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https://books.google.it/books?id=NSu5BAAAQBAJ&pg=PA230&dq=sun+flags&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwip2uan9cjRAhUFxxQKHQ6JC48Q6AEIGjAA#v=snippet&q=sun%20&f=false
== Napoli ==
== I problemi dello stato unitario ==
[[Utente:Memnone di Rodi/Sandbox/Napoli]]
Molti e gravi furono i problemi che il nuovo Stato dovette affrontare.
=== Nord e Sud ===
[[File:Reazione di isernia 1860.JPG|300px|miniatura|destra|Illustrazione tratta da "Il Mondo Illustrato - Giornale universale", Torino, (1861) intitolata "Una scena della reazione di Isernia" illustrante il linciaggio dei liberali filounitari durante la rivolta legittimista di [[Isernia]] dell'ottobre 1860]]
Discordando con l'affermazione di [[Massimo D'Azeglio]], Cavour realisticamente scriveva che non solo gli italiani ma neppure l'Italia era "fatta": «Il mio compito è più complesso e faticoso che in passato. Fare l'Italia, fondere assieme gli elementi che la compongono, accordare Nord e Sud, tutto questo presenta le stesse difficoltà di una guerra con l'Austria e la lotta con Roma»<ref>Cavour, lettera del marzo 1861 in Giuseppe Vottari, ''Storia d'Italia (1861-2001)'', Alpha Test, 2004 p.31</ref>.
Cavour ben sapeva come si fosse giunti all'unificazione in soli due anni grazie all'aiuto di circostanze favorevoli interne ed internazionali. Ora, tuttavia, si trattava di sanare quella che alcuni avevano definito una ''forzatura storica'', un ''miracolo italiano''<ref>Luciano Cafagna, ''Cavour, l'artefice del primo miracolo italiano'', Il mulino, 1999, p.29 e quarta di copertina, cit.: «Il primo miracolo italiano è stata l'Italia stessa»</ref>.
La nuova Italia aveva messo assieme popolazioni eterogenee per storia, per lingue parlate, per tradizioni ed usanze religiose (la sensibilità e gli usi legati al cattolicesimo erano differenti nelle varie parti d'Italia).
==== Il Meridione "africano" ====
Secondo lo storico britannico [[Christopher Duggan]], numerose figure di primo piano dell'epoca, tra cui molti meridionali esiliati dai Borbone, contribuirono a costruire e ad aggravare l'immagine del Meridione come terra barbara e incolta, ripetendo un luogo comune, diffuso da parecchio tempo prima dell'unificazione: che a sud di Roma iniziasse l'Africa.<ref>Christopher Duggan (2011) ''La forza del destino - Storia d'Italia dal 1796 ad oggi'', pag. 257. Laterza editore, Roma-Bari. ISBN 978-88-420-9530-9</ref>. A questo riguardo [[Benedetto Croce|Croce]] osservava che costoro furono tacciati di "essersi disinteressati del Mezzogiorno, e anzi di aver dato verso di esso non dubbi segni di noncuranza e di sprezzo. E nondimeno quegli uomini meritavano qualche scusa, perché, assorti dapprima negli studi e poi gettati negli ergastoli o cacciati in esilio, poco conoscevano delle condizioni effettive di questo paese, anche perché ... troppo vi avevano sofferto, troppe delusioni, troppa incomprensione, troppi abbandoni; e, ora che l'avevano legato all'Italia, godevano nel respirare in più largo aere e ripugnavano a ricacciarsi nella sua molta volgarità e nelle sue travagliose miserie"<ref>vedi pag 247 B. Croce, ''Storia del Regno di Napoli'', Bari, 1972</ref>.
