o di rappresaglie dove la proporzione è di 50, o di 100 a 1, sono abbondanti»<ref>{{cita|Peli 2014|p. 258}}.</ref>. Continua Peli: «Fino al 23 marzo 1944, una risposta di quell'entità non è prevedibile: si tratta di un dato di fatto ampiamente documentato e non è necessario insistervi ulteriormente. Ciò che colpisce è l'inossidabile pervasività dell'opinione contraria, che non può essere liquidata come semplice frutto d'ignoranza. Come nel caso dell'invenzione dei manifesti invitanti i "colpevoli" a presentarsi, anche la pretesa esistenza di una legge del 10 a 1 ha una sua precisa funzionalità in un discorso antiresistenziale, perché permette di contrapporre a un "ordine" implacabile, duro, però garantito da un esercito regolare, la "irresponsabilità" di chi, conoscendo perfettamente quest'"ordine", lo sfida, costringendo le "autorità", che pure avevano preavvertito delle conseguenze, a compiere una rappresaglia. Da una parte "l'ordine costituito", dall'altra dei "fuorilegge". "Banditen", appunto, come li chiamano i tedeschi»<ref>{{cita|Peli 2014|pp. 259-60}}</ref>{{#tag:ref|Recensendo il volume di Peli, Antonio Carioti scrive che la tesi dell'autore circa l'imprevedibilità della strage delle Fosse Ardeatine «convince solo in parte»: «Data la gravità delle perdite tedesche in via Rasella, era evidente che sarebbe scattata una risposta brutale, a meno di non farsi illusioni sui nazisti». Cfr. {{cita news||http://lettura.corriere.it/gap-i-partigiani-piu-discussi/|Gap, i partigiani più discussi|[[La Lettura]]|20 gennaio 2015}}|group=N}}.
 
Riconoscendo anch'egli nella lettera di Longo i fondamenti della linea d'azione messa in pratica a via Rasella dai gappisti, in un articolo del 2015 Angelo Ventrone giunge alla stessa conclusione di Klinkhammer: «la strategia comunista metteva consapevolmente nel conto le rappresaglie naziste contro la popolazione civile, anzi, individuava proprio in esse un efficace strumento per accrescere l'ostilità degli italiani nei confronti dell'occupante»<ref>{{cita|Ventrone 2015}}.</ref>.
 
=== L'accusa della mancata presentazione ===
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* {{cita libro|Gabriele|Ranzato|capitolo=Roma|curatore=[[Enzo Collotti]], [[Renato Sandri]] e [[Frediano Sessi]]|Dizionario della Resistenza|volume=vol. I: ''Storia e geografia della Liberazione''|2000|Einaudi|Torino|pp=412-23|isbn=88-06-14689-0|cid=Ranzato 2000}}
* {{cita libro|Joachim|Staron|Fosse Ardeatine e Marzabotto. Storia e memoria di due stragi tedesche|2007|annooriginale=2002|Il Mulino|Bologna|isbn=88-15-11518-8|cid=Staron 2007}}
* {{cita pubblicazione|autore=Angelo Ventrone|url=https://amnis.revues.org/2453|titolo=Italia 1943-1945 : le ragioni della violenza|rivista=Amnis|data=30 gennaio 2015|DOI=10.4000/amnis.2453|cid=Ventrone 2015}}
 
;Raccolte di documenti