Regno di Napoli
Il Regno di Napoli è il nome con cui è conosciuto lo stato italiano preunitario esistito, con alterne vicende, dal XIII al XIX secolo comprendente le attuali regioni della Campania, Calabria, Puglia, Abruzzo, Molise, Basilicata, e alcuni territori dell'odierno Lazio (circondario di Sora, circondario di Gaeta, circondario di Cittaducale dopo l'unità d'Italia).
Dal Regno di Sicilia al Regno di Napoli
Origini dell'unità territoriale
L'isola della Sicilia e l'intera Italia meridionale a sud del Tronto e del Liri erano i territori che formavano il Regno di Sicilia fin dal 1130, quando fu istituito dall'Antipapa Anacleto II e successivamente legittimato, nel 1139, per mano di Papa Innocenzo II. Con la morte di Federico II di Svevia il figlio Manfredi costruì il suo baluardo ghibellino nel Regno di Sicilia, avendone ereditata la sovranità insieme al fratello in Germania Corrado IV. In quegli anni lo Stato Pontificio aveva avviato, a partire da Innocenzo III, con la sconfitta di Federico Barbarossa una politica di espansionismo del potere temporale; papa Innocenzo IV in linea col suo predecessore rivendicò i diritti feudali dello Stato Pontificio sul Regno di Sicilia. Lo stato era stato assegnato con i titoli regali ai normanni da papa Innocenzo II; quando però Enrico IV, figlio del Barbarossa sposò Costanza d'Altavilla, ultima erede del Regno di Sicilia, il territorio normanno passò sotto la corona sveva diventando un centro strategico della politica imperialistica degli Hohenstaufen in Italia.
Gli Hohenstaufen e Carlo d'Angiò
Ad Enrico VI successe il figlio Federico II; dopo la morte di quest'ultimo, i suoi eredi Manfredi e Corrado V per contrastare le pretese feudali del papato in Sicilia tentarono di costruire la difesa contro Carlo d'Angiò che, chiamato in Italia dal papa francese Clemente IV, minacciava di invadere il regno per difendere le ragioni della Santa Sede. Carlo d'Angiò sconfisse prima Manfredi nella battaglia di Benevento e poi Corradino di Svevia a Tagliacozzo il 23 agosto 1268, eliminando provvisoriamente dalla scena politica italiana gli Hohenstaufen e assicurandosi il dominio sul Regno di Sicilia. La capitale passò da Palermo a Napoli.
Il regno di Trinacria e il Regno di Sicilia con Napoli capitale
L'unica erede di Manfredi a conservare i titoli regali fu Costanza di Hohenstaufen, che il 15 luglio 1262 sposò il re d'Aragona Pietro III. Il partito ghibellino di Sicilia che precedentemente si era organizzato attorno agli svevi Hohenstaufen, fortemente scontento della sovranità francese sull'isola, cercò il sostegno di Costanza, figlia di Manfredi, e degli aragonesi per organizzare la rivolta contro gli angioini. La rivolta popolare antifrancese iniziò a Palermo il 31 marzo 1282 e dilagò in tutta la Sicilia finchè l'agosto del 1282 l'esercito di Carlo d'Angiò non fu sconfitto. Le popolazioni siciliane nominarono come propri sovrani Pietro III di Aragona e la moglie Costanza, figlia di Manfredi; il 26 settembre 1282 fu definitivamente sconfitto Carlo d'Angiò dall'esercito aragonese e il papa regnante Martino IV, di contro, qualche mese più tardi scomunicò il re Pietro III.
Carlo I d'Angiò e il regno di Sicilia
Seppur le ambizioni angioine in Sicilia furono inibite dalle numerose sconfitte, Carlo I mirò a consolidare il proprio potere nella parte continentale del regno, innestando sulla precedente politica baronale guelfa, parte delle riforme che già il vecchio stato svevo stava attuando, per rafforzare l'unità territoriale del Mezzogiorno. Dalle prime invasioni longobarde buona parte dell'economia del regno, nel principato di Capua, in Abruzzo, e nel Contado di Molise era gestita dai monasteri benedettini (Casauria, San Vincenzo al Volturno, Montevergine, Montecassino), che in molti casi avevano accresciuto i loro privilegi fino a diventare vere e proprie signorie locali, a sovranità territoriale e in contrasto spesso con i feudatari laici vicini.[1] L'invasione normanna prima, le lotte fra Anacleto II e Innocenzo II, e infine la nascita del regno di Sicilia, minarono le basi della tradizione feudale benedettina. Attorno al XIII sec., Innocenzo II e le dinastie normanne incentivarono nell'Italia meridionale il monachesimo cistercense; molti monasteri benedettini furono convertiti alla nuova regola che, limitando l'accumulazione di beni materiali alle risorse necessarie per la produzione artigianale e agricola, precludeva la possibilità per i nuovi cenobi di costituire patrimoni e signorie feudali[2]: il nuovo ordine investiva quindi le risorse in riforme agrarie (bonifiche, dissodamenti, grangìe), artigianato, meccanica e assistenza sociale, con valetudinaria (ospedali), farmacie e chiese rurali. Il monachesimo francese trovò allora il sostegno dei vecchi feudatari normanni che poterono così contrastare attivamente le ambizioni temporali del clero locale: su questo compromesso si innestò la politica del nuovo sovrano Carlo I; egli fondò di sua mano le abbazie cistercensi di Realvalle (Vallis Recalis)[3] a Scafati e Santa Maria della Vittoria a Scurcola Marsicana[4], e favorì le filiazioni delle storiche abbazie di Sambucina (Calabria), Sagittario (Basilicata), Sterpeto (Terra di Bari), Ferraria (principato di Capua), Arabona (Abruzzo) e Casamari (Stato pontificio), diffondendo al contempo il culto dell'Assunzione di Maria nel Mezzogiorno. Concesse inoltre nuove contee e ducati ai militari francesi che sostennero la sua conquista del napoletano[5].
Il nuovo assetto territoriale
I principali centri monastici di produzione economica erano stati così svincolati dall'amministrazione di possedimenti feudali e, l'unità dello stato, debellata l'autorità benedettina, si fondava ora sulle antiche baronie normanne e sull'assetto militare risalente a Federico II. Carlo I infatti conservò gli antichi giustizierati federiciani, accrescendo il potere dei rispettivi presidenti: ogni provincia aveva un giustiziere che, oltre ad essere a capo di un importante tribunale, con due corti, era anche il vertice della gestione del locale patrimonio finanziario e dell'amministrazione del tesoro, ricavato dalle tassazioni delle universitates (comuni). L'Abruzzo fu diviso in Aprutium citra (flumen Piscariae) e Aprutium ultra (flumen Piscariae); molte delle città sveve come Sulmona, Manfredonia o Melfi persero il loro ruolo centrale nel regno in favore di città minori come Sansevero, Chieti o L'Aquila mentre, nei territori che erano stati bizantini (Calabria, Puglia), si consolidò l'assetto politico iniziato dalla conquista normanna: l'amministrazione periferica che i greci affidavano ad un capillare sistema di città e diocesi, da Cassanum a Gerace, da Barolum a Brundisium, fu sostituita definitivamente dall'ordine feudale della nobiltà fondiaria. Nel Mezzogiorno le sedi dei giustizieri o di importanti arcidiocesi (Benevento e Acheruntia), oltre che la nuova capitale, restarono gli unici centri abitati dotati di peso poltico o attività finanziarie, economiche e culturali (Salerno, Cosenza, Reggio, Taranto, Bari, Sansevero, Chieti, L'Aquila e Capua).
La nascita del Regno di Trinacria in Sicilia
Il 7 gennaio 1285 morì Carlo I d'Angiò e gli successe Carlo II. Alla morte di Pietro III, re d'Aragona e di Sicilia, la Sicilia insulare fu contesa brevemente dai suoi due figli Alfonso III e Giacomo I di Sicilia. Quest'ultimo in fine firmò il Trattato di Anagni del 12 giugno 1295, con il quale cedette i diritti feudali sulla Sicilia a papa Bonifacio VIII, il quale in cambio gli concesse la Corsica e la Sardegna, conferendo poi la sovranità della Sicilia a Carlo II. Il trattato d'Anagni però non portò ad una pace duratura; quando Giacomo I lasciò la Sicilia per governare l'Aragona, il trono palermitano fu affidato al fratello Federico III che guidò l'ennesima ribellione per l'indipendenza del'isola e fu poi incoronato da Bonifacio VIII re di Trinacria. Federico III però perse poi l'appoggio di alcuni baroni siciliani; per conservare il titolo regale per la prima volta riconosciuto dalla Santa Sede firmò con Carlo di Valois la pace di Caltabellotta nel 1302 con cui furono per la prima volta distinti dall'antico Regno di Sicilia normanno-svevo il Regno di Trinacria, sotto il controllo degli Aragonesi con capitale Palermo, e Regno di Sicilia con capitale Napoli, sotto il controllo degli Angioini.
