Enore Zaffiri: differenze tra le versioni

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=== Gli anni Settanta ===
Fin dall'inizio del nuovo decennio le composizioni del musicista torinese vedono l'abbandono progressivo della struttura geometrica, a favore della composizione da concerto e dello spettacolo dal vivo. Nel '70, con Felice Quaranta, Zaffiri compone un brano per la voce di [[Carla Henius]] su commissione del Goethe Institut.<br />
Il [[1971]] è l'anno del primo [[sintetizzatore elettronico]] inteso come strumento da concerto, non solo nella storia personale di Zaffiri, ma nella storia della musica italiana: è il «VCS 3» della EMS di Londra (lo stesso, per intendersi, con cui [[Renzo Arbore|Arbore]] e [[Gianni Boncompagni|Boncompagni]], alla [[RAI]], accompagnano le loro straordinarie performance nel programma ''Alto gradimento''). Nascono a Torino le prime partiture per un sintetizzatore, espressamente concepite per l'esecuzione dal vivo. A [[Pisa]], Pietro Grossi tiene un corso di [[computer music]] presso il Centro nazionale di Calcolo elettronico (CNUCE): Zaffiri non ne rimane affatto convinto. Di queste sodalizio con Grossi rimangono tuttavia cinque brani per computer e «VCS 3», improvvisazioni con suoni analogici su una base digitale fornita dall'allievo ede amico Leonardo Gribaudo. L'esigenza del concerto-spettacolo si concretizza, nel corso dell'anno, grazie alla collaborazione con la scuola di danza di Bella Hutter e la coreografa Anna Sagna.<br />
Zaffiri e Ferrero realizzano ''Becos'', balletto per musiche elettroniche presentato al saggio di fine anno.<br />
Col collega compositore Giorgio Ferrari, Zaffiri realizza un nastro per la mostra del pittore Basaglia alla galleria «Solferino» di [[Milano]]. Felice Quaranta, divenuto direttore artistico dell'Ente lirico di Genova, indice due manifestazioni al Teatro comunale dal titolo ''Musica in laboratorio'': curate da Enore Zaffiri, le serate vedono la partecipazione del compositore statunitense John Eaton e di Pietro Grossi, che presenta alcune dimostrazioni di computer music via cavo da Pisa.<br />
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Una delle caratteristiche più qualificanti del nostro artista è la sua capacità di rinnovare costantemente il proprio linguaggio, i mezzi tecnici e l'orizzonte estetico di riferimento. Esaurita la spinta legata alla scoperta di un nuovo sistema linguistico ed esecutivo, Zaffiri non si ferma alla ripetizione accademica di sé stesso, ma è sempre proteso, quasi febbrilmente, alla ricerca di nuove possibilità. Quello che gli interessa è sperimentare le possibilità creative di un linguaggio con spirito esplorativo e analitico, verificandone tutte le condizioni possibili di montaggio e fruizione; alla fine del "circolo combinatorio", egli archivia l'esperienza assumendone tuttavia gli insegnamenti di fondo.<br />
Accanto alla produzione video, l'ultima decade del secolo è segnata dal ritorno del nostro musicista alla ricerca di una nuova interpretazione del linguaggio musicale classico. Coi primi sintetizzatori Zaffiri aveva iniziato ad esplorare la possibilità di una rilettura del Settecento e di [[Johann Sebastian Bach|Bach]] con i colori e le dinamiche del trattamento elettronico del suono; ma i risultati avevano comunque il significato di un'esperienza irripetibile e personale venata da una certa ironica malinconia. Non dimentichiamo che, quasi contemporaneamente, uscivano gli LP di Walter Carlos con le prime esecuzioni di opere bachiane sul Moog Synthesizer.<br />
