Fortuna caeca est
Fortuna caeca est è una locuzione latina che si traduce con «La fortuna è cieca».
È una espressione tratta da un passo di Cicerone che nel Laelius de amicitia (15,54), scrive precisamente che Non enim solum ipsa Fortuna caeca est, sed eos etiam plerumque efficit caecos quos complexa est (Non solo, infatti, la fortuna è cieca essa stessa, ma per lo più rende ciechi anche coloro che abbraccia).
Il motivo è una ripresa della commedia greca, in particolare del Pluto di Aristofane, dove a essere cieca e a rendere ciechi è la ricchezza. Tuttavia il parallelismo resiste in quanto la dea Fortuna dei Romani ricopre funzioni simili a quelle del dio greco Plutos. La fortuna è cieca anche per altri autori latini quali Marziale, Ovidio, Plinio il Vecchio, e Seneca. Si dissocia dal ritenere cieca la fortuna, Dionisio Catone, secondo cui è l'individuo che deve imparare ad agire con raziocinio e con le dovute cautele, e quindi a essere cieco è più l'uomo che la fortuna.
In epoca moderna, il motivo torna, tra gli altri, in Shakespeare che, nell' Enrico V fa dire a Fluellen: La fortuna è dipinta cieca, con una benda sugli occhi; e in Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, con l'interessante variante: L'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca.[1]
Note
- ^ Dizionario delle sentenze latine e greche, a cura di Renzo Tosi, Rizzoli, Milano, 2000, p. 393.