Nel 1309 il figlio di Carlo II Roberto d'Angiò venne incoronato da Clemente V re di Napoli, conservando però i titoli familiari di re di Sicilia e di Gerusalemme. Nel 1372, la regina Giovanna I d'Angiò e Federico IV di Sicilia sottoscrissero un trattato di pace che sanciva il riconoscimento reciproco delle monarchie e dei relativi territori, cioè Napoli (Regno di Sicilia) agli Angioini e la Sicilia (Regno di Trinacria) agli Aragonesi, estendendo il riconoscimento anche alle rispettive linee di successione. Inizia ad imporsi sempre maggiormente nell'uso comune, benchè non ufficiale, la denominazione di regno di Napoli o Regno di Sicilia di qua dal Faro. Egli designò come erede prima Carlo di Calabria, e dopo la morte di quest'ultimo, Giovanna I di Napoli, figlia di Carlo.
Sotto la monarchia di Roberto d'Angiò la città di Napoli inizio ad sviluppare la propria vocazione umanistica. Il re era molto stimato dagli intellettuali italiani suoi contemporanei come il Villani, il Petrarca e Boccaccio. Il sovrano raccolse a Napoli in una scuola, non preclusa alle influenze dell'averroismo, un importante gruppo di teologi scolastici. Affidò a Nicola Deoprepio di Reggio Calabria la traduzione delle opere di Aristotele e Galeno per la biblioteca di Napoli.[6] Dalla Calabria inoltre vennero nella nuova capitale Leonzio Pilato e il basiliano Barlaamo di Seminara, celebre teologo che affrontò in quegli anni in Italia le dispute dottrinali sorte attorno al filioque e al credo niceno: il monaco fu anche a contatto con Petrarca, di cui fu maestro di greco, e Boccaccio che lo conobbe proprio a Napoli. Aderì alla chiesa cattolica dopo il 1341.
Il Regno di Napoli nel periodo angioino
Il 3 novembre 1347 l'angioino Luigi d'Ungheria scese in Italia per vendicare la morte del fratello, il duca di Calabria Andrea d'Ungheria (dovuta ad una misteriosa congiura) e spodestare la moglie Giovanna I di Napoli. Benché il sovrano ungherese più volte avesse preteso dalla Santa Sede la deposizione di Giovanna I, figlia di Carlo di Calabria e legittima sovrana di Napoli, anche dopo una seconda spedizione punitiva del re d'Ungheria, il governo pontificio risiedente ad Avignone e politicamente legato alla dinastia francese confermò sempre il titolo di Giovanna. La regina adotto come figlio ed erede al trono Carlo di Durazzo, finchè anche Napoli non fu direttamente coinvolta negli scontri politici e dinastici che seguirono lo Scisma d'Occidente: a corte e in città si contrapponevano direttamente un partito filofrancese e un partito locale, il primo schierato a favore dell'antipapa Clemente VII e capeggiato dalla regina Giovanna I, il secondo a favore del papa napoletano Urbano VI che trovò il sostegno di Carlo di Durazzo. Giovanna spodestò allora Carlo di Durazzo dei diritti di successione in favore di Luigi I d'Angiò, fratello del re di Francia, incoronato re di Napoli da Clemente VII nel 1381. Egli alla morte di Giovanna I scese inutilmente in Italia contro Carlo, dove morì nel 1384. Carlo lasciò quindi Napoli ai figli Ladislao e Giovanna per recarsi in Ungheria a rivendicare il regno, dove venne assassinato in una congiura.
Re Ladislao Angiò-Durazzo
Prima che i due eredi Ladislao e Giovanna raggiungessero la maturità la città campana cadde in mano al figlio di Luigi I Luigi II d'Angiò, incoronato re da Clemente VII il 1 novembre 1389. La nobiltà locale osteggiò il nuovo sovrano e nel 1399 Ladislao I poté rivendicare militarmente i suoi diritti al trono sconfiggendo il re francese. Il nuovo re seppe restaurare l'egemonia napoletana nell'Italia meridionale intervenendo direttamente nei conflitti di tutta la penisola: nel 1408, chiamato da papa Innocenzo VII per sedare le rivolte ghibelline nella capitale, occupa buona parte del Lazio e dell'Umbria ottenendo l'amministrazione della provincia pontificia di Campagna e Marittima e occupando poi Roma e Perugia sotto il pontificato di Gregorio XII. Nel 1414, dopo aver sconfitto definitivamente Luigi II d'Angiò, ultimo sovrano a capo di una lega organizzata dall'antipapa Alessandro V volta ad arginare l'espansionismo partenopeo, il re di Napoli è alle porte di Firenze. Con la sua morte i confini del regno tornarono entro il perimetro storico; la sorella Giovanna II di Napoli però ottenne il riconoscimento definitivo dalla Santa Sede del titolo regale per la sua famiglia alla fine dello scisma d'Occidente.
Giovanna II di Napoli
A Ladislao nel 1414 successe la sorella Giovanna, che il 10 agosto 1415 sposò Giacomo II di Borbone: dopo che il marito tentò di acquisire il titolo regale, una rivolta nel 1418 lo costrinse a tornare in Francia dove si ritirò in un monastero francescano. Giovanna nel 1419 era la sola regina, ma le mire espansionistiche nel napoletano degli angioini di Francia non cessarono. Papa Martino V chiamò in Italia Luigi III d'Angiò contro Giovanna che non voleva riconoscere i diritti fiscali dello Stato Pontificio sul regno di Napoli. La minaccia francese perciò avvicinò il regno di Napoli alla corte aragonese, tanto che la regina adottò Alfonso V d'Aragona come suo figlio ed erede finché Napoli fu sotto l'assedio dalle truppe di Luigi III. Allorché gli aragonesi liberarono la città nel 1423 i rapporti con la corte locale non furono facili, tanto che Giovanna, cacciato Alfonso V, alla sua morte lasciò in eredità al fratello di Luigi III Renato d'Angiò il regno.
Il Regno di Napoli nel periodo aragonese
Con la morte senza eredi di Giovanna II d'Angiò-Durazzo il territorio del regno di Napoli fu conteso da Renato d'Angiò, che ne rivendicava la sovranità in quanto fratello del figlio adottivo della regina di Napoli, Luigi d'Angiò, e Alfonso V re di Trinacria, Sardegna e Aragona, anch'egli figlio adottivo di Giovanna II. La guerra che ne scaturì coinvolse gli interessi degli altri stati della penisola, fra cui la signoria di Milano di Filippo Maria Visconti che intervenne dapprima in favore degli angioini (battaglia di Ponza), poi definitivamente con gli Aragonesi. Nel 1441 Alfonso V conquistò Napoli riunificando l'antico stato normanno sotto la sua reggenza con il titolo di rex Utriusque Siciliae, insediando la capitale nella città campana e imponendosi nello scenario politico italiano.
Nel 1447 Filippo Maria designò Alfonso erede al ducato di Milano. La nobiltà della città lombarda però temendo l'annessione al regno di Napoli proclamò Milano libero comune instaurando la repubblica ambrosiana; le rivendicazioni aragonesi e napoletane furono contrastate dalla Francia che nel 1450 diede il sostegno politico a Francesco Sforza per impadronirsi del ducato di Milano. L'espansionismo ottomano vicino ai confini del regno di Napoli impedì agli aragonesi l'intervento contro Milano e papa Niccolò V dapprima riconobbe lo Sforza come duca di Milano, poi coinvolse Alfonso d'Aragona nella lega italica volto a consolidare il nuovo assetto territoriale della penisola.
La politica interna di Alfonso I: umanesimo e centralismo
La corte di Napoli in quest'epoca è una delle più raffinate e aperte alle novità culturali del rinascimento: sono ospiti di Alfonso Lorenzo Valla che proprio durante il soggiorno partenopeo denunciò il falso storico della donazione di Costantino, l'umanista Antonio Beccadelli e il greco Emanuele Crisolora. Ad Alfonso si deve anche la ricostruzione di Castel Nuovo. L'assetto amministrativo del regno resta grossomodo quello dell'età angioina: furono ridimensionati i poteri degli antichi giustizierati (Abruzzo Ultra e Citra, Contado di Molise, Terra di Lavoro, Capitanata, Principato Ultra e Citra, Basilicata, Terra di Bari, Terra d'Otranto, Calabria Ultra e Citra) che conservarono funzioni prevalentemente politiche e militari. L'amministrazione della giustizia fu invece devoluta nel 1443 alle corti baronali nel tentativo di ricondurre le antiche gerarchie feudali nell'apparato burocratico dello stato centrale[7]. E' considerato un altro importante passo verso il raggiungimento dell'unità territoriale nel regno di Napoli la politica del re volta ad incentivare pastorizia e transumanza. Nel 1447 Alfonso I varò una serie di leggi, fra cui l'imposizione ai pastori abruzzesi e molisani di svernare entro i confini napoletani, nel Tavoliere, dove molti dei terreni coltivati furono trasformati anche forzatamente in pascoli. Istituì inoltre, con sede prima a Lucera e poi a Foggia, la Dogana della mena delle pecore in Puglia e l'importantissima rete dei tratturi che dall'Abruzzo conducevano alla Capitanata.
