Economia romana
L'economia romana ovvero della Civiltà romana si basava principalmente sul settore agricolo e del commercio, in misura minore su quello dei servizi (società pre-industriale). Era però l'agricoltura a costituire il settore trainante dell'intera economia del mondo romano, con la conseguente necessità di costruire strumenti e macchinari adatti. Secondo stime recenti, durante l'età imperiale, il 30-40% della popolazione era impiegata in questo settore.[1] Certamente un requisito importante e necessario per avere un'economia stabile o crescente fu la pace (pax romana) in molte zone dell'Impero.

Il libero commercio agricolo aveva cambiato il panorama italico e, a partire dal I secolo a.C., le grandi proprietà terriere dedicate alla coltivazione della vite, dei cereali e dell'ulivo, avevano completamente "strangolato" i piccoli agricoltori, che non potevano competere con il prezzo del grano importato. L'annessione infatti di Sicilia (241 a.C.), Cartagine (146 a.C.) e Egitto (30 a.C.), portò l'Italia romana a rifornirsi sempre più di cereali dalle province. A sua volta, l'olio d'oliva e il vino divennero i principali prodotti esportati dall'Italia. E sebbene si praticasse le rotazione delle colture, nel complesso la produttività agricola rimaneva molto bassa: 1 tonnellata circa per ettaro.
Roma privilegiò l'espansione territoriale, quindi l'agricoltura, fin dall'origine. Si possono distinguere due fasi: all'inizio prevalevano i piccoli e medi proprietari terrieri, che costituivano anche il nerbo dell'esercito; successivamente prevalse il latifondo e si dovette creare un esercito di mercenari. Il cambiamento fu indotto dalla crisi economica successiva alla seconda guerra punica, che rovinò molti proprietari terrieri; ne seguirono anche la crisi della repubblica e, dopo lotte interne durate due secoli, la nascita dell'impero. Il latifondo dette gradualmente vita all'"economia delle ville romane", centri di produzione agricola sempre più ampi e sontuosi. La spesa pubblica era poi concentrata soprattutto sull'esercito ed in seconda battuta sulla costruzione di grandi opere pubbliche.
Storia
All'inizio dell'età del ferro (IX secolo a.C.) l'economia dei popoli dell'Italia centrale era basata quasi esclusivamente sui prodotti della pastorizia e dell'agricoltura. Allevamento ed agricoltura rappresentarono le attività economiche principali della Roma del periodo arcaico o monarchico (dall'VIII al VI secolo a.C.). Si trattava di un'economia di sussistenza: la destinazione dei prodotti era, infatti, l'autoconsumo familiare o tribale. Roma, tuttavia, si sviluppò grazie alla sua posizione su un'area di frontiera, ovvero la via commerciale tra le città etrusche e le colonie greche della Campania lungo la direttrice nord-sud, e la "via del sale" (via Salaria) tra la foce del Tevere e le comunità sabine e umbro-sabelliche dell'Appennino centrale lungo la direttrice ovest-est.
Come in gran parte delle società del mondo classico, anche l'economia dell'età repubblicana di Roma antica (dal V al I secolo a.C.) era ancora essenzialmente, se non esclusivamente, basata sulla produzione e la distribuzione di prodotti agricoli (gran parte della produzione era, tuttavia, rivolta all'autoconsumo). La classe degli aristocratici (patrizi), che nell'epoca presa in esame corrispondeva anche al ceto sociale più ricco, era costituita prevalentemente dai grandi proprietari fondiari, che seguivano personalmente la conduzione delle aziende agricole (ville rustiche). Solo nella tarda età repubblicana cominciò ad affermarsi economicamente la classe sociale degli equites, che traeva le proprie ricchezze non dall'agricoltura, bensì dal commercio, dalle industrie e dalla finanza (riscossione delle imposte e prestiti a interesse).
Nei primi due secoli dell'Impero romano lo sviluppo dell'economia si era basato essenzialmente sulle conquiste militari, che avevano procurato terre da distribuire ai legionari o ai ricchi senatori, merci da commerciare e schiavi da sfruttare in lavori a costo zero.[2] Per questo motivo l'economia appariva prospera ("secolo d'oro"). In realtà restava in una condizione di stagnazione, che divenne decadenza (declino della produzione agricola e contrazione dei grandi flussi commerciali) con la conclusione della fase delle grandi guerre di conquista (116 d.C., conquista romana di Ctesifonte, capitale dell'impero partico). L'Impero romano, infatti, da un lato si dimostrò incapace di realizzare uno sviluppo economico endogeno (non dipendente dalle conquiste) e dall'altro di ovviare all'aumento dei costi della spesa pubblica (la vera radice della crisi fu l'incremento del costo dell'esercito e della burocrazia) con un sistema fiscale più efficiente che oppressivo. La grave crisi che ne conseguì ne provocò gradualmente la decadenza, fino ad arrivare nel V secolo d.C. alla caduta della parte occidentale ad opera di popolazioni germaniche[3].
Settori produttivi e forza lavoro
Demografia, occupazione e forza lavoro
Negli anni recenti, la questione demografica è stata oggetto di crescenti ricerche da parte degli studiosi moderni,[4] con stime della popolazione dell'Impero romano pari ad un minimo di 60-70 milioni di abitanti fino a 100 milioni.[5] Ora ipotizzando una popolazione di 55 milioni di abitanti, tale cifra non fu superata in Occidente prima della metà del XIX.[6]
Dopo il primo assalto alle frontiere romane da parte, prima dei Parti e poi delle popolazioni germano-sarmatiche (durante il regno Marco Aurelio), che portarono ad una prima devastante forma di pestilenza, un'altra pesantissima e ancor più devastante epidemia colpì i territori dell'Impero nel ventennio 250-270. Si è calcolato che il morbo abbia mietuto milioni di vittime e che alla fine la popolazione dell'Impero fosse ridotta del 30 per cento, da 70 a 50 milioni di abitanti.[7]
A tutto ciò si aggiunga che il prezzo da pagare per la sopravvivenza dell'Impero fu molto alto anche in termini territoriali. A partire infatti dal 260 gli Imperatori che si susseguirono dovettero abbandonare, in modo definitivo, i cosiddetti Agri decumates (sotto Gallieno)[8] e l'intera provincia delle Tre Dacie (sotto Aureliano, nel 271 circa),[9] oltre perdere seppure in via temporanea della provincia di Mesopotamia, rioccupata solo con Galerio (verso la fine del III secolo).[10]
Agricoltura e latifondo
Il sistema agricolo romano era autosufficiente per la maggior parte della popolazione romana.[11] Si è ormai constatato che i Romani migliorarono le coltivazioni agricole grazie all'utilizzo di imponenti sistemi di irrigazione, quali la costruzione di grandi acquedotti e di opere di ingegneria idraulica. Ad esempio, dalle indagini archeologiche si è potuto constatare che vi fossero estesi territori dotati di mulini idraulici in Gallia e nella campagna romana, per poter macinare il grano in farina. I resti più imponenti esistenti sono stati trovati a Barbegal nel sud della Francia, vicino ad Arles. Erano composti da sedici ruote idrauliche disposte su due colonne, erano alimentate dall'acquedotto principale di Arles, tanto che il deflusso alimentava quello successivo della serie, che si trovava più in basso.
