Metessi

MetexiPlatone

Tra il mondo delle cose terrene e quello delle idee esiste una differenza ontologica da porre Platone di fronte a un dualismo che egli cerca di superare tramite la ricerca di un rapporto che egli si sforza di definire in qualche modo. L'unico rapporto possibile tra il piano delle cose e quello delle idee è quello "mimetico": ogni realtà sensibile (ente) corruttibile imita il suo perfetto modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli è quello che può compiere l'anima, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale. Ciò non supera però la fondamentale differenza tra i due mondi.

Il problema è legato storicamente alla presenza nell'Accademia di Aristotele, durante gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica all'"ontologia della differenza" abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In sostanza, la domanda che poneva Aristotele è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono - essere e non-essere - che senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo delle cose a pura illusione?

La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione (mèthexis): le cose particolari parteciperebbero dell'idea corrispondente

L'ontologia platonica si presenta dunque come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle cose (gli enti) e quello delle idee, tra i quali tuttavia esiste una differenza ontologica, cioè incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il piano delle cose e quello delle idee è quello "mimetico": ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli è quello che può compiere l'anima, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale.Platone si rifà alla concezione orfica pitagoriga dell'anima ove infatti la stessa e scissa in due parti, la prima mortale che muore insieme al corpo e la seconda immortale che, secondo Pitagora si reincarna in altri corpi, ma secondo Platone contempla le idee nella loro perfezione prima di ridiscendere "intrappolata" in un altro corpo


Ontologia e dialettica [modifica] Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la dialettica.

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. In una seconda fase, il filosofo aveva proposto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale le cose sono imitazioni della loro idea. Ma entrambe le risposte mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di carattere logico. In una terza fase, Platone mette in discussione una delle basi parmenide e della sua ontologia, quella della immobilità dell'essere: il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con quelle ad essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza (generi, specie). In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie. Inoltre, viene profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene a costituirsi come il "diverso", un'altra modalità dell'essere. La diairesis non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico.

Nel Sofista Platone colloca 5 generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate, e il conciliare unità, molteplicità, staticità e movimento è detto rapporto di comunanza (koinonìa)


Un problema piuttosto grande che s’incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non da mai. Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e moltiplicazione”: partendo cioè da un’analisi di certi fenomeni, si tratta di unificarli sotto un unico genere. All’opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l’Idea è di fatto una unità del molteplice, che racchiude ed assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri (basta pensare all’idea del bello che unifica tutte le varie cose belle).

Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all’interno del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili ad una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare ad una ad una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque è più vera della altre (mai vera in senso assoluto). Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo conto che nel Filebo, Platone mescola ancora una volta le carte in tavola. Nel dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, ed allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui i molti sono uno e l’uno è molti.

Che cosa significa quest’asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell’applicazione della dialettica è quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico. All’interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire; nell’attribuire questo concetto ad una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella di Aristotele, per mezzo della quale, secondo lo Stagirita, è possibile raggiungere con l’intelletto la realtà dei principi primi.

Assistenza (Storia)

Con assistenza s'intende l'organizzazione di un soccorso, fornito in forma costante nel tempo, a bisognosi da parte di singoli o di enti pubblici o privati.

L'assistenza si origina da un sentimento di solidarietà umana nei confronti di singoli che vivono in stato di necessità a causa di intervenute condizioni esistenziali (orfani, vedove, poveri, inabili al lavoro o disoccupati, malati, anziani) o per calamità che investono intere comunità (guerre, epidemie, carestie, disastri naturali, crisi economiche).

Assistenza come elargizioni e carità

L'itinerario filosofico di Agostino d'Ippona

Nel IV sec.d.C. il cristianesimo conquista non solo la propria legittimazione civile e politica ma anche una certa egemonia culturale. Le tappe fondamentali di questa conquista sono: l’Editto di tolleranza (313), la partecipazione di Costantino al Concilio di Nicea (325) e il riconoscimento da parte di Teodosio del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero.

Parallelamente a questa affermazione culturale, si avverte negli scrittori e nei pensatori cristiani l’esigenza di mediare le ragioni della fede con le dottrine filosofiche classiche.