Questi provvedimenti risollevarono l'economia delle città interne fra L'Aquila e la Puglia: le risorse economiche legate alla pastorizia transumante dell'appennino abruzzese un tempo si disperdevano nello Stato Pontificio, dove fino ad allora avevano svernato le mandrie; con i provvedimenti aragonesi la pastorizia restò entro i confini nazionali e le attività legate alla transumanza coinvolsero le attività artigianali locali, i mercati e i fori boari tra Lanciano, Castel di Sangro, Campobasso, Isernia, Boiano, Agnone, Larino fino al Tavoliere, e l'apparato burocratico sorto attorno alla dogana, predisposto alla manutenzione dei tratturi e alla tutela giuridica dei pastori, divenne, sul modello del concejo de la Mesta iberico[8], la prima base popolare dello stato centrale moderno nel regno di Napoli[9]. In misura minore lo stesso fenomeno si verificò fra Basilicata e Terra d'Otranto e le città (Venosa, Ferrandina, Matera) legate alla transumanza verso il Metaponto. Alla sua morte (1458) Alfonso divise nuovamente le corone che aveva unito assegnando al figlio Ferrante il territorio italiano continentale (regno di Napoli o regno di Sicilia al di qua del faro) mentre Aragona e isole a Giovanni II.
Alfonso V lasciò quindi un regno perfettamente inserito nelle politiche italiane. La successione del figlio Ferdinando I di Napoli fu sostenuta dallo stesso Francesco Sforza; i due nuovi sovrani insieme intervennero nella repubblica di Firenze e sconfissero le truppe del capitano di ventura Bartolomeo Colleoni che insidiavano i poteri locali; nel 1478 le truppe napoletane intervennero nuovamente in Toscana per arginare le conseguenze della congiura dei Pazzi, e poi in Val Padana nel 1484, alleate con Firenze e Milano, per imporre a Venezia la pace di Bagnolo.
Il potere di Ferrante però durante la sua reggenza rischiò seriamente di essere minacciato dalla nobiltà campana; nel 1485 tra la Basilicata e Salerno Francesco Coppola, conte di Sarno, e Antonello Sanseverino principe di Salerno con l'appoggio dello Stato Pontificio e della repubblica di Venezia furono a capo di una rivolta, con ambizioni guelfe e rivendicazioni feudali angioine, contro il governo aragonese che, accentrando il potere a Napoli, minacciava la nobiltà rurale. La rivolta è conosciuta come congiura dei baroni e fu debellata nel 1487 grazie all'intervento di Milano e Firenze. Un'altra congiura filoangioina parallela tra Abruzzo e Terra di Lavoro fu guidata da Giovanni della Rovere nel ducato di Sora, terminata con l'intervento mediatore di papa Alessandro VI. Nonostante gli sconvolgimenti politici, Ferrante continuò nella capitale Napoli il mecenatismo del padre Alfonso: nel 1458 sostenne la fondazione dell'Accademia Pontaniana, ampliò le mura cittadine e costruì Porta Capuana. Nel 1465 la città ospitò l'umanista greco Costantino Lascaris e il giurista Antonio D'Alessandro, nonché nel resto del regno Francesco Filelfo, Giovanni Bessarione.
Le province orientali: Terra di Bari, Terra d'Otranto e Calabrie
Già dalla prima grande epidemia di peste (XIV secolo) che coinvolse l'Europa, le città e l'economia del Mezzogiorno estremo furono pesantemente colpite, tanto da rendere quel territorio che dalla prima colonizzazione greca era rimasto per secoli uno dei più produttivi del Mediterraneo, una vasta campagna spopolata. I territori costieri pianeggianti (pianura del Metaponto, Sibari, Sant'Eufemia), ormai abbandonati, erano impaludati e infestati dalla malaria, ad eccezione della piana di Seminara, dove la produzione agricola accanto a quella della seta sosteneva una debole attività economica legata alla città di Reggio.
Nel 1444 Isabella di Chiaromonte sposò Don Ferrante e portò in dote alla corona napoletana il principato di Taranto, che alla morte della regina nel 1465 fu soppresso e unito definitivamente al regno. Nel 1458 arrivò nel Mezzogiorno il combattente albanese Giorgio Castriota Scanderbeg per sostenere il re Don Ferrante contro la rivolta dei baroni. Già precedentemente lo Scanderbeg venne a sostegno della corona aragonese a Napoli sotto il regno di Alfonso I.
Il guerriero schipetaro ottenne in Italia una serie di titoli nobiliari, e i possedimenti feudali annessi furono rifugio per le prime comunità Arbereshe, albanesi esuli dai balcani a seguito della sconfitta da parte di Maometto II del partito cristiano, che si insediarono in zone del Molise e della Calabria fino ad allora spopolate.
Una ripresa delle attività economiche in Puglia tornò con la concessione del ducato di Bari a Sforza Maria Sforza, figlio di Francesco Maria Sforza duca di Milano, offerta da Don Ferrante per confermare l'alleanza fra Napoli e la città lombarda. Succeduto a Sforza Maria Ludovico il Moro, gli sforzeschi trascurarono i territori pugliesi in favore della Lombardia, finché il Moro cedette ad Isabella d'Aragona, erede legittima alla reggenza di Milano, Bari in cambio del ducato lombardo. La nuova duchessa in Puglia iniziò una politica di miglioramento urbanistico della città, a cui seguì una leggera ripresa economica durata fino al governo della figlia Bona Sforza e alla successione al titolo regale di Napoli di Carlo V.
Nel 1542 il viceré Pedro di Toledo emise il decreto di espulsione per gli ebrei dal regno di Napoli. Le ultime comunità che già dalla grande diaspora del II sec. si erano insediate fra Brindisi e Roma sparirono dalle realtà urbane in cui avevano trovato accoglienza. Nei porti della costa pugliese e nelle principali città della Calabria, nonché con alcune deboli presenze in Terra di Lavoro, dopo la crisi dell'economia cenobitica, gli ebrei erano l'unica fonte efficiente delle attività finanziarie e commerciali: oltre alla concessione ufficiale, concessa dalle amministrazioni locali, di esercitare il prestito di denaro, le loro comunità gestivano importanti settori del commercio della seta, relitto di quel sistema economico del mediterraneo che nel Mezzogiorno sopravvisse alle invasioni barbariche e al feudalesimo[10][11].
L'egemonia francese e il primo vicereame
A Don Ferrante successe il primogenito Alfonso II nel 1494. Nello stesso anno Carlo VIII scese in Italia a sconvolgere il delicato equilibrio politico che le città della penisola avevano raggiunto negli anni precedenti. L'occasione riguardò direttamente il regno di Napoli; Carlo VIII vantava una lontana parentela con gli angioini re di Napoli, sufficiente per poter rivendicare il titolo regale. Con la Francia si schierò anche il ducato di Milano: Ludovico Sforza aveva spodestato gli eredi legittimi del ducato Gian Galeazzo Sforza e sua moglie Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso II, sposi nel matrimonio con cui Milano aveva suggellato l'alleanza con la corona aragonese. Il nuovo duca di Milano non si oppose a Carlo VIII, il quale si diresse contro il regno aragonese; scansando la resistenza di Firenze, il re francese occupò in tredici giorni la Campania. L'espansionismo francese spinse però Massimiliano d'Asburgo e Ferdinando II d'Aragona (all'epoca re di Sicilia e di Sardegna) a costituire una Lega contro Carlo VIII, combattendolo e sconfiggendolo nella battaglia di Fornovo: alla fine del conflitto la Spagna occupò la Calabria, mentre la repubblica di Venezia acquisiva i porti principali della costa pugliese (Trani, Mola, Monopoli, Brindisi, Otranto, Polignano e Gallipoli). Alfonso II morì durante le operazioni belliche nel 1495 e Ferrandino ereditò il trono, ma gli sopravvisse un solo anno senza lasciare eredi; nel 1496 divenne re Federico I il quale dovette nuovamente affrontare le ambizioni francesi su Napoli. Luigi XII duca d'Orleans aveva ereditato il regno di Francia dopo la morte di Carlo VIII;
egli occupò il ducato di Milano catturando Ludovico Sforza, stipulò poi un accordo con Ferdinando II d'Aragona per la spartizione del regno di Napoli (Abruzzo e Terra di Lavoro alla Francia, Puglia e Calabria alla Spagna) e marciò quindi contro la città partenopea; le truppe spagnole di Ferdinando II però tradirono l'accordo e lo ricacciarono a Milano.
Ferdinando il Cattolico e l'istituzione del vicereame
Il dominio aragonese in Italia finiva e Napoli cadde sotto il controllo della Spagna che vi istituì un vicereame. Il meridione d'Italia restò possedimento diretto dei sovrani iberici fino alla fine della Guerra di successione spagnola (1713). La nuova struttura amministrativa, benchè fortemente centralizzata, si sosteneva sull'antico sistema feudale che ebbe modo così di rafforzare la propria autorità e i privilegi fondiari, parallelamente all'accrescimento del potere politico del clero. Gli organi amministrativi più importanti avevano sede a Napoli ed erano il Consiglio Collaterale, simile al Consiglio d'Aragona, l'organo supremo nell'esercizio delle funzioni giuridiche (composto dal viceré e da tre giureconsulti), la Camera della Sommaria, il Tribunale della Vicaria e il Tribunale del Sacro Regio Consiglio[12].