Agricoltori
Nella prima età repubblicana la forma più comune di azienda agricola era quella basata sulla piccola proprietà, in cui il padrone lavorava personalmente il podere con l'ausilio di schiavi o braccianti liberi salariati. Il piccolo proprietario coltivava un po' tutti i prodotti (policoltura). Solo una piccola parte dei prodotti agricoli coltivati dai nuclei familiari nelle loro piccole proprietà finiva sul mercato, la maggior parte era destinata al fabbisogno della famiglia del proprietario terriero. Il prodotto principalmente coltivato era il grano.
A partire dal II secolo a.C. le continue guerre di conquista finirono per tenere il contadino (piccolo proprietario terriero) lontano dalla propria terra per lunghi anni[12], con il risultato che le piccole aziende agricole, in mancanza del padrone (impegnato nell'esercito), non riuscivano più a rendere come in precedenza e le famiglie non erano più in grado di far fronte al tributum, ovvero alle tasse che i possidenti dovevano pagare allo Stato. La piccola proprietà terriera, inoltre, era messa in crisi anche da altri due elementi:
- le conquiste avevano rovesciato sul mercato un gran numero di prigionieri di guerra venduti a basso prezzo come schiavi, ovvero manodopera a costo zero rispetto ai braccianti salariati e quindi più conveniente per i ricchi proprietari terrieri;
- la concorrenza dei prodotti d'oltremare provocava, infine, alla lunga il declino dei redditi agricoli dei piccoli proprietari italici, privi dei capitali necessari per aumentare la produttività e sostenere la competizione.
La conseguenza inevitabile di tale situazione fu il ricorso all'indebitamento, che spesso si concludeva con la cessione del fondo di proprietà a latifondisti. I contadini ormai espropriati non avevano molte altre opportunità di lavoro: prima della riforma mariana del 107 a.C. e la possibilità di diventare soldato di professione, gli ex piccoli possidenti potevano trovare impiego, se avevano fortuna, come braccianti salariati, altrimenti erano costretti a ingrossare le file del proletariato urbano.
Con la scomparsa nella tarda età repubblicana della classe dei piccoli proprietari terrieri (i contadini-soldati che avevano contribuito all'espansione di Roma fino al II secolo a.C.), costretti ad abbandonare i propri poderi a causa da un lato delle esigenze del servizio militare prolungato, dall'altro dell'impossibilità di competere con i latifondi dei ricchi proprietari terrieri che potevano sfruttare la manodopera servile a costo zero, la produzione agricola nel corso dell'età imperiale si concentrò sempre di più nei latifondi (presenti soprattutto nell'Italia meridionale) e nelle villae rusticae (presenti in particolare nell'Italia centrale), in cui il lavoro degli schiavi[13] era organizzato in modo altamente efficace proprio per realizzare prodotti in eccesso da vendere poi nei mercati urbani.
Il futuro decadimento dell'economia imperiale fu conseguenza anche della graduale decadenza dell'agricoltura, che pian piano perse la capacità di rifornire i mercati cittadini.[14] Le cure dello Stato, infatti, andavano più che alle campagne[15] alle città, dove risiedevano anche i proprietari terrieri, che usavano le ville di campagna solo per le vacanze. Del resto, poiché l'agricoltura consentiva minori guadagni del commercio e del prestito ad usura, i grandi latifondisti erano poco invogliati ad investire denaro per migliorare la produttività delle proprie terre[16]
La crisi produttiva, i cui sintomi si erano già evidenziati durante l'Alto Impero, si manifestò in tutta la sua virulenza dal III secolo d.C. in poi con l'accentuarsi dell'instabilità politica. Le guerre civili e le scorrerie barbariche finirono per devastare anche le regioni più fertili e le campagne cominciarono a spopolarsi (fenomeno degli agri deserti),[17] anche perché i piccoli proprietari terrieri, che già non se la passavano bene, dovevano affrontare da una parte i costi dovuti al mantenimento di interi eserciti che transitavano sui loro territori, dall'altra un peso fiscale diventato sempre più intollerabile (basti pensare all'introduzione da parte di Diocleziano della iugatio-capitatio[18]).
L'introduzione del colonato (i latifondi furono suddivisi in piccoli lotti, affidati a coltivatori o coloni provenienti dalla categoria degli schiavi o dei braccianti salariati, che si impegnavano a cedere una quota del prodotto al padrone e a non abbandonare il fondo) permise di recuperare alla produzione terreni prima trascurati: lo schiavo era incentivato ad accettare questa condizione giuridica perché aveva qualcosa in proprio per nutrire sé e la famiglia (evitando anche il rischio dello smembramento del nucleo familiare per vendite separate), il lavoratore libero invece ebbe di che vivere, anche se dovette rinunciare a gran parte della propria autonomia perché obbligato a prestare i propri servizi secondo le esigenze del latifondista che gli aveva affidato in affitto la propria terra. Tuttavia, nemmeno il colonato risolse la crisi dell'agricoltura.[19] Molta gente, infatti, disperata ed esasperata dalle guerre e dagli eccessi della tassazione, si diede al brigantaggio, taglieggiando viandanti e possidenti ed intercettando i rifornimenti, con grave aumento del danno per l'economia.