Lattanzio, vissuto tra il III e il IV sec. tenta di fondare la concezione cristiana di Dio sui principi stoici sulla base dei quali giustifica l’ordine razionale del mondo.

Arnobio, tenta il recupero degli dei pagani come forze operanti nel cosmo.


Agostino, tra i pensatori dell’età tardo-antica, più di tutti ha saputo riflettere con profondità sui problemi teologico-speculativi ed etico-antropologici connessi alla religione cristiana. È uno dei maggiori Padri della Chiesa.

Nacque a Tagaste, in [[Numidia]+, nel 354, da padre pagano e madre cristiana (Monica) dalla quale subirà un’influenza decisiva per la sua conversione al cristianesimo. Studiò retorica a Madaura e Cartagine.

Nel 373 lesse l’Ortensio di Cicerone, opera di esortazione alla filosofia.

In questo stesso anno si avvicinò al MANICHEISMO, una corrente teosofica che postulava l’esistenza di due principi contrapposti: bene e male.

A Milano incontrò il vescovo Ambrogio che lo illuminò nell’esegesi biblica. Studiò Plotino, il quale, attraverso la sua concezione del male, gli consentì di superare il dualismo manicheo.

Nel 387 si convertì al cristianesimo.

Nel 391 venne chiamato a Ippona dal vescovo Valerio al quale successe cinque anni dopo sulla cattedra episcopale. In questa veste intervenne con vigore in dibattiti religiosi e culturali di grande attualità (soprattutto contro alcune sette ereticali).

Morì nel 430.


Principali opere

Ricordiamo, nella vastissima produzione agostiniana: "Contro gli Accademici", "L’immortalità dell’anima", "I soliloqui", "La vera religione", "Le Confessioni", il trattato "Sulla Trinità", una serie di brevi scritti sulla predestinazione e sul libero arbitrio ed, infine, "La Città di Dio".


La questione del male

Il Male, per Agostino, non ha una consistenza ontologica autonoma.

A tale proposito distingue il male fisico, conseguenza del peccato originale, dal male morale, definito un "pervertimento della volontà" e un allontanamento da Dio.


Rapporto fede ragione

La fede è complementare alla ragione e la ragione alla fede. Le frasi con cui Agostino riassume questo suo pensiero sono:

CREDE UT INTELLIGAS (Credi per capire)

INTELLIGE UT CREDAS (Capisci per credere)

Teologia, metafisica e scienza dell’uomo sono congiunte in Agostino.


Contro Pelagio

In questo scritto ribadisce la naturale peccaminosità dell’uomo.

Pelagio, sosteneva che l’uomo, nonostante il peccato originale, può compiere il bene, ha la capacità di scegliere il bene.

Agostino sottolinea l’intervento della volontà: è essa che governa la ragione e quando volge al male, solo la fede e l’intervento divino possono redimerla.

In questo contesto occupa un ruolo determinante la Grazia (teoria della Predestinazione) secondo cui Dio predestina l’uomo alla salvezza e alla dannazione secondo il proprio imperscrutabile disegno (Sul libero arbitrio).


L’itinerario agostiniano


Quello di Agostino è un pensiero asistematico che, alla struttura analitica delle argomentazioni, predilige le "intuizioni" immediate. In ciò si avverte l’influsso e la metodica dei suoi grandi maestri, Platone (vir sapientissimus) e Plotino ("reincarnazione" di Platone).

L’itinerario ha come centro focale l’anima o l’attività dello spirito e si compie attraverso una graduale conquista realizzata attraverso 3 fasi:


Superamento critico della scepsi.


Teorizzazione della dottrina dell’autocoscienza o dell’autonoesi su cui viene fondata la metafisica agostiniana della veritas interiore.


Il trascendersi dell’io autocoscienziale ed il conseguente attingimento del fondamento ontologico o del principio della verità appresa e spiritualmente fruita per partecipazione dall’autocoscienza.



1° momento teoretico.

Superamento dello scetticismo


Nel dialogo Contra Academicos, Agostino critica lo scetticismo degli Accademici che rappresenta la più grave aporia e il principale ostacolo alla ricerca filosofica in quanto inficia alla radice la tensione teleologica verso la verità.