Fu Ferdinando il Cattolico che, detentore dei titoli di Re di Napoli e di Sicilia, nominò colui che era stato fino ad allora Gran Capitano dell'esercito napoletano Gonzalo Fernández de Córdoba, vicerè, affidandogli in sua vece gli stessi poteri di un re [13]. Allo stesso tempo decadeva il titolo di Gran Capitano, e il comando delle truppe reali di Napoli fu affidato al conte di Tagliacozzo Fabrizio Colonna con la nomina di Gran Contestabile, incaricato di condurre una spedizione contro Venezia in Puglia che occupava alcuni porti adriatici. L'operazione militare terminò con successo e i porti pugliesi tornavano nel 1509 al regno di Napoli. Re Ferdinando inoltre ristabilì il finanziamento all'università di Napoli disponendo un contributo mensile dal suo tesoro personale di 2000 ducati l'anno[14], privilegio confermato poi dal suo successore Carlo V.
Successero al de Córdoba prima Juan de Aragón che promulgò una serie di leggi contro la corruzione, combattè il clientelismo, vietò il gioco d'azzardo e l'usura, poi Raimondo de Cardona che nel 1510 introdusse l'inquisizione a Napoli e i primi provvedimenti restrittivi nei confronti degli ebrei.
Carlo V a Napoli
Carlo V, figlio di Filippo il Bello, per un complicato sistema d'eredità e parentele, si trovò a governare presto un vastissimo impero: dal padre ottenne la Borgogna, dalla madre nel 1516 la Spagna, il Messico, le Filippine, il regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna, nonché due anni dopo i domini austriaci dal nonno Massimiliano d'Asburgo.
Le minacce francesi e la spartizione dell'impero
Il regno di Francia, ancora una volta, venne a minacciare Napoli e il dominio di Carlo V sul Mezzogiorno durante le lotte per il possesso del ducato di Milano; il re di Francia Francesco I nel 1526 entrò in una lega sugellata da Clemente VII, detta lega santa, con Venezia Milano e Firenze per cacciare gli spagnoli da Napoli. Dopo una prima sconfitta della lega a Roma, i francesi risposero con l'intervento in Italia di Odet de Foix, che si spinse fino a Napoli assediando la città, mentre la Serenissima occupava Otranto e Manfredonia. Quando però la flotta genovese, alleata dei francesi, si mise al soldo di Carlo V, l'assedio di Napoli si tramutò nell'ennesima sconfitta dei nemici della Spagna, che portò al riconoscimento da parte di Clemente VII del titolo imperiale di re Carlo. Venezia perse definitivamente i suoi possedimenti in Puglia (1528). Le ostilità della Francia contro i domini spagnoli in Italia però non cessarono: Enrico II sollecitato da Ferrante Sanseverino, principe di Salerno, si alleò con i turchi ottomani; nell'estate del 1552 la flotta turca al comando di Sinan Pascià sorprese la flotta imperiale, al comando di Andrea Doria e don Giovanni de Mendoza, al largo di Ponza, sconfiggendola.
La flotta francese però non riuscì a ricongiungersi con quella turca e l'obiettivo dell'invasione del napoletano fallì. Nel 1555, a seguito di una serie di sconfitte in Europa, Carlo abdicò e divise i suoi domini fra Filippo II, a cui lasciò la Spagna, le colonie d'America, i Paesi Bassi spagnoli, il regno di Napoli, la Sicilia e la Sardegna, e Ferdinando I d'Asburgo a cui andò l'Austria, la Boemia, l'Ungheria e il titolo di imperatore.
I vicereami del duca d'Alba, di Hurtado de Mendoza e la pestilenza
I vicereami che si successero sotto il regno di Filippo II furono per lo più contrassegnati da operazioni belliche che non apportarono benessere alla popolazione di Napoli. A peggiorare la situazione incorse la pestilenza che si diffuse in tutta Italia attorno al 1575, anno della nomina a vicerè di Íñigo López de Hurtado de Mendoza. Napoli, in quanto città portuale, fu estremamente esposta alla diffusione del morbo e le sue attività economiche principali furono minate alla base. Negli stessi anni sbarcarono prima a Trebisacce, in Calabria, poi in Puglia, le navi del sultano ottomano Murad III, che saccheggiarono i porti principali dello Jonio e dell'Adriatico. Fu necessario incrementare la militarizzazione delle coste, perciò il de Mendoza fece costruire un nuovo arsenale nel porto di Santa Lucia su progetto di Vincenzo Casali. Inoltre vietò ai funzionari pubblici di intrecciare legami sacramentali e parentele religiose.
Dalla pace di Cateau-Cambresis alla fine del dominio spagnolo
Con la pace di Cateau-Cambresis la storiografia tradizionale designa la fine delle ambizioni francesi nella penisola italiana. Il clima di riforme religiose che coinvolge sia l'opposizione luterana al papato di Roma, sia la stessa chiesa cattolica, nei territori del vicereame di Napoli si contestualizza nella crescita dell'autorità civile del clero e delle gerarchie ecclesiastiche. Nel 1524 a Chieti Gian Pietro Carafa aveva fondato la congregazione dei teatini che si diffuse presto in tutto il regno, affiancata poi dai collegi dei gesuiti che furono per secoli l'unico riferimento culturale dell'Italia meridionale. Il concilio di Trento imponendo nuove regole alle diocesi quali l'obbligo della residenza nella propria sede a vescovi, parroci e abati, l'istituzione di seminari diocesani, dei tribunali d'inquisizione e, più tardi, dei monti frumentari[15], trasformò le diocesi del vicereame di Napoli in veri e propri organi di potere, fortemente radicati nel territorio e nelle province, nonché unico sostegno al controllo dell'ordine civile, in uno stato che, persa l'autonomia politica, rischiava spesso di cadere nell'anarchia feudale del brigantaggio e della nobiltà fondiaria[16]. Fra gli altri ordini monastici che ebbero molto successo a Napoli in questi anni si ricordano i Carmelitani Scalzi, le suore Teresiane, i Fratelli della Carità, i Camaldolesi e la Congregazione dell'Oratorio di San Filippo Neri.
De Castro, Téllez-Girón I, Juan de Zúñiga y Avellaneda e la rivolta in Calabria
Il 16 luglio 1599 giunse a Napoli il nuovo viceré Fernando Ruiz de Castro. Il suo operato si limitò principalmente ad operazioni militari contro le incusioni turche in Calabria di Amurat Rais e Sinan Pascià.
Nello stesso anno della sua nomina a viceré, il domenicano Tommaso Campanella, che ne La città del Sole delineava uno stato comunitario, basato su una presunta religione naturale, organizzò una congiura contro Fernando Ruiz de Castro nella speranza di instaurare una repubblica con capitale a Stilo (Mons Pinguis)[17][18]. Il filosofo e astrologo calabrese già era stato prigioniero del Sant'Uffizio e confinato a Stilo: qui col sostegno dell'escatologia gioachimita[19] mosse i primi passi della sua congiura che si estese fino a coinvolgere non solo l'intero ordine domenicano di quei territori, ma anche ordini minori come agostiniani e francescani, e le principali diocesi da Cassano a Reggio Calabria. Fu la prima rivolta a prendere di mira anche l'ordine dei gesuiti. La congiura fu sedata e Campanella, che si spacciò per pazzo, scampò alrogo e all'ergastolo[20]. Qualche anno prima (1576) a Napoli veniva processato per eresia anche il domenicano Giordano Bruno.
Il de Castro inoltre a Napoli iniziò la costruzione del nuovo palazzo reale, incaricando Domenico Fontana di progettare e presiedere alla fabbricazione dell'edificio nell'attuale piazza del Plebiscito.
Caratterizzato prevalentemente da opere urbanistiche fu il mandato di Pedro Téllez-Girón y de la Cueva che sistemò la viabilità della capitale e delle province pugliesi. Gli successe Juan de Zúñiga y Avellaneda, il cui governo fu orientato al recupero dell'ordine nelle province: arginò il brigantaggio negli Abruzzi con il supporto dello Stato Pontificio e in Capitanata; ammodernò la viabilità fra Napoli e la Terra di Bari. Nel 1593 furono fermati dal suo esercito gli Ottomani che tentarono di invadere la Sicilia.
Filippo III di Spagna e i vicereami del de Guzmán, Pimentel e di Pedro Fernandez di Castro
Quando a Filippo II successe al trono di Spagna il figlio, Filippo III, l'amministrazione del vicereame di Napoli era affidata a Enrique de Guzmán, conte di Olivares. Il regno di Spagna era al suo massimo splendore, unendo la corona d'Aragona, i domini italiani, a quella di Castiglia e del Portogallo. A Napoli il governo spagnolo fu debolmente attivo nella sistemazione urbanistica della capitale: risalgono ad de Guzman la costruzione della fontana del Nettuno, un monumento a Carlo I d'Angiò e la sistemazione della viabilità.
L'altro governo che operò attivamente con una discreta attività politica ed economica nel regno di Napoli fu quello del viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera. Il nuovo sovrano dovette difendere ancora i territori del Mezzogiorno dalle incursioni navali turche e sedare le prime rivolte contro il fiscalismo, che nella capitale cominciavano a minacciare il palazzo. Per prevenire le aggressioni ottomane condusse una guerra contro Durazzo, distruggendo il la città e il porto, in cui trovavano asilo i pirati turchi e albanesi che spesso aggredivano le coste del regno. A Napoli tentò di combattere la malavita organizzata, in quegli anni sempre più in crescita, anche contro le disposizioni pontifice, opponendosi al diritto d'asilo che garantivano gli edifici di culto cattolici: per ciò alcuni suoi funzionari furno scomunicati.
