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Sia gli ortodossi che composero le [[Upaniṣad|Upanisad]], sia gli eterodossi, segnatamente i [[Buddhismo|buddhisti]] e i [[Giainismo|jainisti]], sfidavano gli assiomi fondamentali del [[vedismo]]. La rinuncia al mondo costituiva infatti una radicale deviazione dai valori del [[Veda]], che affermavano la vita. La concezione del mondo come regno di sofferenza perpetua, ciclo infinito della rinascita, "[[samsara]]", confliggeva con il [[Telos (filosofia)|telos]] vedico di un'esistenza terrena trascorsa nel godimento dei beni materiali, seguita da una vita eterna in cielo, la quale era un'estensione interminabile della prima.<ref>{{Cita|Doniger|p. 40}}</ref>
Alla preoccupazione vedica di perpetuare il tempo, che era il fine primario dei [[sacrifici]], si sostituì il perseguimento della purezza senza tempo delle origini, ovvero l'uscita dal tempo, e la ricerca della liberazione dal samsara, definita dai concetti di "[[moksa]]" e "[[nirvana]]". Tuttavia, di questi nuovi principi che capovolgevano le dottrine vediche si impadronì ben presto quella stessa classe di sacerdoti che era depositaria della tradizione del Veda. I più antichi [[Dharma-sutra]], per esempio, risalenti al IV secolo a. C. e composti dai [[rito|ritualisti]], presuppongono già che i valori della rinuncia al mondo debbano guidare la vita morale nel mondo.<ref>{{Cita|Doniger|pp. 40-41}}</ref>
Il Manavadharmasastra costituisce perciò un tentativo sia di consolidare un'antico retaggio, sia di riorientarlo secondo i nuovi principi di vita.<ref>{{Cita|Doniger|p. 41}}</ref> Si può quindi affermare che l'ordine gerarchico delle classi sociali non cambiò, cambiò soltanto il criterio che lo stabiliva. Il vegetarianismo e la nonviolenza divennero ideali generalizzati, ovvero due delle fondamentali qualità che costituiscono il dharma universale ([[samanya]]), valido per tutti, senza distinzioni di classe o casta. Le caste dedite a occupazioni che comportavano poca violenza nei confronti degli esseri viventi e che praticavano il vegetarianismo si collocavano nella gerarchia castale al di sopra delle caste la cui esistenza dipendeva dall'atto di uccidere. E' evidente quindi che queste ultime, nel perseguimento dello svadharma lodato dai sacerdoti, si autocondannavano per sempre a una relativa inferiorità rispetto ai sacerdoti stessi.<ref>{{Cita|Doniger|pp. 43-44}}</ref>
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