Agostino si sofferma a demolire il probabilismo di Arcesilao e Carneade i quali, nella loro polemica contro il dogmatismo degli Stoici, negavano la possibilità di raggiungere la certezza e la verità, sostenendo che la ragione umana può al massimo pervenire alla probabilità e alla verosimiglianza (Qui Agostino fa riferimento agli Academica priora di Cicerone).

L’argomento con il quale Agostino confuta il probabilismo degli scettici è il seguente:

se si nega la certezza e la verità non è possibile sostenere la probabilità e la verosimiglianza. Infatti, il certo e il vero sono i criteri con cui valutiamo il probabile e il verosimile. Senza il rapporto con la certezza e la verità, ciascuna cosa detta diventa nomina vacua, priva di ogni significazione reale.

– L’argomento dell’inganno dei sensi

Agostino conosce tutti i topoi della casistica scettica contro la veridicità delle percezioni sensoriali (ramo spezzato nell’acqua, collo iridescente della colomba, torri della costa, l’eco, ecc.). Egli afferma che i sensi non ci ingannano, ma si limitano a recepire passivamente delle realtà o delle apparenze. Il principio è "sentire non est corporis, sed animae per corpus". La verità è tutta interiore, risiede nello spirito che assumendo i dati offerti dai sensi, li elabora e li trasforma in valori noetici.

Agostino intende la filosofia come "amor studiumque sapientiae" e a tal uopo distingue la scienza, che è conoscenza razionale-discorsiva delle realtà empirico-temporali, dalla sapientia, che è conoscenza noetico-intuitiva delle realtà metatemporali.


– Il dubbio. Teoresi del superamento del dubbio

Il dubbio si supera, sostiene Agostino (anticipando le argomentazioni di Cartesio a proposito del cogito), con la coscienza critica del dubbio stesso. Infatti chi dubita, nell’atto stesso del dubitare, ha coscienza di sé come dubitante; ha la certezza del suo pensiero che dubita (Cfr. "De vera religione").

Vi è, dunque, una realtà certa, indubitabile: la presa di coscienza del dubbio. Di questa realtà non si può dubitare.

Ma se ci sbagliassimo?, potrebbero obiettare gli Accademici.

Agostino risponde: "Si fallor, sum". Se m’inganno, ho la certezza del mio essere. Questa certezza dell’ego cogitans è una certezza interiore che non soggiace agli inganni della realtà esterna.

Possono essere falsi o illusori gli oggetti di cui si dubita, ma l’atto del soggetto dubitante, in quanto pensiero consapevole e atto critico della coscienza, contiene in sé tutta una serie di certezze. Il soggetto o io dubitante:


Si dubitat vivit (certezza esistenziale)


Si dubitat, unde dubitet meminet (certezza della genesi del dubbio)


Si dubitat, dubitare se intelligit (certezza dell’atto dubitante)


Si dubitat, cogitat (certezza del cogito, del pensiero)


Si dubitat, scit se nescire (certezza del limite e dell’aporeticità del pensiero e della scienza)

Altre certezze sono il principio di non-contraddizione e i principi della matematica (validi a priori).


Ma come possiamo attingere la veritas?



2° Momento teoretico

METAFISICA DELLA "VERITAS INTERIORE"


L’anima o la mente, nel momento in cui supera la scepsi, afferma con certezza la propria realtà ontologico-esistenziale, prende coscienza del suo io interiore che non è un aliud distinto dall’anima ma è l’anima stessa che si autoconosce. L’anima dunque si pone come autocoscienza, cioè come soggetto ed insieme oggetto della propria conoscenza.

Tale autocoscienza non va confusa con l’introspezione (che coglie i dati psichici). Essa si attua a livello noetico della mens ed è quindi conoscenza diretta, immediata, non analitica, ma noetico-intuitiva (Autonoesi) (cfr. l’argomento nelle Enneadi di Plotino).

La verità, continua Agostino, non è fuori di noi, ma dentro di noi, inerisce all’interiorità della nostra anima: "Noli foras ire; in te ipsum redi: in interiore homine habitat veritas".

Questo principio, che rivaluta l’imperativo socratico del "Conosci te stesso", fonda la metafisica della verità interiore che è il centro della filosofia agostiniana.