Prodotti, produttività e metodi di coltivazione
Dopo il periodo delle grandi guerre di conquista e la riforma mariana dell'esercito romano, con l'estendersi del latifondo si passò dalla policoltura a una monocoltura estensiva e speculativa, cioè alla coltivazione su larga scala di un unico prodotto da vendere con profitto sul mercato. Alla coltura del grano si sostituì la coltivazione dell'olivo e della vite e l'allevamento di grandi mandrie di bestiame per soddisfare una crescente richiesta di latticini, carne, lana e pellame. I grandi latifondisti operarono tali scelte perché più redditizie: non richiedevano particolare specializzazione nella manodopera, si prestavano all'uso su larga scala degli schiavi e fornivano prodotti di facile smercio.[20]
Alla crisi in età repubblicana della piccola e media proprietà agricola schiacciata dai debiti e dalla concorrenza, si aggiunse in età imperiale anche il declino produttivo del latifondo. Molte terre furono abbandonate anche per i crescenti costi degli schiavi, ormai rari dopo la conclusione dell'espansionismo e delle grandi guerre di conquista.[21]
La crisi dello schiavismo (premi di produzione e trattamento più umano non incentivarono la produttività da parte degli schiavi[22]) aveva reso più competitiva la manodopera libera, ma le condizioni offerte dai padroni erano pur sempre assai dure, con il risultato che molti contadini liberi preferivano una vita parassitaria ed incerta ai margini delle città al lavoro nei campi sicuro, ma faticoso e mal remunerato.
Miniere e metallurgia
L'invenzione e l'applicazione diffusa di una tecnica di scavo minerario idraulico, secondo la quale un torrente veniva deviato per consentire alla corrente dell'acqua di rivelare/scoprire una vena mineraria. E così grazie alle tecnologia degli ingegneri romani di saper pianificare ed eseguire operazioni minerarie su larga scala, furono estratte grandi quantità di metalli preziosi su scala quasi industriale.[23]
I Romani, soprattutto durante il periodo delle grandi conquiste (II secolo a.C.-I secolo d.C.), raccoglievano un grande volume di acqua in un serbatoio immediatamente sopra l'area interessata. L'acqua veniva, quindi, rilasciata con grande rapidità. L'onda che colpiva l'area, puliva il terreno fino alla "nuda" roccia. Le "vene" d'oro dello strato roccioso del sottosuolo erano poi lavorate usando un certo numero di tecniche, e ancora l'acqua era utilizzata per ripulire il tutto dai detriti.
Un esempio di questa tecnicha possiamo osservarla in Hispania a Las Medulas e nell'area circostante. Qui lo scenario mostra un'azione simile ad calanco su vasta scala, generato da un dilavamento delle acque su rocce ricche di giacimenti d'oro. Las Medulas, ora patrimonio dell'Umanità (UNESCO), mostra i resti di almeno sette grandi acquedotti lunghi fino a 30 miglia, utilizzati per convogliare grandi quantità di acqua nel sito. Ecco come ci descrive il tutto Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, quando lo stesso fu procuratore della Hispania Tarraconensis:
Plinio affermò anche che 20.000 libre d'oro venivano estratte ogni anno.[24] 60.000 lavoratori liberi vennero impiegati in scavi che produssero 5 milioni di libre nel corso dei 250 anni di attività della miniera (corrispondenti a 1.635.000 kg d'oro). La stessa tecnica fu utilizzata anche ad esempio a Dolaucothi nel Galles del Sud, l'unica miniera d'oro romana conosciuta in Gran Bretagna.
Produzione mondiale | Commento | |
---|---|---|
Ferro | 82,500 t[25] | Basata su una "stima conservativa" di produzione di ferro a 1.5 kg pro capite, assumendo una popolazione complessiva di 55 milioni[26] |
Rame | 15,000 t[27] | La più grande produzione pre-industriale[28] |
Piombo | 80,000 t[29] | La più grande produzione pre-industriale[30] |
Argento | 200 t[31] | Al suo culmine attorno alla metà del II secolo, le scorte dei Romani sono state stimate in 10,000 t, da cinque a dieci volte più grandi della produzione combinata di argento del Medioevo europeo e del Califfato Abbasside attorno all'800 d.C..[32] |
Oro | 9 t[33] | Produzione in Asturia, Callaecia e Lusitania (tutti nella penisola iberica) |
Il combustibile di gran lunga più comune per la fusione e le operazioni di forgiatura, nonché ai fini del riscaldamento, era di legno, ma soprattutto il carbone, che risulta due volte più efficiente.[34] In aggiunta, il carbone veniva estratto in alcune regioni in misura molto elevata: non a caso quasi tutti i giacimenti della Britannia romana cominciarono ad essere sfruttati ampiamente din dalla fine del Ii secolo, sviluppando di conseguenza un crescente commercio dello stesso attraverso il canale della Manica, fino alla vicina Gallia. In Renania erano invece presenti giacimenti di carbone bituminoso, utilizzato soprattutto per la fusione dei minerali ferrosi.[35]
La produzione mondiale di piombo, misurato attraverso il carotaggio nel di ghiaccio della Groenlandia, ebbe un picco nel I secolo d.C, dopo un forte calo come mostra sotto questo grafico:[36]
La produzione mondiale potè sorpassare i livelli produttivi della Civiltà romana solo alla metà del XVIII secolo, all'inizio della rivoluzione industriale.
Produzione artigianale
La maggior parte della popolazione del mondo romano viveva in condizioni di indigenza, con una parte insignificante della popolazione impegnata nel commercio, essendo molto più povera della classe dominante dei proprietari terrieri. La produzione industriale risultò, inoltre, minima, poiché pochi potevano permettersi di mettere sul mercato i loro prodotti. Il progresso tecnologico risultò, pertanto, gravemente ostacolato da questo fatto. L'urbanizzazione nella parte occidentale dell'impero risultò anche questa molto ridotta a causa della povertà della regione. I centri principali sorsero attorno ai centri amministrativi e militari (es. fortezze legionarie).
Vi è da aggiungere che al posto di utilizzare una miglior teconologia, si preferiva utilizzare come mezzo di produzione primaria la forza lavoro servile a basso costo.[37]
Un esempio di produzione pre-industriale fu, invece, quella della terra sigillata, vista l'ampia diffusione di questa ceramica e la sua produzione per l'esportazione organizzata da veri e propri imprenditori, con la possibilità di conoscerne i nomi e la posizione sociale per mezzo dei bolli impressi sui vasi. Ciò ha contribuito ad ampliare le nostre conoscenze sull'intera economia del mondo antico.