=== Le condizioni del Regno ===
[[File:Quintino Sella 01.jpg|upright=0.7|thumb|Quintino Sella]]
Le condizioni di tutta l'Italia<ref>I dati riportati in questo paragrafo sulle condizioni dell'Italia post-unitaria sono ripresi da: Antonio Desideri, ''Storia e storiografia'', Vol. II, Casa editrice d'Anna, Messina Firenze, 1979, p.815</ref> si presentavano arretrate rispetto agli stati industrializzati dell'Europa occidentale. La rete ferroviaria nel [[1861]] consisteva in appena 2100 chilometri di binari che in più erano stati progettati in modo da avere uno [[scartamento]] tale da impedire, per ragioni militari, il passaggio dei confini di uno Stato all'altro.
Molto alta la mortalità infantile, l'igiene precaria causava ricorrenti epidemie di [[colera]], diffusa la [[malaria]] e la [[pellagra]].
L'[[analfabetismo]] raggiungeva una percentuale nazionale del 75%, con punte del 90% in alcune zone del paese.<ref>Nicola Tranfaglia, Pier Giorgio Zunino, ''Guida all'Italia contemporanea, 1861-1997'', Volume 4, Garzanti, 1998, p.389</ref> e venne affrontato estendendo la [[legge Casati]], entrata in vigore nel Regno di Sardegna nel 1860 a tutto il paese.
L'iniziale isolamento diplomatico e le minacce austriache imponevano per la difesa il rafforzamento dell'esercito e della marina.
La soluzione di questi problemi comportò un grande impegno finanziario per il nuovo Stato che dovette introdurre nel [[1868]] la [[tassa sul macinato]], un'«imposta progressiva sulla miseria»,<ref>Giuseppe Vottari, ''Storia d'Italia'', Alpha Test, 2005, p.82</ref> una vera e propria tassa sul pane, fino ad allora sconosciuta nelle regioni del Centro e del Nord dove causò la ribellione dei contadini emiliani. [[Quintino Sella]], ministro delle finanze del Regno d'Italia, che l'aveva con altri ideata, divenne nell'opinione popolare «l'affamatore del popolo».<ref>Ch. Seaton-Watson, ''L'Italia dal liberalismo al fascismo, 1870-1925'', Laterza, Bari, 1973</ref>
L'abolizione delle dogane tra i vari stati comportò il fallimento delle piccole attività artigianali impossibilitate a reggere la concorrenza con la produzione industriale del Nord.
=== Il brigantaggio ===
{{Vedi anche|Brigantaggio|Brigantaggio postunitario}}
{{Citazione| A [[Napoli]], noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba ([[Ferdinando II delle Due Sicilie|Ferdinando]]) bombardava [[Palermo]], [[Messina]] ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso.|[[Massimo D'Azeglio]]<ref>(2 agosto [[1861]]) Corrispondenza D'Azeglio-Matteucci, D'Azeglio, ''Scritti'', Firenze 1931 p.399</ref>}}
[[File:Carmine Crocco foto.jpg|left|thumb|upright=0.8|[[Carmine Crocco]], il più noto brigante postunitario<ref>[[Eric Hobsbawm]], ''Bandits'', Penguin, 1985, p.25</ref>]]
I dubbi espressi da D'Azeglio (''briganti o non briganti'') apparivano superati dalla storiografia risorgimentale che riprese la definizione di ''[[brigantaggio]]'' usata dallo stesso governo del [[Regno d'Italia]]<ref>L'ipotesi che il cosiddetto "brigantaggio" nasconda la volontà di una guerra civile del resto traspare nella stessa relazione Massari: «infame guerra, avvolgendo nel sangue, nel lutto, nelle espilazioni, nella guerra civile le provincie già obbedienti... mentre non può negarsi che il brigantaggio alimentasi ben anco di altre fonti...» in ''Il brigantaggio nelle provincie napoletane: relazioni fatte a nome della Commissione d'inchiesta della Camera de' deputati da G. Massari e S. Castagnola. Con la giunta della legge proposta e dell'altra sanzionata'' p.211 e in Giuseppe Massari, Stefano Castagnola, ''Commissione d'inchiesta parlamentare sul brigantaggio'', in Stamp. dell'Iride, 1863, pp.162, 184,187</ref> per mascherare agli occhi degli stati europei le gravi difficoltà politiche della avvenuta unificazione come una manifestazione di semplice criminalità.