Nella sua interiorità, l’anima scopre il mondo delle idee che non sono innate secondo la dottrina platonica. La presenza delle idee si spiega col principio della partecipazione (metexi) che in Agostino assume un significato diverso e viene integrato dalla dottrina dell’illuminazione.

La dottrina della verità è in noi non come lumen innatum ma come lumen participatum. l’anima riceve per partecipazione alcune idee o principi assoluti che debbono guidare l’attività razionale come criteri assoluti di giudizio. Tali idee sono:


I Principi della logica o della dialettica, validi a priori, indipendentemente dall’esperienza.


Le Veritates numerorum e gli assiomi delle scienze matematiche (a priori)


Le idee o nozioni universali di unità, verità, falsità, eternità, ecc.


I principi dell’etica (bene, male, giustizia, ecc.)


I principi normativi dell’estetica (idea del bello, arte)

Queste idee, come tutte le infinite rationes rerum, sono contenute nella mente di Dio o nel Logos divino (Agostino trasferisce le idee dall’Iperuranio platonico alla mente di Dio).

Queste idee sono vere perché eterne e immutabili. Tutto ciò che esiste, esiste come partecipazione ad esse. Esse sono il fondamento di ogni conoscenza intellegibile.



3° MOMENTO TEORETICO

IL TRASCENDERSI DELL’IO AUTOCOSCIENZIALE


I caratteri essenziali delle idee sono 6:


Le idee sono principi assoluti, validi a priori, indipendentemente dall’esperienza sensibile.


Sono immutabili, ossia riguardano la substantia rerum, ciò che permane del mutare dei fenomeni.


Sono necessarie, senza intellezione delle idee non c’è sapienza.


Sono indipendenti dal soggetto conoscente.


Sono eterne.


Sono universali.


Le verità sono intuite dalla mente ma non possono essere originate dalla mente stessa perché assolute, immutabili, quindi superiori alla mente che, per sua natura, è soggetta all’errore.

Per attingere il fondamento della verità, l’anima pervenuta all’autocoscienza, deve superarsi e trascendersi.

Il fondamento della verità è, dunque, Dio.



IL PROBLEMA DEL TEMPO

Il rapporto tra Dio e il mondo, tra creazione e storia, costituisce anche per Agostino il motivo di una originale riflessione sul problema del tempo. Anche qui, il motivo occasionale è costituito da un'obiezione molto diffusa contro il pensiero cristiano: se il mondo è stato creato nel tempo, cosa faceva Dio prima della creazione? La soluzione che Agostino dà al problema è originale non solo per l'impostazione metodologica, ma anche per le sottili analisi psicologiche che vi fanno da contorno.

"Che cos’è dunque il tempo? Quando nessuno me lo chiede, lo so; ma se qualcuno me lo chiede e voglio spiegarglielo, non lo so. Tuttavia affermo con sicurezza di sapere che, se nulla passasse, non vi sarebbe un tempo passato; se nulla si approssimasse non vi sarebbe un tempo futuro se non vi fosse nulla, non vi sarebbe il tempo presente. Ma di quei due tempi, passato e futuro, che senso ha dire che esistono, se il passato non è piú e il futuro non è ancora? E in quanto al presente, se fosse sempre presente e non si trasformasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità... Questo però è chiaro ed evidente: tre sono i tempi, il passato, il presente, il futuro; ma forse si potrebbe propriamente dire: tre sono i tempi, il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro. Infatti questi tre tempi sono in qualche modo nell'animo, né vedo che abbiano altrove realtà: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione diretta, il presente del futuro l'attesa... Il tempo non mi pare dunque altro che una estensione (distensio), e sarebbe strano che non fosse estensione dell'animo stesso. (Confessioni XI, 14, 17: 20, 26; 26, 33).