Commercio
Secondo le testimonianze archeologiche ci fu un forte aumento del volume degli scambi commerciali a lunga distanza in epoca ellenistica e al principio dell'Imperio romano, seguita poi da una forte diminuzione. Ciò è evidenziato nei dati archeologici relativi al numero di relitti trovati nel mare Mediterraneo.[38]
Servizi vari
Banche
Spettacoli
La classe dirigente romana considerava infatti suo compito primario quello di distribuire alimenti una volta al mese al popolo (congiaria) e di distrarlo e regolare il suo tempo libero con gli spettacoli gratuiti offerti (panem et circenses) nelle festività religiose o in ricorrenze laiche.
Prostituzione
Tabernae
Le tabernae rivoluzionarono l'economia di Roma perché rappresentavano le prime rivendite al dettaglio all'interno delle città, che significava la prima voce di crescita ed espansione dell'economia. Nelle tabernae veniva venduta una gran varietà di prodotti agricoli o artigianali come frumento, pane, vino, gioielli ed altro. È verosimile pensare che la taberna era anche il luogo dove venivano liberamente distribuiti al pubblico vari tipi di cereali. Inoltre venivano utilizzate dai liberti per risalire la scala sociale attraverso l'esercizio di un'attività lucrativa. Sebbene quest'attività non era molto considerata nella cultura romana, il liberto la utilizzava per raggiungere una stabilità finanziaria e sperare di acquisire forme di influenza all'interno dei governi locali.
Mercati cittadini
Il Macellum era un particolare mercato delle città romane, in cui venivano convogliate le merci destinate alla vendita: si trattava di un mercato specializzato nella vendita al dettaglio di carne e di pesce, di cui esempi sono quelli di Pozzuoli e di Pompei. Questo spesso ospitava al centro della sua corte interna un bacino o un vivaio per i pesci. Al macellum, inoltre, era possibile trovare anche cibi preconfezionati e verdure "esotiche", o comunque di non facile reperibilità.
Spesa pubblica, monetazione e tassazione
Uscite statali
Gran parte dell'economia dell'età imperiale era caratterizzata dall'afflusso di derrate alimentari e merci provenienti dalle varie province verso l'esercito permanente e la capitale Roma, che rimase sempre essenzialmente la città dei consumi (eccettuata qualche fabbrica di manufatti).
Si potrebbe sostenere che tutta l’organizzazione politica dell’Impero era modulata sulla duplice esigenza di rifornire di frumento la capitale e le legioni di stanza ai confini. Anche l'esercito permanente, infatti, rappresentava un incentivo importante per la produzione e la circolazione di beni: oltre ad assorbire gran parte del bilancio dell'Impero (come vedremo in seguito), con le sue esigenze e la capacità di spesa dei soldati attirava grandi quantità di derrate e manufatti dalle coste del Mediterraneo, dove si trovavano i maggiori centri di produzione, verso le frontiere.
Esercito romano
Il costo dell'esercito[39] fu aggravato inoltre dall'uso invalso da Claudio in poi di gratificare i soldati con un donativo per assicurarsene la fedeltà al momento dell'ascesa al trono e in situazioni delicate. Se aggiungiamo alle spese necessarie e inevitabili gli sprechi nella gestione della corte, si capisce come lo stato delle finanze fosse in genere alquanto precario. La decisione di Augusto di consolidare l'Impero, assicurandogli confini naturalmente sicuri e compattezza interna, invece che di estendere le frontiere, dipese anche dal fatto che l'imperatore si era reso conto che le risorse erano limitate e non in grado di sostenere eccessivi sforzi espansionistici.[40].
L'impatto dei costi di un esercito tanto vasto come quello romano (da Augusto ai Severi) sull'economia imperiale può misurarsi, seppure in modo approssimativo, come segue:
COSTO DELL'ESERCITO COME % SUL PIL DELL'IMPERO ROMANO | |||||
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Data | Impero popolazione | Impero PIL (milioni di denarii)(a) |
Effettivi esercito | Costo dell'esercito (milioni di denarii)(a) |
Costo dell'esercito (% del PIL) |
' | |||||
Notes: (a) Valore costante al 14 d.C. espresso in denarii, slegato da aumenti della paga militare per compensare la svalutazione monetaria |
Il costo dell'intero esercito crebbe moderatamente come % del PIL tra il 14 ed il 150 d.C., malgrado un incremento degli effettivi di circa il 50%: da 255.000 armati circa[46] del 23 a 383.000[47] sotto Adriano, fino ad arrivare alla morte di Settimio Severo nel 211 a 442.000 soldati circa[48], questo perché la popolazione dell'impero, e quindi il PIL totale, aumentò sensibilmente (+35% ca.). Successivamente la percentuale del PIL dovuta alle spese per l'esercito crebbe di quasi la metà, sebbene l'aumento degli effettivi dell'esercito fu solo del 15% ca. (dal 150 al 215). Ciò fu dovuto principalmente alla peste antonina, che gli storici epidemiologici hanno stimato aver ridotto la popolazione dell'impero tra il 15% ed il 30%. Tuttavia, anche nel 215 i Romani spendevano una percentuale sul PIL simile a quella che oggi spende la difesa dell'unica superpotenza globale, gli Stati Uniti d'America, (pari al 3,5% del PIL nel 2003). Ma l'effettivo onere dei contribuenti, in un'economica pressoché agricola con una produzione in eccedenza veramente limitata (l'80% della popolazione imperiale dipendeva da un'agricoltura di sussistenza ed un ulteriore 10% dal reddito di sussistenza), era certamente molto più gravoso. Infatti, uno studio sulle imposte imperiali in Egitto, la provincia di gran lunga meglio documentata, ha stabilito che il gravame era piuttosto pesante.[49]
Le spese militari costituivano quindi il 75% ca. del bilancio totale statale, in quanto poca era la spesa "sociale", mentre tutto il resto era utilizzato in progetti di prestigiose costruzioni a Roma e nelle province; a ciò si aggiungeva un sussidio in grano per coloro che risultavano disoccupati, oltre ad aiuti al proletariato di Roma (congiaria) e sussidi alle famiglie italiche (simile ai moderni assegni familiari) per incoraggiarle a generare più figli. Augusto istituì questa politica, distribuendo 250 denari per ogni bambino nato.[50] Altri sussidi ulteriori furono poi introdotti per le famiglie italiche (Institutio Alimentaria) dall'imperatore Traiano.[51]
Città di Roma: panem et circenses
Traiano: Æ Sesterzio[52] | |
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IMP CAES NERVAE TRAIANO AUG GER DAC P M TR P COS V P P, testa laureata a destra con drappeggo su spalla; | S P Q R OPTIMO PRINCIPI, l'Abundantia (o l'Annona) in piedi a fianco di due bambini che presenta a Traiano, seduto su una sedia curule (Institutio Alimentaria); ai lati la scritta S C; ALIM ITAL in esergo. |
30 mm, 26.86 gr, 6 h, coniato nel 103 nella zecca di Roma. |
Nell’Urbe all'inizio dell'epoca imperiale abitavano, infatti, centinaia di migliaia di ex contadini e piccoli proprietari terrieri che avevano finito per abbandonare le proprie terre a causa del prolungato servizio nelle legioni, che aveva impedito loro di continuare a lavorare con profitto i piccoli appezzamenti di terreno che possedevano. Tale moltitudine di persone era diventata, ormai, una massa di manovra dei capi politici più ambiziosi, che cercavano di ottenerne il favore o di mitigarne il risentimento attraverso le pubbliche elargizioni di grano (panem). Al tempo del proprio splendore Roma, popolata da circa un milione di persone (di cui un terzo erano schiavi[53]), giunse ad importare fino a 3,5 milioni di quintali di frumento ogni anno[54], per l’epoca quantità astronomica: almeno tra le 200 e le 300 000 persone vivevano grazie alle distribuzioni gratuite di frumento (ed in un secondo tempo, di pane, olio di oliva, vino e carne di maiale), quindi, calcolando le famiglie degli aventi diritto, si può sostenere che tra un terzo e la metà della popolazione dell'Urbe vivesse a carico dello Stato (la chiamavano la "plebe frumentaria").