La politica fortemente nazionale del Pimentel però interessò anche diverse opere urbanistiche e architettoniche: costruì viali e ampliò strade, da Poggioreale a via Chiaja; a Porto Longone, nello Stato dei Presidi, dispose la costruzione dell'imponente fortezza[21].
Al Pimentel seguì nel 1610 Pedro Fernández de Castro, i cui interventi furono prevalentemente concentrati nella città di Napoli. Ordinò la ricostruzione dell'università, le cui lezioni dall'inizio del dominio spagnolo erano state ricoverate nei vari chiostri cittadini, finanziando un nuovo edificio e rimodernando il sistema dell'insegnamento e delle cattedre. Fiorì sotto la sua reggenza l'Accademia degli Oziosi, a cui aderì fra gli altri il Marino e il Della Porta. Costruì il collegio dei gesuiti intitolato a San Francesco Saverio e un complesso di fabbriche presso porta Nolana.
La morte di Filippo III e i governi sotto Filippo IV e Carlo II
Fu caratterizzato prevalentemente da operazioni militari il governo di Pedro Téllez-Girón y Velasco Guzmán y Tovar, che, nella guerra fra Spagna e Savoia per il Monferrato, condusse una spedizione contro la repubblica di Venezia, in quegli anni alleata della monarchia sabauda. La flotta napoletana assediò e saccheggiò Traù, Pola e l'Istria.
Gli successe il cardinale Antonio Zapata, tra carestie e rivolte, e, dopo la morte di Filippo III, Antonio Álvarez de Toledo y Beaumont de Navarra e Fernando Afán de Ribera y Enríquezche che dovettero affrontare i problemi di un brigantaggio nelle province sempre più diffuso e radicato. Li seguì Manuel de Acevedo y Zúñiga, che finanziò la fortificazione dei porti di Barletta, Baia e Gaeta, con un governo fortemente impegnato nel sostegno economico dell'esercito e della flotta. Il forte impoverimento del tesoro statale comportò, sotto l'amministrazione di Ramiro Núñez de Guzmán, una devoluzione dei domini regi all'amministrazione dei baroni e alla conseguente crescita dei poteri feudali. Sotto il regno di Carlo II si ricordano i vicereami di Fernando Fajardo y Álvarez de Toledo e Francisco de Benavides, con politiche impegnate a contenere i problemi ormai endemici come il brigantaggio, clientelismo, inflazione e scarsità di risorse alimentari.
Napoli fra irrazionalismo e rivolte politiche
La tradizione umanistica e cristiana fu l'unico riferimento per le prime ambizioni rivoluzionarie europee che cominciarono ad emergere tra Roma e Napoli nell'irrazionalismo del barocco, nell'urbanistica popolare (quartieri spagnoli), nel misticismo religioso e nella speculazione politica e filosofica[22]. Se nella campagna un forte ritorno all'assetto feudale ricondusse ai seminari e alle diocesi il controllo dell'arte e della cultura, Napoli fu la prima città in Italia in cui nacquero, seppur disorganizzate e ignorate dai governi, le prime forme letterarie di intolleranza alla controriforma. Accetto, Marino e Basile per primi trasgredirono i paradigmi artistici del poema tassiano e con una forte spinta eversiva rifiutarono lo studio dei classici come modello d'armonia e stile e le teorie estetiche che nascevano con la riproposizione dottrinale del latino liturgico (Chiabrera, Accademia della Crusca, Accademia del Cimento)[23]. Sono gli anni in cui nella commedia dell'arte napoletana si impone Pulcinella, la più celebre maschera dell'inventiva popolare meridionale.
Simile per ambizioni al Campanella, ma spinto da ragioni molto più prosaiche, sotto il vicereame di Juan José de Austria, Masaniello nel 1647 fu a capo di una rivolta contro la pesante pressione fiscale spagnola: egli riuscì ad ottenere dal vicerè la costituzione di un governo popolare e per sé il titolo di Capitano generale del fedelissimo popolo finchè poi non fu ucciso dagli stessi rivoltosi. Prese il suo posto Gennaro Annese che dal duca d'Arcos, vicerè di Napoli ottenne la proclamazione della repubblica. Il nuovo governo fu di breve durata, benchè le rivolte si fossero estese alla campagna, nel 1649 le truppe inviate dalla Spagna ripristinarono il precedente regime. La situazione di forte repressione e di disorganizzazione della cultura napoletana, le precedenti esperienze umanistiche e filosofiche gettarono le basi per lo sviluppo degli studi giuridici ed economici che avverrà nel secolo successivo.
Le province orientali: Terra di Bari, Terra d'Otranto e Calabrie
Dal XVI sec. la stabilizzazione dei confini adriatici, dopo la battaglia di Lepanto (1571), e la fine delle minacce turche sulle coste italiane, portarono, salvo rare eccezioni[24] a un periodo di relativa tranquillità nell'Italia meridionale, durante il quale baroni e feudatari poterono sfruttare gli antichi diritti fondiari per consolidare privilegi economici e produttivi.
Fra il XVI e il XVII secolo sorse in Puglia e in Calabria quell'economia chiusa e provinciale che caratterizzerà le regioni fino all'Unità d'Italia: l'agricoltura per la prima volta divenne di sussistenza; gli unici prodotti destinati all'esportazione erano olio e seta, i cui tempi di produzione stabili, ciclici e ripetitivi non potevano sfuggire al controllo dell'aristocrazia fondiaria. Così tra Terra di Bari e Terra d'Otranto la produzione olearia incrementò un relativo benessere, testimoniato dal capillare sistema di masserie rurali e, in città, dal rifiorire delle opere urbanistiche e architettoniche (barocco leccese). Dopo la perdita dei domini della Serenissima nel Mediterraneo i porti di Brindisi e Otranto rimasero un prezioso mercato di Venezia per l'approvvigionamento dei prodotti agroalimentari, persi fra gli altri anche i mercati di Ortona e Lanciano dopo la conversione dei territori abruzzesi all'economia pastorale. Molto simile la condizione delle Calabrie, le cui province, prive di sbocchi commerciali e di porti competitivi, videro uno sviluppo parziale nella sola zona di Cosenza[25]. Attorno alle classi più abbienti fiorì un particolare tipo di umanesimo, fortemente conservatore, caratterizzato dal culto della tradizione classica latina, della retorica e del diritto. Già prima della nascita dei seminari, sacerdoti e aristocratici laici sovvenzionavano centri di cultura che costituirono, in Puglia e Calabria, l'unica forma di modernizzazione a seguito delle innovazioni amministrative e burocratiche del regno aragonese, mentre l'economia e il territorio rimanevano esclusi dai cambiamenti in atto nel resto d'Europa.
Dal XV sec. scomparvero le ultime tracce della tradizione culturale e sociale greca: nel 1467 la diocesi di Hieracium abbandonava l'uso del rito greco nella liturgia in favore del latino, nel 1571 la diocesi di Rossano, nel 1580 l'arcidiocesi di Reggio, nel 1586 l'arcidiocesi di Siponto e poco dopo quella di Otranto[26]. La latinizzazione del territorio iniziata con i normanni, continuata con gli angioini, trovò il suo completamento nel XVII secolo, parallelamente al forte accentramento del potere in mano all'aristocrazia fondiaria, tra Reggio e Cosenza. In questi anni il Campanella coinvolse tali diocesi, con il sostegno di speculazioni astrologiche e filosofiche orientali, nella rivolta contro il dominio spagnolo e l'ordine dei gesuiti; furono anche gli anni del grande sviluppo delle certose di Padula[27] e di Santo Stefano, e della nascita dell'Accademia Cosentina, che vedrà, fra i suoi allievi e maestri, Bernardino Telesio e Sebezio Amilio.
Il vicereame degli Asburgo
Il trattato di Utrecht nel 1713 poneva fine alla guerra di successione spagnola: in base agli accordi sanciti dai firmatari il regno di Napoli finiva sotto il controllo di Carlo VI del Sacro Romano Impero con la Sardegna; la Sicilia invece andava ai Savoia. Con la pace di Rastadt un'anno dopo anche Luigi XIV di Francia riconosce i domini asburgici in Italia. Nel 1718 Filippo V di Spagna tentò di ristabilire il proprio dominio a Napoli e in Sicilia con il sostegno del suo primo ministro Giulio Alberoni: contro la Spagna intervennero però direttamente Inghilterra, Francia, Austria e Olanda che sconfissero l'esercito di Filippo V a Capo Passero. La pace dell'Aja che ne seguì (1720) decretò il riavvicinamento della Sicilia al regno di Napoli: pur mantenendosi come entità statale separata, passò insieme a Napoli sotto la corona austriaca mentre il Regno di Sardegna diventava possesso sabaudo. Carlo III di Borbone veniva designato erede al trono nel ducato di Parma.