Ma le nuove interpretazioni zaffiriane dei classici – che oggi compongono un catalogo con centinaia di titoli – assumono subito un significato completamente diverso, sia per le attuali tecnologie (le cosiddette "tastiere campionate") che permettono una resa del suono più "realistica" ed esteticamente compatibile con lo spirito dell'originale, sia per gli intenti con cui il nostro musicista mette in atto questa immensa operazione di re-visione del pianoforte classico-romantico. Ciò che Zaffiri ricerca, nelle [[sonata|sonate]] di [[Ludwig Van Beethoven|Beethoven]] come nei preludi di [[Fryderyk Chopin|Chopin]], non è la ripetizione di un evento fin troppo "consumato" dal mercato discografico, ma la dimostrazione che il fruitore intelligente e preparato di musica può trasformarsi a sua volta in esecutore ede interprete, semplicemente capovolgendo il rapporto che la legge del consumo impone tra prodotto e fruitore: non dev'essere il mezzo elettronico a imporre le sue caratteristiche, ma il fruitore a cercare di realizzare sé stesso con le grandi potenzialità che l'elettronica oggi offre. Sullo slancio di questa nuova stagione creativa, Zaffiri ritrova pubblico e "palcoscenici" – soprattutto il palcoscenico di oggi: il web – tra cui far circolare il suo nuovo messaggio. Le nuove occasioni d'incontro sono con il pubblico del Circolo degli artisti di Torino nel [[1990]], presso il prestigioso [[Politecnico di Torino|Politecnico]] del capoluogo piemontese nel maggio dello stesso anno, e al Teatro Juvarra nel dicembre successivo.
 
L'ultima proposta, in ordine di tempo, che la creatività multiforme del maestro ha saputo realizzare, a settant'anni compiuti, rappresenta la sintesi perfetta del suo lungo cammino artistico: la '''ComputerArt''' costituisce infatti l'esatto punto d'incontro dell'antica poetica strutturalista e del suo spirito pionieristico di "ricerca", con le più avanzate tecnologie digitali dedicate al trattamento dell'immagine. I "quadri digitali" che il nostro artista ha esposto in alcune gallerie d'arte italiane e presso la [[Biblioteca Nazionale di Firenze]], nascono infatti, come le antiche composizioni di musica elettronica dello SMET, da progetti geometrico-combinatori che forniscono la matrice comune al trattamento dei suoni - ricavati dalle tastiere campionate – e delle immagini, elaborate dal calcolatore elettronico. Leggiamo come Zaffiri stesso descrive il suo ultimo progetto "visivo" Tr/e/27 – il titolo stesso è un'autocitazione, una sorta di "ruota del tempo" che riporta un discorso che sembrava concluso alle proprie radici, permettendogli così di rinascere in forme moderne:<br />
«''questo progetto riprende le esperienze della musica geometrica degli anni Sessanta, con alcune varianti che riguardano in modo particolare inserti di cellule ritmiche e melodiche. Poiché l'impostazione di tali cellule nella struttura generale del Progetto ricorda alcuni procedimenti strutturali in uso presso i compositori polifonici del Quattrocento, ho pensato di denominare questa esperienza sonora Musica isoritmica.''. (…) ''Ad ogni suono corrisponde un'immagine. La durata di ogni figura sonora è uguale a quella visiva. Alle tre intensità del suono (piano – mezzoforte – forte) corrispondono tre diversi modi di presentarsi dell'immagine: fissa, ad impulsi, in movimento. In totale si hanno 27 frequenze sonore, corrispondenti a 27 note del sistema musicale (partendo dal primo Do sotto il Do centrale del pianoforte, in progressione cromatica ascendente si arriva all'ultimo suono, ossia al secondo Re sopra il Do centrale del pianoforte). Quindi ai 27 suoni corrispondono 27 immagini. Poiché la figura viene letta in quattro modi differenti, cioè (come nella prassi dodecafonica) nel modo Ordinario (O.), Ordinario retrogrado (OR.), Inverso (I.) e Inverso retrogrado (IR.), si è stabilito di attribuire ad ogni modo 27 immagini differenti, cioè complessivamente 108 immagini. Il Progetto si presta a essere fruito in svariate maniere. La lettura (diciamo) monodica di ogni modo (O., OR., I., IR.), oppure, col sistema permutatorio, sovrapponendo due o tre o tutti e quattro i modi, per un totale di 14 combinazioni. Si ottiene così un tipo di polifonia (a due, a tre, a quattro voci) e una corrispondente policromia (sovrapposizione di due, tre o quattro immagini, sfasate nel tempo in virtù della struttura del Progetto)''.»