La gestione del complesso dei servizi finalizzati al vettovagliamento di Roma era affidata a una magistratura apposita, la prefettura dell'annona, riservata a una persona di rango equestre, che era una delle cariche più importanti dell'amministrazione imperiale. L'immensa quantità di frumento importato da Roma proveniva da una pluralità di province: Sicilia, Sardegna, province asiatiche e africane, ma il perno dell'approvvigionamento era costituito dall'Egitto, che soddisfaceva oltre metà del fabbisogno. L'olio veniva, invece, fatto affluire dalla Betica (l'attuale Andalusia), mentre il vino dalla Gallia. Passati i secoli di splendore, Roma diventerà un peso sempre più opprimente per l'economia dell'Impero.
Opere pubbliche a Roma e nelle province
Entrate statali
Il gigantesco apparato imperiale comportava costi crescenti. Augusto aveva diviso l'Impero in province senatorie i cui tributi finivano nell'erario (l'antica cassa dello Stato), a sostenere le spese correnti di quell'istituzione, ed in province imperiali, le cui entrare alimentavano il fisco, la cassa privata dell'imperatore, cui toccavano gli oneri più gravosi, rappresentati dall'esercito, dalla burocrazia e dalle sovvenzioni alla plebe urbana (distribuzioni di frumento o denaro, congiaria) per evitare rivolte. Sotto i successori di Augusto si ingenerò confusione tra erario e fisco, a tutto vantaggio di quest'ultimo. Inoltre, per l'esercito era prevista una cassa apposita, l'erario militare (aerarium militare), in cui si accantonavano i fondi per il pagamento dell'indennità ai soldati congedati.[55]
Mezzi finanziari: monetazione e svalutazione
Nella prima parte della storia di Roma, dalla sua fondazione (21 aprile 753 a.C.) a tutto il periodo monarchico (753-509 a.C.) e parte del periodo repubblicano, fino al III secolo a.C., il commercio non si basava sull'uso della moneta, ma su una forma di baratto. Quando dal baratto si passò a un primo sistema monetario, il valore dell'unità monetaria, consistente in scorie di bronzo o rame informi (aes rude), fu stabilito pari a quello di una pecora o di un bue. In seguito l' aes rude fu sostituito dalla prima moneta di bronzo, l'aes grave o asse librale (perché inizialmente era del peso di una libbra circa). Frattanto nel mondo greco, per contro, già alla metà del IV secolo a.C. la moneta aveva raggiunto una diffusione e livelli artistici elevatissimi. La parola latina aes (aeris al genitivo) significa bronzo; da aes derivano parole come erario.
L'utilizzo dell'aes rude si scontrava con la scomodità di dover pesare il quantitativo di bronzo ad ogni scambio. Su iniziativa di singoli mercanti, quindi, si iniziò ad utilizzare getti in bronzo di forma rotonda o rettangolare su di cui era riportato il valore, detti aes signatum. La prima moneta standardizzata da parte dello stato fu l'Aes grave, introdotta con l'avvio dei commerci su mare intorno al 335 a.C.
Con l'aprirsi di Roma al commercio estero (in particolare con la Magna Grecia), nel III secolo a.C. comparvero le prime monete d'argento, coniate inizialmente dall'alleata Cuma (che disponeva di una zecca), fino a quando Roma stessa cominciò a battere moneta, producendo monete d'argento come il (Denario e il Vittoriato) e d'oro come l'(Aureo), che andarono ad affiancarsi a quelle di bronzo (Asse). Il (Sesterzio) durante la Repubblica era una piccola moneta d'argento del valore di 1/4 del denario (dopo la Riforma monetaria di Augusto designò invece una moneta di rame, o meglio in ottone (oricalco)). Le monete più preziose venivano utilizzate per le transazioni internazionali, quelle di minor valore, invece, per l'economia domestica. La coerenza del sistema repubblicano era assicurata da cambi fissi: un Aureo = 25 Denari = 100 Sesterzi = 400 Assi. Lo Stato per tutta la durata della Repubblica agì con prudenza e saggezza nella regolazione delle coniazioni (quantità di monete emesse, loro peso e titolo).
Dopo il periodo delle riforme di esercito e monetazione di Augusto, i suoi successori cercarono di non discostarsi molto dalla linea tracciata dal primo imperatore, a parte Traiano che portò l'Impero alla sua massima estensione anche per assicurarsi le miniere d'oro della Dacia ed il controllo delle vie carovaniere dell'Oriente: il beneficio fu comunque solo momentaneo. Alla lunga, la conclusione della politica espansionistica che fece mancare le usuali risorse del bottino di guerra, la diminuzione della moneta circolante (la produzione delle miniere era inferiore alla richiesta di metalli preziosi), la scarsità e quindi l'aumento del prezzo di mercato degli schiavi, resero le spese sempre più insostenibili, mentre la pressione fiscale si rivelava inefficace.