Ad esempio lo storico [[Francesco Saverio Sipari]] insisteva nel considerare l'origine sociale del fenomeno, quando nel [[1863]] scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata.».<ref>[[Benedetto Croce]], ''Storia del Regno di Napoli'', [[Adelphi]], Milano 1992, p.473 riporta per stralci la ''Lettera ai censuari del Tavoliere'' pubblicata dallo zio materno, [[Francesco Saverio Sipari]], riproposta integralmente da [[Lorenzo Arnone Sipari|L. Arnone Sipari]], ''Francesco Saverio Sipari e la «Lettera ai censuari del Tavoliere»'', in [[Raffaele Colapietra|R. Colapietra]] (a cura di), ''Benedetto Croce ed il brigantaggio meridionale: un difficile rapporto'', Colacchi, L'Aquila 2005, pp. 87-102, in cui, peraltro, anticipando anche le analoghe osservazioni di [[Giustino Fortunato]], riteneva che il brigantaggio potesse esaurirsi con la "rottura" dell'isolamento delle regioni meridionali, che era dato dall'assenza di una rete infrastrutturale adeguata, di strade e di ferrovie, e con l'affrancamento dai canoni del [[Tavoliere delle Puglie|Tavoliere]].</ref>
Così anche [[Giustino Fortunato]] che non lo considerò «un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo» ma «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali».<ref>Giustino Fortunato, Emilio Gentile, ''Carteggio: 1927-1932'', Laterza, 1981, p.14</ref>
Lo stesso [[Benedetto Croce]] vede nel brigantaggio l'ultimo sostegno di una monarchia, quella borbonica, che ancora una volta aveva chiamato in suo aiuto « [...] o piuttosto a far le sue vendette, le rozze plebi, e non trovando altri campioni che truci e osceni briganti...»<ref>Cit. da: Benedetto Croce, ''op. cit'', p. 235</ref>.
Accanto alla miseria, alcuni invece identificarono nel brigantaggio un fenomeno di [[resistenza (politica)|resistenza]] al nuovo Stato italiano. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli.»<ref>Teodoro Salzillo, ''[http://books.google.it/books?id=dd0YAAAAYAAJ&dq=potete+chiamarli+briganti&source=gbs_navlinks_s Roma e le menzogne parlamentari]'', Malta, 1863, p.34.</ref>.
Alla fine gran parte degli storici hanno inquadrato tale fenomeno come espressione di un disagio autentico, manifestatosi con le forme di una vera e propria [[guerra civile]] ([[1861]]-[[1865]]).