 
==Le poetiche==
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Le composizioni "strutturaliste" rappresentano la produzione elettronica degli anni Sessanta, la prima a diventare di dominio pubblico nell'attività già decennale del compositore. La strumentazione era composta da grandi oscillatori a valvole, generatori d'eco, generatori d'impulsi, filtri, modulatori ad anello, generatori di rumore bianco e da registratori professionali a bobina; l'insieme costituiva la dotazione tipica di uno studio di fonologia acustica, ed era alla base di tutta la produzione musicale elettronica d'avanguardia europea (Stockhausen, Berio).
Il principio unificante del linguaggio strutturalista zaffiriano era il rapporto tra "testo" musicale – l'opera sonora vera e propria – e quello che il critico Antonio Cirignano chiama il "metatesto" numerico, ovvero il progetto "geometrico" strutturale: una vera e propria partitura dalla quale qualunque esecutore dotato delle stesse apparecchiature di riferimento avrebbe potuto ricavare la composizione sonora pensata dal compositore. Il "metatesto" non era altro che una struttura combinatoria di valori numerici che davano forma a rapporti geometrici piani (e a volte anche tridimensionali) indicanti: la frequenza acustica del suono di partenza (in Hertz), la sua durata, e la frequenza raggiunta dal medesimo suono alla fine del suo incremento o decremento oscillatorio; nonché la dinamica (f, mf, ff, p). I suoni, ovvero le altezze generate dall'oscillatore, potevano essere svariate decine, e nel loro movimento temporale davano luogo a varie combinazioni armoniche, incontrandosi e allontanandosi l'uno dall'altro con effetti di grande suggestione sonora; essi inoltre potevano essere continui o discreti, vale a dire ridotti a impulsi successivi, e variamente elaborati.<br />
Il principio strutturale del metatesto originario – i vari progetti come ''Tr/e/54 o Q/64'' – racchiudeva in sé una più indefinita possibilità interpretativa (o esecutiva), proiettando la poetica di Zaffiri nel più puro universo strutturalista del suo tempo: ogni "partitura" infatti, in quanto principio combinatorio di valori puramente numerici, era suscettibile di un numero "virtualmente infinito di singole realizzazioni chiuse" (A. Cirignano), essendo la qualità dei suoni una variabile assolutamente "aperta" (strumenti elettronici, ma anche musicali tradizionali o qualunque fonte generativa acustica). In questo senso, i "progetti" zaffiriani degli anni Sessanta ricordano la "metamusica" tastieristica di J.S. Bach (Offerta musicale, Arte della fuga), eseguibile, ede oggi effettivamente eseguita, da ogni tipo di strumento. Ma non solo: ogni "progetto", sempre per la sua natura "metatestuale", poteva costituire una sintassi per i linguaggi artistici più diversi: esistono infatti versioni plastiche (sculture) del progetto Q/81 e altri, mentre anche dal punto di vista architettonico, non sarebbe stato difficile immaginare strutture urbanistiche ricavate dalle figure geometriche di Zaffiri.<br />
Ciò che distingue la produzione di Zaffiri dallo strutturalismo puro e semplice è lo sfasamento, a volte impercettibile ma sempre presente, tra il rigore originario del progetto e la sua realizzazione effettiva; Zaffiri non ha mai rinunciato, fin dai primi esperimenti sonori e poi in modo assolutamente evidente nei grandi progetti del periodo dello SMET, a una personalizzazione estetica del suono, a una ricerca di colore e di pathos nella esecuzione, che rendesse percepibile la differenza tra una semplice "produzione meccanica" del suono e la sua natura "musicale", il suo "significato" culturale.