Lo Stato conosceva un solo mezzo di intervento che non aumentasse ulteriormente la pressione fiscale: la svalutazione della moneta, tramite la riduzione di peso delle monete (il primo ad operare in tal senso fu Nerone, al fine di poter meglio sostenere la sua personale politica di prestigio e di grandi spese). La conseguenza, evidente in tutta la sua drammaticità nel corso del Tardo Impero, sarà un'inflazione galoppante.
E così a partire dal III secolo, gli imperatori successivi, il cui potere dipendeva interamente dall'esercito, erano costretti a continue nuove emissioni per pagare i soldati ed effettuare i tradizionali donativi: il metallo effettivamente presente nelle monete si ridusse progressivamente, pur conservando queste lo stesso valore teorico. Ciò ebbe l'effetto prevedibile di causare un'inflazione galoppante e quando Diocleziano arrivò al potere il sistema monetario era quasi al collasso: persino lo stato pretendeva il pagamento delle tasse in natura invece che in moneta e il denario, la tradizionale moneta d'argento, usata per più di 300 anni, era poco apprezzata. Sappiamo infatti che, sotto Cesare ed Augusto, il denario aveva un peso teorico di circa 1/84 di libbra, ridotto da Nerone a 1/96 (pari ad una riduzione del peso della lega del 12,5%). Contemporaneamente, oltre alla riduzione del suo peso, vi era anche una riduzione del tuo titolo (% di argento presente nella lega), che passò dal 97-98% dell'epoca augustea al 93,5% (per una riduzione complessiva del solo argento del 16,5% ca).[56] Il denario, infatti, continuò il suo declino durante tutto l'impero di Commodo e di Settimio Severo, tanto da vedere ridotto il proprio titolo a meno del 50% di argento.[57]
Peso teorico dei Denari: da Cesare alla riforma di Caracalla (215) | ||||||||
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Denario | Cesare | Augusto (post 2 a.C.) |
Nerone (post 64) |
Traiano | Marco Aurelio (post 170) |
Commodo | Settimio Severo (post 197[57]) | Caracalla (post 215) |
Peso teorico (della lega): in libbre (=327,168 grammi) | ||||||||
Peso teorico (della lega): in grammi | ||||||||
% del titolo di solo argento: | ||||||||
Peso teorico (argento): in grammi |
Identica sorte toccò anche alla moneta più pregiata in circolazione, l'aureo:
Peso teorico degli Aurei: da Cesare alla riforma di Diocleziano (294-301) | |||||||||||||
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Aureo | Cesare | Augusto (post 2 a.C.) |
Nerone (post 64) |
Domiziano (85[61]) |
Traiano[61] | Settimio Severo[61] | Caracalla (post 215) |
Aureliano (post 274[64]) |
Caro | Diocleziano
| |||
Peso teorico: in libbre (=327,168 grammi) |
|||||||||||||
Peso teorico: in grammi |
Bilancia commerciale (esportazioni - importazioni)
Il costante e crescente acquisto di enormi quantità di prodotti di lusso provenienti dalle regioni asiatiche, almeno fino al II secolo d.C. da parte del Mondo romano, era stato regolato con monete, soprattutto d'argento (monete romane sono state trovate anche in regioni molto lontane), tanto che la continua fuoriuscita di metallo prezioso (non bilanciata dalla produzione delle miniere, visto che i giacimenti erano ormai in esaurimento dopo secoli di sfruttamento) finì per determinare nel Tardo Impero una rarefazione dell'oro e dell'argento all'interno dei confini imperiali, accelerando così la perversa spirale di diminuzione della quantità effettiva di metallo prezioso nelle monete coniate dai vari imperatori.[65]
Inoltre, l'instabilità politica ebbe pesantissimi effetti anche sui traffici commerciali. Ecco come lo storico Henry Moss descrive la situazione dei trasporti e della rete commerciale dell'Impero prima della crisi:
Con la crisi del III secolo questa ampia rete commerciale fu rotta. L'agitazione civile e i conflitti la resero non più sufficientemente sicura per permettere ai commercianti di viaggiare come prima e la crisi monetaria rese gli scambi molto difficili. Ciò produsse profondi cambiamenti che proseguirono fino all'età medioevale. I grandi latifondisti, non più in grado di esportare con successo i loro raccolti sulle lunghe distanze, cominciarono a produrre cibi per la sussistenza e per il baratto locale. Piuttosto che importare i prodotti, cominciarono a produrre molti beni localmente, spesso sulle loro stesse proprietà di campagna, dove tendevano a rifugiarsi per sfuggire alle imposizioni dello Stato a carico dei cittadini. Nacque in tal modo una "economia domestica" autosufficiente che sarebbe diventata ordinaria nei secoli successivi, raggiungendo la sua forma finale in età medioevale.
Prodotto interno lordo
Gli scarsi dati storici a nostra disposizione sull'economia dell'Antichità, mettono in evidenza che qualsiasi stima venga fatta, non può essere definitiva e tanto meno certa.
Unit | Raymond W. Goldsmith 1984[66] |
Keith Hopkins 1995/6[67] |
Peter Temin 2006[68] |
Angus Maddison 2007[69] |
Peter Fibiger Bang 2008[70] |
Walter Scheidel/Friesen 2011[71] |
Elio Lo Cascio/Paolo Malanima 2011[72] | |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Reddito pro-capite | Sesterzi | Sesterzio 380 | Ses.225 | Ses.166 | Ses.380 | Ses.229 | Ses.260 | Ses.380 |
Grano equivalente | 843 kg | 491 kg | 614 kg | 843 kg | 500 kg | 680 kg | 855 kg | |
1990 dollari | – | – | – | $570 | – | $620 | $940 | |
Popolazione (Appross. anno) |
55mill. (14 d.C.) |
60 mill. (14 d.C.) |
55 mill. (100) |
44 mill. (14) |
60 mill. (150) |
70 mill. (150) |
– (14) | |
Total PIL | Sesterzi | Ses. 20.9mild. | Ses. 13.5 mild. | Ses. 9.2 mild. | Ses. 16.7 mild. | Ses. 13.7 mild. | ~Ses. 20 mild. | – |
Grano equivalente | 46.4 Mt | 29.5 Mt | 33.8 Mt | 37.1 Mt | 30 Mt | 50 Mt | – | |
1990 Dollari | – | – | – | $25.1 mild. | – | $43.4 mild. | – |
1) Frazione decimale arrotondato ad un decimale. Numeri in corsivo non direttamente forniti dagli autori, ma che si ottengono moltiplicando il valore relativo del PIL pro-capite in base alle dimensioni della popolazione stimata.