Ridotto dunque il tempo ad una "distensione dell'animo" cioè in fondo ad un'attività della coscienza, ne risulta che il problema prima posto è privo di senso: Dio non ha creato il mondo nel tempo ma col tempo: l'eternità è al di fuori del tempo e l'azione divina si svolge appunto nell'eternità. Con il che risulta ribadita quella sostanziale estraneità dell'uomo alla storia ed al tempo delle cose terrene, perché la vera realtà dell'uomo è appunto in un "presente eterno" la cui misura è la sua stessa anima: e se la verità di questo essere dell'anima è la ricerca o meglio il ri-trovamento di Dio, ciò è vero nella vita interna dell'uomo di cui sono parti tutte le sue azioni, ed è vero in tutta la storia dei figli dell'uomo, di cui sono parte tutte le vite umane. (Conf. XI, 28, 38)


Ruota degli esposti

(latino)
«Impius ut cuculus generat pater atque relinquit quos locos infantes excipit iste nothos [1]»
(italiano)
«Empio come il cuculo, il padre genera ed abbandona in luoghi solitari i figli che codesta (Ruota) accoglie come illegittimi»

La Ruota o rota degli esposti era un meccanismo, di solito costruito in legno, girevole di forma cilindrica diviso in due parti fornite per protezione di uno sportello: una verso l'interno ed un'altra verso l'esterno che combaciando con una finestra su un muro permettesse di collocare, senza essere visti dall'interno, gli esposti, i neonati abbandonati. Facendo girare la ruota la parte con il trovatello veniva immessa nell'interno dove aperto lo sportello si poteva prendere il neonato per dargli le prime cure.

Spesso vicino alla ruota vi era una campanella, per avvertire chi di dovere di raccogliere il neonato ed anche una feritoia nel muro, una specie di buca delle lettere dove mettere offerte per sostenere chi si prendeva cura degli esposti.

Cenni storici

Nell'antichità era uso abbastanza diffuso presso diverse popolazioni, abbandonare figli indesiderati: Gli ebrei ad esempio ne vietavano l'uccisione ma consideravano legittimo l'abbandono o la vendita degli illegittimi. La Grecia di Solone e Licurgo considerava legale l'infanticidio e l'abbandono. I romani al padre che non riconosceva il figlio come proprio sollevandolo da terra (allevandolo) era consentito portarlo alla columna lactaria esponendolo a chi passava e alla sorte di morire di fame o essere fatto schiavo.

La condizione degli esposti cambia con l'avvento del Cristianesimo. L'imperatore Costantino sancisce nel 315 che una parte del fisco sia utilizzata per il soccorso degli infanti abbandonati e per i figli delle famiglie povere. Nel 318 una legge prevede la pena di morte per l'infanticidio ma non sanziona chi vende i propri figli. Soltanto nel VI secolo Giustiniano punirà l'abbandono considerandolo come infanticidio.

Il primo brefotrofio

«Sancte memento Deus

quia condidit iste Datheus
Hanc aulam miseris auxilio pueris»

Il primo ricovero, il Xenodochio, per neonati abbandonati fu istituito a Milano nel 787 dall'arciprete Dateo che il 22 febbraio 787 nel suo testamento dava le seguenti disposizioni:

«Dateo, arciprete della santa Chiesa milanese, figlio del magescario Damnatore, con l’aiuto della divina misericordia vuole stabilmente fondare in questa città di Milano, presso la chiesa cattedrale, un brefotrofio come opera di santa pietà cristiana.
(...) infatti le donne che hanno concepito in seguito a un adulterio, perché la faccenda non si sappia in giro, uccidono i propri figli appena nati e così li mandano all’inferno senza il lavacro battesimale. Questo avviene perché non trovano un luogo dove possano conservarli in vita, tenendo nascosta nel contempo l’impura colpa del loro adulterio; allora li gettano nelle cloache, nei letamai e nei fiumi.
Pertanto io, Dateo, confermo attraverso queste disposizioni che sia istituito un brefotrofio per i bambini nella mia casa e voglio che questo brefotrofio sia posto giuridicamente sotto la potestà di S. Ambrogio, cioè del vescovo “pro tempore”.
(...)Voglio inoltre e stabilisco quanto segue: (...) che si provveda a stipendiare regolarmente alcune nutrici che allattino i bambini e procurino loro la purificazione del battesimo. Finito il periodo dell’allattamento, i piccoli vi dimorino ininterrottamente per sette anni, ricevendovi adeguata educazione con tutti i mezzi necessari; lo stesso brefotrofio fornisca loro vitto, vestiti e calzari...» [2]

La prima "Ruota" compare in Francia, nell'ospedale di Marsiglia nel 1188 e poco dopo ad Aix en Provence e a Tolone. In Italia secondo la tradizione Papa Innocenzo III turbato da ricorrenti sogni in cui gli apparivano cadaveri di neonati ripescati dalla reti nel Tevere istituì una "ruota" nel 1198 nell'ospedale di Santo Spirito in Sassia.