In realtà il brigantaggio era nato e prosperava nel [[Mezzogiorno (Italia)|Mezzogiorno]] ben prima dell'annessione al Regno d'Italia<ref>« [...] La crisi economica del 1825-1826 prostrò il mondo delle campagne diede via alla ripresa della guerriglia rurale e a clamorosi episodi di brigantaggio.» (Angelantonio Spagnoletti, ''Storia del Regno delle Due Sicilie'', Bologna, Il Mulino, 1997, p. 53). Lo stesso autore segnala, in età borbonica, un « [...] ribellismo endemico, spesso sfociato nel brigantaggio di estese zone delle Calabrie e del Principato di Citra...», (A. Spagnoletti ''op. cit.'', p. 57). Anche nella Puglia settentrionale, in [[Capitanata]], il brigantaggio era particolarmente attivo (soprattutto nel distretto di [[Bovino (Italia)|Bovino]]) « [...] fino ad assumere connotati di massa. Ad esso si dedicavano alacremente migliaia di individui, padri e figli, che nell'assalto ai viaggiatori, alle diligenze e al procaccio trovavano la fonte primaria del proprio sostentamento». (A. Spagnoletti, ''op. cit.'', p. 222)</ref>, ma si era sviluppato ulteriormente all'inizio degli anni sessanta dell'[[XIX secolo|Ottocento]] nonostante l'invio di un gran numero di reparti dell'esercito (''Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni...''<ref>M. D'Azeglio, ''Op.cit.''</ref>)
Secondo l'inchiesta sul brigantaggio redatta dal deputato [[Giuseppe Massari]], nelle province di [[Giustizierato di Basilicata|Basilicata]] e [[Capitanata]] la rivolta raggiunse enormi proporzioni ed emersero le bande più pericolose e apparentemente invincibili, comandate da temuti e rispettati capimassa come [[Carmine Crocco]] e [[Michele Caruso]].<ref>Giuseppe Massari, Stefano Castagnola, ''Il brigantaggio nelle province napoletane'', Fratelli Ferrario, 1863, p.17, 20</ref>
Che si trattasse di un fenomeno ben radicato è dimostrato infine dal fatto che si ritenne necessario l'intervento dell'[[esercito]] regio e l'emanazione della [[legge Pica]] (''Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette'') in vigore dall'agosto [[1863]] al 31 dicembre 1865, che introdusse il reato di [[brigantaggio]] e che, in deroga agli articoli 24 e 71 dello [[Statuto albertino]], prevedeva in gran parte del Mezzogiorno italiano la costituzione di Tribunali militari per i trasgressori.
La ricerca storica più recente ha contribuito a mettere in luce gli aspetti politici che motivarono la resistenza delle popolazioni meridionali prima nei confronti dei Borbone<ref>Anche sotto i Borbone si dovettero impiegare le forze armate per reprimere il brigantaggio. Nel 1817 il marchese di Pietracatella, nominato intendente della terra d'Otranto « [...] nella sua relazione di viaggio osservava compiaciuto che la via consolare di Puglia e i territori che essa attraversava erano ormai tranquilli, addirittura percorribili di notte, anche perché erano presidiati, oltre che dalla gendarmeria, da teste di briganti chiuse in gabbie di ferro e collocate sul ponte di Bovino quale macabro ammonimento per i fuorilegge, i pastori e i contadini che frequentavano quella località.». (A.Spagnoletti, ''op. cit.'', p. 223). Un anno più tardi fu inviato in Puglia il generale [[Guglielmo Pepe]] per organizzare le milizie provinciali da impiegare contro i briganti. (A. Spagnoletti, ''op. cit.'', p. 222)</ref>, poi del Regno d'Italia (con le conseguenti repressioni), superando definitivamente il modello che ha tentato per decenni di liquidare l'insorgenza meridionale come fenomeno esclusivamente banditesco.
Repressione indiscriminata e reazione delle popolazioni condussero ad efferatezze da entrambe le parti, ma di certo i morti per la repressione furono diverse migliaia e interi paesi distrutti tanto che secondo lo storico [[Lorenzo Del Boca]] {{Citazione|[...] La rudezza disumana dei conquistatori finì per accrescere il senso di ostilità delle popolazioni locali. Di conseguenza aumentò la durezza della repressione. Il numero degli sbandati crebbe proporzionalmente agli abusi. [...] I banditi godevano di solidarietà diffusa fra la gente e, quando arrivavano nei paesi, era festa grande. [...] Molti vennero uccisi. Dalle zone di guerriglia pochi riuscirono ad arrivare al carcere. Gli altri vennero sterminati in massa. [...] Risultò che, dal settembre 1860 all'agosto 1861 - poco meno di un anno solare - vi furono 8.968 fucilati, 10.604 feriti, 6.112 prigionieri. Vennero uccisi 64 sacerdoti e 22 frati, 60 giovani sotto i 12 anni e 50 donne. Le case distrutte furono 918, sei paesi cancellati dalla carta geografica. Cifre naturalmente provvisorie e ampiamente parziali per difetto. [...] Con il ferro e con il fuoco distrussero [[Guardiaregia]] e [[Campochiaro]] nel [[Molise]]; [[Pontelandolfo]] e [[Casalduni]] nella [[provincia di Benevento]]... [...]<ref>{{Cita libro|autore = Lorenzo Del Boca| titolo = Maledetti Savoia|anno =1998 pp. 156-158}}</ref>}}
La complessa problematica legata a tale fenomeno di disagio sociale non fu estranea (insieme ad altre concause) alla nascita della [[Questione meridionale]].