Italia è considerata la regione più ricca, dovuto alle tasse trasferite dalle province romane ed all'elevata concentrazione di reddito in quest'area; il suo PIL pro capita è stimato essere stato attorno al 40%[72] fino al 66%[73] più alto di tutto il resto dell'Impero.
Note
- ^ R. Duncan Jones, The Economy of the Roman Empire: quantitative studies, Cambridge 1982.
- ^ «Sistema agrario-mercantile a base schiavistica», con questa formula A. Schiavone definisce il sistema economico-sociale della prima età imperiale di Roma antica (Momigliano e Schiavone, Storia di Roma, Einaudi, 1988).
- ^ Secondo A. Fusari il sistema economico dell'età imperiale era destinato alla stagnazione in quanto i due elementi che lo componevano, l'agricoltura ed il commercio, e la sua base energetica principale, gli schiavi, non erano integrati in un mercato unico come nell'economia capitalistica, e la sua alimentazione non derivava se non in minima parte dal surplus reinvestito nel mercato (accumulazione endogena promossa da fattori agenti all'interno del sistema), bensì dall'afflusso di risorse esterne (accumulazione esogena), frutto della rapina, delle guerre e dello sfruttamento delle province. Inoltre l'ordine equestre, che avrebbe potuto contrapporsi all'aristocrazia terriera e guerriera come classe sociale che basasse il proprio potere, la propria ricchezza e la propria identità di classe proprio sullo sviluppo di un sistema imprenditoriale mercantilistico ed industriale, non aspirò mai a sostituirsi all'aristocrazia nell'acquisizione del potere (come avrebbe fatto un'autentica classe borghese), bensì a farne parte, reinvestendo il "surplus commerciale" nell'acquisizione di una rendita fondiaria (A. Fusari, L'avventura umana, Seam, 2000).
- ^ Scheidel 2006, p. 2
- ^ Scheidel 2006, p. 9
- ^ Goldsmith 1984, p. 263
- ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 93.
- ^ Southern, p. 212-213.
- ^ Southern, p. 226.
- ^ Agazia Scolastico, Sul regno di Giustiniano, IV, 24.3; Grant, p. 231.; Res Gestae Divi Saporis, riga 25-34 da The American journal of Semitic languages and literatures, University of Chicago, 1940, vol. 57-58, p. 379.
- ^ John Haywood, Historical atlas of the classical world, 500 BC-AD 600, Barnes & Noble Books, 2000, p. 27, 076071973X.
- ^ Fino alla riforma mariana dell'esercito romano del 107 a.C., al servizio militare erano obbligati solo i possidenti.
- ^ Solo in Italia, all'età di Augusto, ce n'erano 3 milioni su una popolazione di 10
- ^ Le cause del dissolversi del tessuto agrario furono identificate, con straordinaria lungimiranza, dal maggiore agronomo latino del I secolo d.C.: Lucio Giunio Columella (Antonio Saltini, Storia delle scienze agrarie, vol. I Dalle origini al Rinascimento, Bologna 1984, pp. 47-59).
- ^ Nonostante nelle campagne vivesse l'80% della popolazione totale dell'Impero nel I secolo d.C. (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 28).
- ^ Il merito storico dell'aristocrazia romana non si evidenziò tanto nello sviluppo di un'economia dinamica, imprenditoriale, quanto nel modo in cui seppe amministrare i paesi ed i popoli sottomessi con un minimo uso della forza (fanno eccezione gli ebrei, culturalmente refrattari al dominio romano)(Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 69).
- ^ Gli imperatori furono costretti, specialmente nelle province danubiane, a chiamare popolazioni barbariche per ripopolare le campagne
- ^ Ogni proprietario fu tassato sulla base di ciascuna persona che impiegava nel lavoro dei campi (caput) e per ogni pezzo di terra (iugum) sufficiente a produrre quanto necessario in un anno al mantenimento di una persona.
- ^ Del resto, legare il colono alla terra mediante la coercizione non era certo un modo per aumentare la produttività o per migliorare la sorte dei lavoratori(Ruffolo, p. 102).
- ^ La conseguenza fu lo spopolamento delle campagne ed una crescente dipendenza alimentare dell'Italia dalle nuove province, infatti non occorreva più produrre grano nella penisola, perché esso arrivava in quantità dal tributo in natura imposto ai provinciali: granai della penisola divennero, in particolare, la Sicilia e l'Africa (Luigi Bessone, Roma repubblicana, in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) Civiltà Antiche, Sei, 1987, p. 114).
- ^ Traiano e Adriano cercarono di proteggere i proprietari rurali, abbonando più volte i debiti contratti con il fisco, concedendo prestiti a basso interesse, favorendo la sostituzione degli schiavi con coloni affittuari, ma i risultati furono piuttosto modesti (Luigi Bessone, Roma imperiale, in (a cura di G. Solfaroli Camillocci), Civiltà Antiche, Sei, 1987).
- ^ Secondo G. Ruffolo la crisi del modo di produzione schiavista era dovuta anche all'impossibilità di integrare gli schiavi come una forza lavoro attiva nella produzione tipica del capitalismo moderno. Il capitalismo ci riuscì trasformando in merce non i lavoratori schiavi, ma la loro forza lavoro, come aveva intuito Karl Marx. Trasformando soltanto la forza lavoro e non il lavoratore in merce si ottenevano tre grandi risultati: il capitalista non doveva più pagare il tempo improduttivo dello schiavo, né temere le sue rivolte; dopo una fase brutale della rivoluzione industriale che schiacciava i proletari su un salario di semplice sopravvivenza, questi, organizzandosi collettivamente, ottenevano aumenti salariali che spingevano i capitalisti ad aumentare la produttività attraverso le macchine; superata la prima fase dell'industrializzazione, i proletari diventavano consumatori e anche per tale via alimentavano il sistema. Gli schiavi delle ville e dei latifondi romani costituivano invece una merce passiva, che si consumava in un processo produttivo ripetitivo e privo di stimoli evolutivi (Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 70).
- ^ Wilson 2002, pp. 17–21, 25, 32
- ^ Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIII, 78.