Le ruote presero a diffondersi oltre che in Italia e Francia anche in Grecia e Spagna mentre non si hanno notizie di altrettanti strumenti per gli esposti in Inghilterra dove l'abbandono dei neonati e l'infanticido non veniva affatto considerato un problema sociale tanto che comunemente si trovavano cadaveri di feti o di neonati nelle discariche o nelle fogne.

Agli inizi del XIX secolo a causa dell'aumento demografico che aveva portato in poco tempo la popolazione europea da 100 a 200 milioni di abitanti si cominciò a mettere in discussione la validità dell'istituzione della ruota che riversava sulle casse pubbliche il problema del sostentamento di famiglie numerose poichè spesso venivano affidati all'assistenza pubblica anche figli legittimi. In Francia e in Italia, dove venivano abbandonati ogni anno dai trenta ai quarantamila neonati, si cominciò a considerare l'idea di abolire la ruota anche per le miserevoli condizioni dei brefotrofi dove morivano per stenti la maggior parte degli esposti. La prima città in Italia a chiudere la ruota fu Ferrara nel 1867 seguita a mano a mano da altre città in tutto il corso dell'800 sino alla completa abolizione delle "ruote" nel 1923 con il "Regolamento generale per il servizio d'assistenza agli Esposti" emanato dal primo governo Mussolini.

Note

  1. ^ Iscrizione su una targa apposta su una ruota in Senigallia (in Orienti Isabella, Gli esposti a Senigallia nell’Ottocento, in Proposte e ricerche, n. 16, Ostra Vetere 1986.
  2. ^ Fiorio Maria Teresa, S. Salvatore in xenodochio, in Le chiese di Milano, Electa, Milano 1985, p. 230


Bibliografia

  • Orienti Isabella, Gli esposti a Senigallia nell’Ottocento, in Proposte e ricerche, n. 16, Ostra Vetere 1986.