L'inizio del dominio austriaco segnò una profonda riforma nelle gerarchie politiche dello stato napoletano, a cui seguì un discreto sviluppo dei principi illuministici e riformatori. Furono da allora reperibili a Napoli, oltre che i testi cartesiani, le opere di Spinoza, Giansenio, Pascal e le espressioni della cultura tornano in diretto contrasto con il clero cittadino[28], sulla strada dell'anticurialismo napoletano già aperta da giuristi famosi come Francesco d'Andrea, Giuseppe Valletta e Costantino Grimaldi. Durante il vicereame austriaco, nel 1721, Pietro Giannone pubblica il suo testo più celebre, la Storia civile del Regno di Napoli, un importantissimo riferimento culturale per lo stato napoletano, che diviene celebre in tutta Europa (ammirato da Montesquieu) per come ripropone in termini moderni il machiavellismo e subordina al diritto civile il diritto canonico[29]. Scomunicato dall'arcivescovo di Napoli trovò rifugio a Vienna senza poter più tornare nell'Italia meridionale. In quest'ambiente, tra Napoli e il Cilento visse anche Giovan Battista Vico che nel 1723 pubblicò i suoi Principi di una scienza nuova e Giovanni Vincenzo Gravina, studioso a Napoli di diritto canonico che fondò a Roma con Cristina di Svezia l'accademia dell'Arcadia riproponendo la lettura laica dei classici. Il suo allievo Metastasio proprio a Napoli formò sul Tasso e sul Marino le innovazioni poetiche che diedero al melodramma italiano fama internazionale[30].
I Borbone
La politica di riforme iniziata sotto il vicereame di Carlo VI d'Asburgo fu ripresa dalla corona dei Borboni che, più attenta agli interessi napoletani, continuò le innovazioni amministrative e politiche estendendole a tutto il territorio del regno. Carlo di Borbone, già duca di Parma e Piacenza, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, a seguito della battaglia di Bitonto conquistò il regno di Napoli e fece il suo ingresso in città il 10 maggio 1734 definendosi Neapolis rex secondo la consuetudine spagnola; nel luglio dell'anno dopo fu incoronato anche re di Sicilia. La conquista dei due regni da parte dell'Infante fu resa possibile dalle manovre della regina di Spagna, la quale, approfittando della guerra di successione polacca nella quale Francia e Spagna combattevano l'impero austriaco, rivendicò a suo figlio le province dell' Italia meridionale.
Il regno non ebbe una effettiva autonomia dalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel 1737, con la quale si concluse la guerra di successione polacca. Nell' agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della presenza di truppe spagnole, sconfisse a Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno. Alla situazione precaria in cui versava la corona borbonica sul regno di Napoli corrispose una politica ambigua di Carlo III: egli all'inizio del suo governo cercò di assecondare le posizioni politiche delle gerarchie ecclesiastiche favorendo l'istituzione a Palermo di un tribunale d'Inquisizione e non contrastando la scomunica di Pietro Giannone. Quando però la fine delle ostilità in Europa scongiurarono le minacce al suo titolo regale, nominò primo ministro Bernardo Tanucci, la cui politica fu da subito rivolta ad arginare i privilegi ecclesiastici: nel 1741, con un concordato furono drasticamente ridotti il diritto d'asilo nelle chiese ed altre immunità al clero; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione. Successi analoghi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità.
Le riforme però portarono un notevole sviluppo dell'economia, l'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. Nel 1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominata cattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in italiano e non in latino), seguitissimi, furono tenuti da Antonio Genovesi, il cui pensiero influì molto sull'illuminismo dell'Italia meridionale. I successi ottenuti inauguarono un progetto d'intervento più radicale da compiersi nella Terra di Lavoro. Il primo passo interessò la costruzione della Reggia di Caserta e la modernizzazione urbanistica dell'omonima città che fu riedificata sui disegni razionalistici del Vanvitelli. Negli stessi anni nel cuore della capitale del regno invece Giuseppe Sammartino realizzava uno fra i più celebri complessi scultorei d'Italia, nella Cappella dei Sansevero: la cura estremamente formale e la modernizzazione stilistica di cui erano dotate le sue opere generarono polemiche negli ambienti cattolici napoletani abituati agli esiti artistici del manierismo e del barocco.
Per la prima volta in Italia dall'istituzione del ghetto di Roma a Napoli fu promulgata una legge che garantiva agli ebrei gli stessi diritti di cittadinanza riservati ai cattolici (ad esclusione del possesso di titoli feudali). Presso il palazzo reale di Portici, che sarebbe dovuto essere la residenza di Carlo III prima della costruzione della Reggia di Caserta, il re istituì un grande museo archeologico in cui furono raccolti i reperti dei recenti scavi di Ercolano e Pompeii.
Nel 1759, alla partenza di Carlo divenuto re di Spagna, salì al trono Ferdinando, all'età di soli 8 anni. Principali esponenti del Consiglio di Reggenza furono Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro ed il marchese Bernardo Tanucci. Durante il periodo della reggenza ed in quello successivo, fu principalmente il Tanucci ad avere in mano le redini del Regno ed a continuare le riforme iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel 1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno. Nel 1767 il re emise l'atto di espulsione nel confronti dei gesuiti dai territorio del regno che ne comportò l'alienazione dei beni, conventi e centri di cultura, sei anni prima che papa Clemente XIV decretasse la soppressione dell'ordine. Nel 1768 Ferdinando sposò Maria Carolina, figlia dell'imperatrice Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta. La nuova regina partecipò attivamente, a differenza del marito, al governo del regno. Nel 1776 Tanucci fu promotore dell'abolizione di un simbolico atto di vassallaggio, l'omaggio della chinèa, che rendeva formalmente il regno di Napoli uno stato tributario del pontefice di Roma[31]
Ferdinando IV di Napoli si impegnò inoltre personalmente nella poltica di riforma territoriale inaugurata dal Carlo III: in Terra di Lavoro dispose la costruzione della colonia industriale di San Leucio (1789), interessante esperimento di legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero. Il 14 luglio 1796 dichiarava soppresso il ducato di Sora, insieme allo Stato dei Presidi, le ultime tracce delle signorie rinascimentali in Italia, e disponeva il compenso da versare al duca Antonio II Boncompagni; contemporanemanete il re emanava un decreto per la costruzione della via consolare Sora-Napoli e di un nucleo industriale presso Isola di Sora per la produzione di armi.[32]
Nei primi anni di regno, la moglie Maria Carolina si mostrò sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente favorevole alla promozione delle libertà individuali. Tale tendenza subì tuttavia una brusca inversione di rotta all'approssimarsi della Rivoluzione Francese sfociando nella repressione alla notizia della decapitazione dei regnanti francesi. Le misure repressive portarono ad un'insanabile frattura tra la monarchia e la classe intellettuale; le pene colpirono non solo i democratici, ma anche riformisti di sicura fede monarchica che così non esitarono ad abbracciare la causa repubblicana nel 1799.
La repubblica partenopea e la prima restaurazione borbonica
L'avanzata delle truppe francesi in Italia cominciò con Napoleone Bonaparte nel 1796. Nel 1798 Roma fu occupata dalla Francia mentre un tentativo di contrasto delle truppe del Regno di Napoli si risolse in un insuccesso e Napoli fu aperta così alle mire espansionistiche napoleoniche. Il 22 dicembre 1798 il re Ferdinando IV fuggì a Palermo, lasciando a Napoli contro i francesi la sola debole resistenza popolare dei lazzari in una lotta che costò la vita a circa 8000 napoletani e 1000 francesi. Il 22 gennaio 1799 un pugno di giacobini italiani proclamarono la Repubblica Napoletana.
Il nuovo governo tentò delle innovazioni (soprattutto sull'eversione della feudalità e sull'ordinamento giudiziario) che però non riuscirono a trovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di vita della repubblica. Il 13 giugno 1799 infatti l'armata sanfedista e popolare organizzata attorno al cardinale Fabrizio Ruffo, nominato dal re comandante del Regno di Sicilia citeriore riconquistò Napoli restituendola alla monarchia borbonica esule nel Regno di Sicilia. Nei mesi seguenti, una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani: su circa 8000 prigionieri, 105 vennero condannati a morte (di cui 6 graziati), 222 all'ergastolo, 322 a pene minori, 288 a deportazione e 67 all'esilio, da cui molti tornarono, tutti gli altri furono liberati. Il 27 settembre 1799 l'esercito napoletano conquistò Roma mettendo fine all'esperienza rivoluzionaria nello Stato Pontificio. Nel 1801 gli interventi militari napoletani, nel tentativo di raggiungere la Repubblica cisalpina, si spinsero fino a Siena dove si scontrarono senza successo con le truppe di Gioacchino Murat. Alla sconfitta delle truppe borboniche seguì l'armistizio di Foligno il 18 febbraio 1801 e in seguito la pace di Firenze. Con la pace di Amiens invece, stipulata dalle potenze europee nel 1802 Napoli e la Sicilia furono provvisoriamente liberate dalle truppe francesi, inglesi e russe.
Il periodo napoleonico
Il successivo quinquennio vede il Regno seguire una politica altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimane sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa situazione non consente al Regno napoletano - strategicamente posizionato nel Mediterraneo - di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra Inglesi e Francesi.
Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone regolerà definitivamente i conti con Napoli dichiarando decaduta la dinastia borbonica e nominando suo fratello Giuseppe Bonaparte Re di Napoli. Ancora una volta, sotto un'amministrazione prevalentemente straniera composta dal còrso Cristoforo Saliceti, Andrea Miot e Pier Luigi Roederer, nel regno furno attuate riforme radicali quali l'eversione della feudalità e la soppressione degli ordini regolari; fu istituita l'imposta fondiaria e un nuovo catasto onciario.
La lotta alla feudalità, ripresa in questo periodo con gran vigore, con il fondamentale contributo di giuristi come Giuseppe Zurlo e Davide Winspeare, sarebbe stata continuata da Gioacchino Murat, e alla fine riuscì a portare ad un taglio netto col passato ed alla nascita della proprietà borghese. A fianco di una serie di riforme che coivolsero anche il sistema tributario e giuridico, il nuovo governo istituì per la prima volta un sistema di province, distretti e circondari, ad organizzazione civile, con a capo rispettivamente un intendente e un sottintendente e un governatore, poi giudice di pace. Le nuove province erano Teramo, L'Aquila, Chieti, Molise (con capoluogo Campobasso), Terra di Lavoro (con capoluogo Capua), Foggia, Benevento, Napoli, Salerno, Potenza, Bari, Lecce, Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria.
L'alienazione dei beni dei monasteri e dei feudatarti attirò a Napoli un cospicuo numero di investitori francesi, gli unici in grado insieme ai vecchi nobili locali, di disporre dei capitali necessari per acquistare terreni e beni immobili. A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna, succederà Gioacchino Murat, che fu incoronato da Napoleone il 1 agosto dello stesso anno col nome di Gioacchino Napoleone, re delle Due Sicilie, par la grace de Dieu et par la Constitution de l'Etat. Egli iniziò trionfalmente il suo governo liberando Capri dall'occupazione inglese risalente al 1805. Aggregò il distretto di Larino alla provincia del Molise.
Nel 1810 Murat per quattro mesi governò il regno dalle alture di Piale, frazione di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria. Egli, muovendosi da Napoli per la conquista della Sicilia (dove si era rifugiato il re Ferdinando I sotto la protezione degli inglesi, un esercito dei quali era accampato presso Punta Faro a Messina), giunse a Scilla il 3 giugno 1810 e vi restò sino al 5 luglio, quando fu completato il grande accampamento di Piale. Nel breve periodo di permanenza, Murat fece costruire i tre forti di Torre Cavallo, Altafiumara e Piale, quest'ultimo con torre telegrafica. Il 26 settembre dello stesso anno, constatando impresa difficile la conquista della Sicilia, Murat dismise l'accampamento di Piale e ripartì per la capitale.
Dopo la Restaurazione, nel 1816, con il ritorno dei Borbone, i due regni di Napoli e Sicilia furono nuovamente formalmente uniti nel Regno delle Due Sicilie, regno che poi sarebbe finito nel 1861 con l'unità d'Italia.
Compendio
Geografia
Dalla sua formazione fino all'unità d'Italia il territorio occupato dal regno di Napoli rimase pressappoco identico e l'unità territoriale fu solo debolmente minacciata dal feudalesimo (Principato di Taranto, Ducato di Sora, Ducato di Bari) e dalle incursioni ottomane. Occupava grossomodo tutta la parte della penisola italiana che oggi è conosciuta come Mezzogiorno, dai fiumi Tronto e Liri, dai monti Simbruini a nord, fino al capo d'Otranto e al capo Spartivento. Era diviso in giustizierati o province con a capo un giustiziere attorno a cui ruotava un sistema di funzionari che lo aiutavano nell'amministrazione della giustizia e nelle riscossioni delle entrate tributarie. Ogni città capoluogo dei giustizierati ospitava un tribunale, un presidio militare e una zecca (non sempre attiva).
| Giustizierato | Capoluogo | Istituzione | Note |
|---|---|---|---|
| Abruzzo ulteriore | L'Aquila | Carlo I d'Angiò | Nel XVII sec. vi fu scorporato l'Abruzzo Ultra II con capoluogo Teramo |
| Abruzzo citeriore | Chieti | Carlo I d'Angiò | |
| Terra di Lavoro | Capua | Federico II | |
| Contado di Molise | Campobasso | Federico II | l'amministrazione era affidata al giustiziere di Capitanata |
| Capitanata | Foggia | Federico II | per brevi periodi fu sede di giustizieri anche San Severo e Lucera. |
| Principato Ultra | Avellino | Carlo I d'Angiò | |
| Principato Citra | Salerno | Federico II | in età federiciana comprendeva anche il Principato Ultra |
| Terra di Bari | Bari | Federico II | Sotto i sovrani francesi la Basilica di San Nicola di Bari fu chiesa regia esente dall'ordinariato episcopale. |
| Terra d'Otranto | Lecce | Federico II | dal periodo aragonese Lecce strappò il primato di centro culturale provinciale alle città bilingui greche di Otranto e Gallipoli. |
| Basilicata | Lagonegro, Potenza, Matera | Federico II | la sede dei giustizieri fu generalmente vacante. |
| Calabria Citra | Cosenza | Federico II | nel Regno di Sicilia era chiamata Terra Giordana o Val di Crati. |
| Calabria Ultra | Reggio Calabria, Catanzaro | Federico II | per lungo tempo fu regione bilingue greco-neolatina |
Bandiere
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Bandiera angioina
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Bandiera aragonese
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Bandiera borbonica
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Bandiera napoleonica
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Prima bandiera murattiana (1808–1811)
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Seconda bandiera murattiana (1811–1815)
Monetazione
Il regno di Napoli ereditò in parte la monetazione dell'antico regno di Sicilia svevo-normanno. Il tarì fu quindi la moneta più antica che nel regnò perdurò fino all'età moderna. Nel 1287 il Carlo I d'Angiò decretò la nascità di una nuova moneta, il carlino, coniata in oro puro e argento. Carlo II d'Angiò riformò nuovamente il carlino d'argento aumentandone il peso: la nuova moneta fu volgarmente nota come gigliato, dal giglio araldico della casa angioina che vi era raffigurato. Fino ad Alfonso d'Aragnona (a cui si devono i ducati in oro detti Alfonsini) non furono più coniate valute in oro, salvo che per alcune serie di fiorini e bolognini sotto il regno di Giovanna di Napoli. Durante la dominazione spagnola furono coniati i primi scudi, nonché ancora tarì, carlini e ducati. Nel 1684 Carlo II dispose la coniazione delle prime piastre. Tutto il complesso sistema monetario fu conservato poi dai Borbone e durante il periodo napoleonico, quando fu introdotto anche il franco.[33]
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Carlino d'oro o saluto emesso sotto Carlo I d'Angiò
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Alfonsino d'oro (Alfonso I di Napoli)
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Cavallo emesso sotto Ferdinando I di Napoli
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Tarì di Ferdinando il Cattolico
Economia
Il regno di Napoli nacque in un periodo molto critico per l'economia del Mediterraneo. Se i territori che occupava furono in età classica fra i più ricchi e fiorenti della storia antica, già con lo Scisma d'Oriente che interruppe l'unità territoriale dell'ex impero romano, il Mezzogiorno cominciò il lento declino. Le crociate contro il mondo arabo prima, che tra Calabria, Basilicata e Sicilia aveva restaurato un clima di relativo benessere economico, e la divisione del regno federiciano in Sicilia citeriore e Sicilia ulteriore consolidarono nelle province napoletane l'assetto amministrativo normanno, imponendo definitivamente il feudo e il latifondo come il principale sistema economico e produttivo in grado di conciliarsi con l'unità dello stato centrale. Nonostate le difficili premesse e la crescente crisi commerciale che continuava ad impoverire i porti del Tirreno meridionale e della Sicilia, il regno fu esposto a diverse dominazioni e a importanti relazioni mercantili con la penisola iberica e con l'Adriatico. Gaeta, Napoli, Reggio Calabria e i porti della Puglia furono i più importanti sbocchi commerciali del regno, che mettevano in comunicazione le province interne con l'Aragona, la Francia, e, tramite Bari, Trani, Brindisi e Taranto, con l'oriente, la Terra Santa e i territori di Venezia. Fu così inoltre che la Puglia divenne un importante centro di approvvigionamento per i mercati europei di prodotti tipicamente mediterranei come olio e vino, mentre in Calabria, a Reggio, poteva sopravvivere il mercato e la coltura della seta, introdotta dagli arabi. Dall'età aragonese la pastorizia divenne un'altra delle risorse fondamentali del regno: tra Abruzzo e Capitanata la produzione della lana grezza destinata ai mercati fiorentini, del merletto e, in Molise, l'artigianato legato alla lavorazione del ferro (coltelli, campane), divennero fin oltre il principio dell'età moderna le uniche industrie inserite nelle esigenze dei mercati internazionali.
Con lo sviluppo dell'industrializzazione il regno di Napoli fu coinvolto solo marginalmente nei processi di modernizzazione dei sistemi di produzione e scambio commerciale: si ricorda lo sviluppo dell'industria della carta a Sora e Venafro (Terra di Lavoro) e della seta a Caserta e Reggio Calabria.