- ^ Craddock 2008, p. 108; Sim, Ridge 2002, p. 23; Healy 1978, p. 196
- ^ Sim, Ridge 2002, p. 23; Healy 1978, p. 196
- ^ Produzione mondiale, la maggior parte della quale è attribuita alle miniere romane e attività di fusione (soprattutto in Spagna, Cipro ed Europa centrale): Hong, Candelone, Patterson, Boutron 1996, p. 247; Callataÿ 2005, pp. 366–369; cfr. pure Wilson 2002, pp. 25–29
- ^ Hong, Candelone, Patterson, Boutron 1996, p. 247, fig. 1 & 2; 248, tavola 1; Callataÿ 2005, pp. 366–369
- ^ Produzione mondiale, la maggior parte della quale è attribuita alle miniere romane e attività di fusione (soprattutto nell'Europa centrale, Gran Bretagna, Balcani, Grecia, Asia Minore e sopratutto Spagna con un 40% di quota dell'intera produzione mondiale): Hong, Candelone, Patterson, Boutron 1994, p. 1841–1843; Callataÿ 2005, pp. 361–365; Settle, Patterson 1980, pp. 1170 seg.; cfr. pure Wilson 2002, pp. 25–29
- ^ Hong, Candelone, Patterson, Boutron 1994, p. 1841–1843; Settle, Patterson 1980, pp. 1170 seg.; Callataÿ 2005, pp. 361–365 segue gli autori di cui sopra, ma avverte che i livelli produttivi greco-romani potrebbero essere stati già superat entro la fine del Medioevo (p. 365).
- ^ Patterson 1972, p. 228, table 6; Callataÿ 2005, pp. 365f.; cf. also Wilson 2002, pp. 25–29
- ^ Patterson 1972, p. 216, table 2; Callataÿ 2005, pp. 365 seg.
- ^ Plinio il Vecchio: Naturalis Historia, 33.21.78; Wilson 2002, p. 27
- ^ Cech 2010, p. 20
- ^ Smith 1997, pp. 322–324
- ^ Hong, Sungmin; Candelone, Jean-Pierre; Clair Cameron Patterson; Boutron, Claude F. (1994): "Greenland Ice Evidence of Hemispheric Lead Pollution Two Millennia Ago by Greek and Roman Civilizations", Science, Vol. 265, No. 5180, pp. 1841–1843
- ^ John Haywood, Historical atlas of the classical world, 500 BC-AD 600, 2000, p. 27, 076071973X.
- ^ A.J.Parker (1992), Ancient Shipwrecks of the Mediterranean and the Roman Provinces, Archaeopress (British Archaeological Reports (BAR) International S.), ISBN 0860547361.
- ^ In età augustea il costo delle legioni era intorno alla metà della spesa pubblica totale, ma rappresentava solo il 2,5 per cento del Pil. In compenso erano enormi le ricchezze che grazie alle sue conquiste affluivano allo Stato e soprattutto ai privati: oro, tesori, terre, opere d'arte. Per molti anni il tributum del 5 per cento del reddito imponibile istituito da Augusto per finanziare la difesa dell'Impero poté essere abbuonato ai cittadini romani (G. Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 51).
- ^ Luigi Bessone, Roma imperiale, in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) Civiltà Antiche, Sei, 1987, p. 235.
- ^ CAH XI, p. 812
- ^ Scheidel & Friesen (2009), p. 7
- ^ Duncan-Jones (1994), p. 36
- ^ CAH XI, p. 814
- ^ Stathakopoulos (2007), 95
- ^ Sottinteso da Tacito, Annales.
- ^ CAH XI 320 estimates 380,000.
- ^ R. MacMullen, How Big was the Roman imperial Army?, in KLIO (1980), p. 454, stimati 438.000.
- ^ Duncan-Jones (1994).
- ^ Svetonio, Augusto, 46.
- ^ Duncan-Jones (1994), p. 35.
- ^ RIC Traianus, II 461; Banti 12.
- ^ Giorgio Ruffolo, Quando l'Italia era una superpotenza, Einaudi, 2004, p. 35.
- ^ Si calcola un consumo di cereali l'anno pro capite di 200 chili (Geraci-Marcone, Storia romana, Le Monnier, 2004, p. 215).
- ^ Il problema della scarsità di contante fu avvertito già in età augustea: non rari erano i casi di veterani trattenuti in servizio oltre la scadenza della ferma, perché mancavano i soldi per le liquidazioni (Luigi Bessone, Roma imperiale, in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) Civiltà Antiche, Sei, 1987, p. 234).
- ^ A.Savio, Monete romane, pp. 171 e 329.
- ^ a b A.Savio, Monete romane, p. 184.
- ^ Gian Guido Belloni, La moneta romana, p.258.
- ^ Gian Guido Belloni, La moneta romana, p.257.
- ^ a b Gian Guido Belloni, La moneta romana, p.261.
- ^ a b c d e f g h i j A.Savio, Monete romane, p. 331.
- ^ a b Tulane University "Roman Currency of the Principate"
- ^ Gian Guido Belloni, La moneta romana, p.260.
- ^ A.Savio, Monete romane, p. 198.
- ^ Una libbra d'oro (circa 322 grammi), equivalente a 1.125 denarii d'argento alla fine del II secolo d.C., ne valeva 50 000 al tempo di Diocleziano (Luigi Bessone, Roma imperiale, in (a cura di G. Solfaroli Camillocci) Civiltà Antiche, Sei, 1987, p. 305).
- ^ Goldsmith 1984, pp. 263–288
- ^ Hopkins 1995/6, pp. 41–75. Sempre Hopkins 1980, pp. 101–125, espone il metodo di calcolo adottato.
- ^ Temin 2006, pp. 31–54
- ^ Maddison 2007, pp. 43–47; 50, tavola 1.10; 54, tavola 1.12
- ^ Bang 2008, pp. 86–91
- ^ Scheidel, Friesen Nov. 2011, pp. 61–91
- ^ a b Lo Cascio, Malanima Dec. 2009, pp. 391–401
- ^ Maddison 2007, pp. 47–51
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- Marco Porcio Catone, De agri cultura.
- Roman Imperial Coinage:
- volume 4a : da Pertinace a Geta et Caracalla (193 – 217), di H. Mattingly, E.A. Sydenham, Londra, 1936;
- volume 4b : da Macrino a Pupieno (217 – 238), di H. Mattingly, E.A. Sydenham, C.H.V. Sutherland, Londra, 1930;
- volume 4c : da Gordiano III a Uranio Antonino (238 – 253), di H. Mattingly, E.A. Sydenham, C.H.V. Sutherland, Londra, 1949;
- volume 5a : da Valeriano a Floriano (253 – 276), di Percy H. Webb, Londra, 1927;
- volume 5b : da Probo a Massimiano (276 – 310), di Percy H. Webb, Londra, 1933.
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