http://www.librerianeapolis.it/pages/Schede/La_Rota_degli_Esposti.html

http://www.rigocamerano.org/laruotagut.htm

http://www.pereto.info/la_ruota_degli_esposti.htm

http://www.ambulatorio.com/site/redazionali/viewpage.xpd?id=1309




di Enrico Balla, estratto da Hombres, anno IX, n° 1/2004, pag. 2

Prima del XIX secolo, in Italia, i neonati non accettati dai genitori venivano abbandonati ai bordi delle strade, davanti a conventi e chiese o davanti alle abitazioni di balie e levatrici. Spesso accadeva che le gravidanze concepite fuori delle regole sociali (per stupri, violenze, concubinaggi) venivano interrotte con crudeli metodi empirici, colpi sul ventre, salassi, aste infisse nell'utero, bevande ed infusi. E quando tutto questo risultava inutile, la soppressione fisica del neonato diveniva l'ultimo mezzo per evitare il disonore oppure un'ulteriore bocca da sfamare, specie presso le classi più povere. Un rimedio a questa barbarie fu posto dal governo francese di Napoleone Bonaparte che, a seguito dell' annessione del Regno di Napoli nel Regno Italico (1806-1815) rese obbligatoria (con Decreti del 06/12/1806 e del 12/08/1807 relativi alla tutela, cura ed emancipazione degli esposti) anche per i Comuni dell'Italia meridionale l'istituzione della "Rota Proiecti". Questa, tuttavia, non rappresentò una novità assoluta, perche gia dalla prima metà del 1600 vi erano delle disposizioni che stabilivano la costruzione di ricetti presso il palazzo del Magistrato, denominato dal volgo Corte di Giustizia. All' epoca a Pereto il locale adibito a ricevere i neonati abbandonati, costruito al piano terra in Contrada Pachetto, a fianco alla Corte di Giustizia e più precisamente nella casa di Pasquale Vendetti, sita nell' attuale Via S. Giorgio nr. 51, di metri tre di lunghezza per uno di larghezza, con finestra semicircolare chiusa da un'inferriata di ferro, era affidato alle suore terziarie di S. Francesco, tra le quali, Suor Marta Balla, morta il 17 ottobre 1661 e sepolta nella chiesa di s. Giorgio. La suora ricoprì la carica di Priora della Deputazione degli Esposti, aggregata alla Compagnia del SS. Rosario fondata nel 1628 nella chiesa di S. Giorgio. Una vera e propria Ruota degli Esposti venne costruita nello stesso locale solo dopo i decreti napoleonici. Fu ricavata, nel muro sottostante l'inferriata, un' apertura di circa un metro per settanta centimetri e vi fu incassato il cilindro rotante su un perno centrale. n cilindro ligneo era diviso verticalmente in due parti: una rivolta alI' esterno verso la strada e l'altra all'interno verso l'abitazione della Rotara. Ambedue le parti erano riparate da uno sportello. Ora è visibile solo l'impronta dell'apertura chiusa in muratura Venivano accettati i neonati di Pereto e delle sue frazioni. Anticamente solo quelli che era possibile far passare attraverso la ferrata (quindi di pochi mesi). Inoltre, in astratto, non si potevano accogliere i bambini non battezzati. Questa procedura era generalizzata e raccomandata dal clero a causa dell'alta mortalità che colpiva gli esposti ed allo scopo di assicurare loro I' accesso al Paradiso: il diritto di essere battezzati era in pratica l'unico diritto che veniva realmente riconosciuto agli esposti; tanto che venivano accettati anche i bambini che non avevano con se la dichiarazione d' avvenuto battesimo. Il neonato, quindi, veniva affidato in allattamento ad una balia o ad una puerpera che aveva perduto il figlio, alle quali la Deputazione riconosceva un compenso in denaro. Solo dopo il 1800 al neonato veniva imposto oltre al nome anche un cognome, il più delle volte riferito al suo stato di esposto (tant'è che i cognomi più comuni sono Esposito, Proietti e Trovato; a Pereto: Rotile e Proietti/a/o), altre volte legato alla storia, alla geografia, alla fantasia del Rotaro (Salvato, Diotallevi, Piacquaddio; a Pereto veniva dato il cognome Fortuna). Il preposto alla Rota degli esposti, detto Rotaro, era eletto dal Potestà su proposta del Priore della Compagnia del SS. Rosario. I suoi compiti erano abbastanza delicati e molteplici, dovendo occuparsi: di ricevere gli esposti; di farli visitare da un medico; di tenerli a battesimo se non risultavano battezzati in precedenza; di scegliere la balia; di preoccuparsi dei funerali; di tenere il registro degli esposti; di nutrire gli spuri prima dell' arrivo della balia; di provvedere alle cure per le frequenti malattie riscontrate (vermi, malattie da raffreddamento, febbri, rogna, dermatosi), all'invio in ospedale ed alI' affidamento in adozione. Il fenomeno degli esposti dal 1809, può essere studiato con attenzione sfogliando i registri dello Stato Civile istituiti in ogni Comune a seguito delle disposizioni del Libro I, Titolo 2, del Codice Napoleonico e, in particolare, del Real Decreto 29 ottobre 1808. A Pereto il fenomeno non fu molto esteso; anzi, dall' esame del registro delle nascite e del liber Baptizatorum si rileva che dal 1800 al 1875, anno in cui la Ruota venne definitivamente abolita, solo sei su sedici neonati spuri (ossia con uno o entrambi i genitori sconosciuti) furono esposti. In effetti, nella Marsica era molto radicato n sentimento materno. Un sentimento che non si lasciava scalfire ne dal disonore ne dalla miseria ne dall'ignoranza. I bambini nati da padre incerto furono i seguenti dieci: nel 1801, Maria Domenica, figlia di Rosalia Vendetti; nel 1808, Lucia, figlia di Francesca Caietalli; nel 1809, Giacomo, figlio di Palmantonia Cicchetti; nel 1809, i gemelli Luigi e Margherita, figli di Maria Iadeluca; ne11821, Domenico Antonio figlio di Annantonia Alleve; nel 1832, Angela, figlia di Domenica Di Benedetto abitante in Oricola; nel 1833, Domenica, figlia di Giovanna Alfani di anni 20; 1842, lppolito, figlio di Francesca Alfani; 1871, Mattia Giustini Proietto, figlio di Bernardina Giustini. I neonati con entrambi i genitori sconosciuti, esposti nella Ruota dei Proietti, furono i seguenti sei: nel 1834, Francesco Rotile, presentato al Comune dalla Rotara di Pereto Caterina Malatesta; nel 1835, Saverio Fortuna, presentato da Caterina Malatesta al Comune, ove venne registrato con l' annotazione " è stato rinvenuto esposto Circa le ore quattro dell' antecedente notte nella Ruota dei Proietti di questo Comune Centrale sita nella casa di Pasquale Vendetti in Contrada Pachetto dell' età di giorni due involto con fasce e pannolini laceri, senza alcuna malattia apparente o altro segno, cui è stato imposto il nome di Saverio Fortuna"; nel 1837, Angela Proietti, presentata per la registrazione della nascita al Comune Centrale da Maria Lucidi della frazione di Oricola; nel 1840, Respinto Educato, presentato al fonte battesimale ed al Comune da Rosa moglie di Simeone Falasca di Oricola; nel 1859, Maddalena Apollonia Proietta, la cui madrina di battesimo fu Maria Felicia Palombo; nel 1860, Bernardino Proietto, la cui madrina fu Pasquarosa Giusti moglie di Antonio Vendetti. La ruota voluta dai governanti di un tempo contrassegnato da tanta miseria ed ignoranza ha avuto l'importante funzione di accogliere tanti infelici abbandonati, dando loro una possibilità di sopravvivenza. Essa, forse, avrebbe una sua validità anche oggi, specie se si considera il consistente numero di coppie che, contro ogni legge di natura, ancora si sbarazza delle loro creature. La ruota costituirebbe un modo molto più dignitoso di un cassonetto delle immondizie o di un sacco di plastica, potrebbe evitare cruenti infanticidi e soddisfare le tante coppie sterili che domandano adozioni non sempre facili da ottenere. La ricerca storica documentale effettuata su questo triste spaccato di vita comune mi spinge a riflettere ed a pensare a quegli adolescenti insofferenti ed incontentabili che non si accorgono che la cosa più bella che potesse loro capitare è l' essere nati e cresciuti in una famiglia che li ha curati e difesi con amore e, spesso, con esclusiva dedizione.