 
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===La voce===
Come in ogni "poetica", inevitabilmente anche per Zaffiri un ruolo importante lo gioca l'ambiguità delle intenzioni e degli esiti. La scelta della sperimentazione "tecnologica" come ambito operativo non deve indurre a cercare nelle composizioni del nostro musicista una un'acritica celebrazione della "modernità". La scelta della voce, appunto, contraddice immediatamente la prospettiva forzata creata dalla freddezza dello strumento musicale d'elezione: il sintetizzatore. La voce non è uno strumento "moderno": essa decontestualizza ed evoca, cancella le differenze di spazio e di tempo e colloca l'ascoltatore sul piano dell'assoluta universalità del messaggio musicale. Il binomio "voce e sintetizzatore" che denota le composizioni degli anni '70, crea una specie di cortocircuito emotivo, un ossimoro musicale che accomuna in un unico gesto provocazione e memoria storica. Ciò è ancora più vero se si considera che la forma nella quale Zaffiri inscrive le sue idee è quella classicissima del "recitar cantando", forma nella quale per altro la voce è da un lato liberata dalle "forzature" del "[[bel canto]]", ma dall'altro costretta a seguire quasi [[contrappunto|contrappuntisticamente]] le evoluzioni fonetiche di una lingua poetica tutt'altro che "musicale" com'è l'inglese. Si assiste così, da "The Dark Lady" del '73, a un'esplorazione sonora delle possibilità della voce da soprano, che oscilla come una spola tra le evoluzioni acustiche dei generatori d'onda e le elucubrazioni sintattiche di testi sempre importanti e difficili, tessendo una tela musicale che difficilmente era allora possibile udire altrove nel panorama musicale internazionale.
 
===La ricreazione da camera===
Zaffiri non ha fatto parte della "nomenclatura" intellettuale nazionale, pur avendo rappresentato forse una delle punte di innovazione del repertorio musicale e culturale degli anni Sessanta e Settanta. Le ragioni di questa latenza sono molteplici, e riguardano anche la indisponibilità personale del nostro musicista verso i compromessi che sempre il successo impone. Da questo punto di vista risultano emblematici i lavori teatrali che negli anni settanta &nbsp;– ottanta egli portò in giro per l'Italia, da Roma a Bologna a Torino, scatenando reazioni sempre contrastanti e mai inerti. La più significativa di tutte le esperienze fu forse quella all'[[Accademia nazionale di Santa Cecilia]] di Roma, il cui pubblico si intrattenne alla fine della rappresentazione in una sorta di duello collettivo fatto di fischi e applausi prolungati. Anche la critica non fu mai "indifferente" alle proposte zaffiriane, e personalità come Massimo Mila dedicarono pagine attente e intelligenti alle proposte del compositore torinese.<br />
Le "ricreazioni da camera" furono l'unica parentesi "politica" del compositore, e nacquero dall'esperienza teatrale del ''Giuoco dell'oca''. La struttura di opere come ''Raptus'' o ''Teleorgia'' prevedeva l'uso brechtiano di canto e recitazione, accompagnati da una proiezione (in Super8) che costituiva il contesto scenografico della rappresentazione. Sia i testi per le musiche (e spesso le musiche stesse) che la scelta delle immagini partivano da un criterio compilativo basato sulla citazione, di volta in volta storica, culturale o politico-sociale. Zaffiri stesso ha chiamato questi suoi esperimenti "teatro da camera", forse riferendosi all'organico estremamente ridotto che essi richiedevano: proiettore, nastro magnetico e cantante. Il termine "ri-creazione" era invece riferito, da una lato, all'uso abbondante delle citazioni; dall'altro, all'atmosfera appunto settecentesca che la loro rappresentazione sui piccoli palcoscenici dei teatri alternativi evocava.<br />
Si diceva di una "parentesi politica": ognuna di queste operine ebbe infatti un forte significato di critica sociale, a volte pungente e corrosiva, altre più rarefatta e intellettualistica, ma sempre contro-corrente rispetto a qualunque forma di accondiscendenza ideologica.
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[[Categoria:Compositori di musica contemporanea]]
[[Categoria:Compositori di musica elettronica]]
[[Categoria:Musicisti legati a Torino]]