Nonostante le difficili condizioni storiche che spesso causarono l'esclusione del regno di Napoli dalle principali direttrici dello sviluppo economico, il porto della capitale fu per secoli uno dei più vivi e attivi centri economici di tutto il Mediterraneo, tanto da attirare mercanti e banchieri da tutte le principali città europee, nonostante le ostilità dei turchi che con le loro incursioni erano un pesante inibitore dell'economia navale e del commercio marittimo.
Religione
La centralità del Mezzogiorno nel Mediterraneo fu storicamente causa nei territori del regno di Napoli di una discreta convivenza di costumi, religioni, fedi e dottrine che altrove erano in guerra. Dal dominio angioino si impose il cattolicesimo come religione dei sovrani e la chiesa cattolica trovò il consenso della maggiorparte della popolazione. Le guerre che videro la nascita del regno comportarono la sconfitta e la conseguente interdizione delle altre confessioni religiose a cui aderivano minoranze e coloni stranieri: Islam e chiesa ortodossa. In Calabria e in Puglia fino al concilio di Trento e alla controriforma sopravvisse l'uso del rito greco e del Credo Niceno (senza il filioque). La riconversione alla tradizione latina fu affidata storicamente ai benedettini e ai cistercensi, nonchè ad una serie di disposizioni che seguirono il concilio di Trento.[34]
U'altra importante minoranza religiosa era costituita dalle comunità ebraiche. Diffuse nei principali porti della Calabria e della Puglia, nonchè in alcune città della Terra di Lavoro e della costa campana, furono espulse dal regno nel 1542 e riammesse poi, con tutti i diritti di cittadinanza, solo sotto il governo di Carlo III.
La forte presenza cattolica nelle gerarchie nobiliari e nella giurisprudenza determinò lo sviluppo di filosofie e etiche laiche ed eversive nei riguardi della Chiesa di Roma che, su basi atomistiche e gassendiane del XVII sec., confluirono in una forma fortemente locale di giansenismo nel XVIII sec.[35]
Particolarmente diffuso e fortemente sentito in tutto il regno era il culto dei santi e dei martiri, invocati spesso come protettori, taumaturghi e guaritori, nonché della Vergine Maria (Concezione, Assunzione, Annunciazione). D'altra parte nei territori del regno sono sorti centri di vocazione, di ecumenismo, e ordini monastici nuovi quali i teatini, i redentoristi e i celestini.
Lingue e cultura
Rimase ben poco della fioritura culturale che Federico II incentivò a Palermo dando con l'esperienza della lingua siciliana dignità letteraria ai dialetti siciliani e calabresi. Con il regno angoino tutte le minoranze linguistiche furono inibite e l'uso del latino si sostituì ovunque all'arabo e al greco (quest'ulitmo sopravvisse nelle liturgie delle principali diocesi calabre fino al XVI sec.). La familiarità però con la tradizione bizantina e le ambizioni degli aristocratici di dare fondamento culturare alla propria condizione sociale favorirono lo sviluppo in tutto il regno degli studi umanistici, sia nel diritto e nella retorica latina, sia nella lingua greca riproposta a Napoli dai rifugiati orientali dopo la dissoluzione dell'impero bizantino. Già nel XV secolo, benchè con Alfonso I vennero in città molti catalani fra cui il poeta Benedetto Garreth che in Italia compose il suo canzoniere il lingua catalana, fu adottato da artisti e letterati (a partire dal Sannazaro) il fiorentino come lingua colta neolatina, rimanendo di fatto da allora la lingua di grandi personalità quali il Marino, il Vico e il Giannone. Con il vicereame spagnolo il castigliano fu anche lingua di corte e dei funzionari statali, lingua che rimase nel volgare di Napoli con un cospicuo numero di neologismi. La popolazione nella capitale e nel regno restò però sempre ancorata ai dialetti meridionali, che raggiunsero dignità letteraria prima con Lo cunto de li cunti del Basile, e quindi con l'uso della lingua napoletana nella poesia (Cortese) e nella musica e nella lirica locale. Diversi istituti di cultura erano diffusi in tutto il regno, e consistevano prevalentemente in scuole di grammatica, retorica, teologia scolastica, aristotelismo o medicina galenica, ma l'università e le scuole musicali della capitale erano in grado di competere in prestigio e avanguardia con quelle delle principali capitali europee.
Voci correlate
Note
- ^ Dell'Omo M., Montecassino un abbazia nella storia, Arti grafiche Amilcare Pizzi, Cinisello Balsamo (MI) 1999.
- ^ Exordium parvum ordinis cistercensis, cap XVI
- ^ Qualche nota su Realvalle dal sito dei cistercensi
- ^ Qualche nota su Santa Maria della Vittoria dal sito dei cistercensi
- ^ Galasso G., Storia d'Italia, vol 15, tomo I, Torino 1992.
- ^ Summonte G. A., Historia della Città e del Regno di Napoli
- ^ G. Galasso, Storia d'Italia, vol. 15, tomo I, Torino 1992
- ^ Concejo de la Mesta dalla wikipedia in spagnolo
- ^ Franciosa L., La transumanza nell'Appennino Meridionale, Napoli 1992
- ^ Gli ebrei nell'Italia meridionale
- ^ La Giudecca di Fondi in Terra di Lavoro
- ^ G. Galasso, Storia d'Italia, vol. 15, tomo I, Torino 1992
- ^ Giannone P., Storia civile del regno di Napoli, 1723
- ^ Giannone P., Storia civile del regno di Napoli, 1723
- ^ Monteregali, J. Bianco, Canones et decreta concilii tridentini 1869
- ^ Gaeta F., Il Rinascimento e la Riforma, in Nuova storia universale dei popoli e delle civiltà, vol. IX, tomo I, Utet, Torino 1976.
- ^ Salmi, 68,16 (Monte Sublime)
- ^ Mons Pinguis dovrebbe essere il nome con cui Campanella rinominò Stilo, che sarebbe dovuta diventare la capitale della nuova repubblica. Molte delle informazioni sono però il risultato di atti processuali, spesso estorte e non necessariamente corrispondenti alle intenzioni reali dei rivoltosi. Pare anche che i congiurati non esitarono a cercare l'appoggio militare degli Ottomani. La rivolta potrebbe essere inoltre legata anche ad un primo tentativo di cacciata dei gesuiti dalla Calabria e ad una reazione delle ultime istituzioni di cultura greca ed orientale sopravvissute nel Mezzogiorno (P. Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, 1723)
- ^ Oltre a Gioacchino da Fiore pare che il Campanella si servisse nelle proprie prediche e nella propaganda politica anche dei discorsi di Savonarola e dell'Apocalisse di Giovanni (P. Giannone, Storia civile del Regno di Napoli, 1723)
- ^ fuggito in Francia, il Campanella morirà a Parigi nel 1639
- ^ Immagini di Forte Longone a Porto Azzurro, Isola d'Elba
- ^ Spinosa N., Spazio infinito e decorazione barocca, in Storia dell'arte italiana, vol VI, Einaudi ed., Torino 1981
- ^ Atti del convegno di studi, di Bianchi F. e Russo P., La scelta della misura. Gabriello Chiabrera: l'altro fuoco del barocco italiano, Costa & Nolan ed., Genova 1993.
- ^ cfr. il tentativo di Mehmet III di invadere la Sicilia
- ^ Simoncini G. (a cura di), Il regno di Napoli, vol. II, Sopra i porti di mare, Pisa 1993
- ^ Catholic Encyclopedia
- ^ La certosa di Padula
- ^ G. De Giovanni, Il Giansenismo a Napoli nel sec. XVIII, Asprenas I, 1954
- ^ Recuperati G., L'esperienza religiosa e civile di P. Giannone, Ricciardi ed. Napoli 1970
- ^ Binni W., L'Arcadia e il Metastasio, La Nuova Italia, Firenze 1963
- ^ Lioy G., L'abolizione dell'omaggio della chinea, Archivio Storico per le Province Napoletane, VII, 1822
- ^ Di Biasio A., Territorio e viabilità nel Lazio meridionale. La rete stradale degli antichi distretti di Sora e Gaeta dal tardo settecoento all'Unità, Rassegna Storica Pontina I, 1993
- ^ Banca d'Italia - Museo della Moneta
- ^ Musolino G., Santi eremiti italogreci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Rubettino Ed., Soveria Mannelli (CZ) 2002
- ^ G. De Giovanni, Il Giansenismo a Napoli nel sec. XVIII, Asprenas I, 1954
Bibliografia
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- AA.VV., Riformatori napoletani, a cura di F. Venturini. Classici Ricciardi, tomo III, 1962.
- Colagnasso F., L'Italia nel Rinascimento, Utet, Torino 1965.
- Croce B., Storia dell'età barocca in Italia. Pensiero. Poesia e letteratura. Vita morale., Laterza ed. Bari 1929.
- Croce B., Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Laterza ed., Bari 1911.
- Galasso G., Storia d'Italia, vol 15, tomo I, Torino 1992.
- Houbenn H., Vetere B., I Cistercensi nel Mezzogiorno medievale, Lecce 1994.
- Pepe G., Il Mezzogiorno d'Italia sotto gli Spagnoli, Sansoni ed., Firenze 1952.
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