La Ruota era un meccanismo “a torno”, ossia rotondo e girevole, a forma di cilindro e diviso in due parti: una rivolta verso la strada e l’altra verso l’abitazione del custode dei trovatelli; ambedue le parti erano riparate da uno sportello.

Sull’esterno, a fianco della Ruota, c’era una campanella che serviva per richiamare l’attenzione del custode. Inoltre c’era un “foro praticato nel muro a guisa della Posta delle Lettere”, “con suo sportello con chiave all’interno” che serviva “per ricevere le Carte e le oblazioni spontanee de’ Benefattori”.

Sul muro, all’esterno, era stata riportata “l’iscrizione posta sopra” la rota di Senigallia, che recitava così:

IMPIUS UT CUCULUS GENERAT PATER ATQUE RELINQUIT QUOS LOCOS INFANTES EXCIPIT ISTE NOTHOS (3).

(“Empio come il cuculo, il padre genera ed abbandona in luoghi solitari i figli che codesta (Ruota) accoglie come illegittimi”).



Autore: Patrizia Giordano (a cura di) Titolo: La Rota degli Esposti. Sottotitolo: Testi di Luciana Rollo Bancale, Paola de Ciucceis, Patrizia Giordano, Susanna Grande, Giovanni Mancino, Bona Mustilli, Antonio Parlato, Angelo Vanacore e Carmela Maietta. Descrizione: Volume in formato 4° (cm 28 x 22); 125 pagine; molte illustrazioni in b/n e a colori, alcune a tutta pagina. Luogo, Editore, data: Napoli, Altrastampa, 2004 Numero di edizione: Seconda Disponibilità: In commercio Prezzo: Euro 12,00