=== Decentramento e accentramento ===
Cavour secondo i principi del liberalismo inglese era favorevole al decentramento:
{{Citazione|Il prof. E. Amari [autonomista siciliano], dottissimo giureconsulto come egli è, riconoscerà, io lo spero, che noi siamo non meno di lui amanti della discentralizzazione, che le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province.<ref>Cavour, lettera del 15 gennaio 1961 al marchese di Montezemolo, luogotenente in Sicilia in Massimo L. Salvadori, ''Il mito del buongoverno: La questione meridionale de Cavour a Gramsci'', G. Einaudi, 1963 p.27</ref>}}
In tal senso egli aveva presentato un progetto di legge con [[Luigi Carlo Farini|Farini]] e [[Marco Minghetti|Minghetti]] il 13 marzo 1861 che «consisteva nel riunire insieme in consorzi obbligatori e permanenti quelle province che fossero più affine tra loro per natura di luogo, per comunanza d'interessi, di leggi, di abitudini.»<ref>In ''Marco Minghetti ai suoi elettori'', Monti, Bologna, 1863</ref> Il disegno di legge non poté essere sottoposto alla Camera per la morte improvvisa di Cavour e quando Minghetti presentò un analogo progetto di legge<ref>Il progetto di legge di Minghetti fu il primo ad essere stato redatto in italiano e non in francese. (Arrigo Petacco, ''O Roma o morte'', A. Mondadori, 2010, p.7)</ref> dopo un lungo dibattito fu bocciato. Il progetto federalista di Minghetti prevedeva: « [...] un ordinamento che consenta di conservare le tradizioni e i costumi delle popolazioni locali. Ad ogni Grande Provincia [Regione] dovrà spettare il potere legislativo e l'autonomia finanziaria per quanto riguarda i lavori pubblici, l'istruzione, la sanità, le opere pie e l'agricoltura. Le Grandi Province e i Comuni dovranno ampliare...le rispettive basi elettorali estendendo il diritto di voto a tutti...senza escludere gli analfabeti. I sindaci non saranno più di nomina regia ma dovranno essere nominati dal consiglio comunale regolarmente eletto. Allo Stato spetteranno soltanto la politica estera, la difesa, i grandi servizi di utilità nazionale (ferrovie, poste, telegrafi e porti), nonché un'azione di vigilanza e controllo sull'operato degli enti locali.»<ref>A.Petacco, ''Op.cit.'' p.8</ref>
La nuova classe politica successa alla morte di Cavour nutrendo grandi timori che la recente unità fosse messa in pericolo da sommovimenti interni preferì imboccare la strada dell'accentramento autoritario estendendo a tutto il paese il sistema comunale e provinciale del Regno di Sardegna. L'Italia venne divisa in province sotto il controllo dei prefetti e i consigli comunali elettivi furono soggetti a sindaci nominati dal sovrano.
Come scrive Candeloro: «Fare una sola regione del Mezzogiorno continentale sembrava pericoloso per l'unità, ed era d'altra parte difficile dividerlo in regioni che avessero una certa vitalità, poiché nel Mezzogiorno non erano esistiti Stati regionali e di conseguenza, non vi erano allora, oltre Napoli, delle città adatte ad essere centri regionali.»<ref>G. Candeloro, ''Storia dell'Italia moderna'' in ''Diritto e società'', Sansoni, 1993, p.82</ref>
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