Fondazione della Scuola Antimalarica, Poligono Militare di Tiro, Nettuno, 1920. [1]

La malaria fu una delle malattie infettive più diffuse in Italia agli inizi del Novecento[2]. Come si legge nel manifesto di fine Ottocento firmato, tra i tanti illustri, da Angelo Celli e Giustino Fortunato, la malaria mantenne incolti due milioni di ettari; colpì dove più dove meno, 63 province, 2823 comuni; avvelenò ogni anno circa due milioni di abitanti e ne uccise quindicimila[3].

Dapprima si pensò che fosse provocata dalla scarsa igiene delle paludi, «acque palustri ferme e stagnanti, necessariamente calde e dense, puzzolenti d'estate»[4], che ricoprivano gran parte del territorio del bacino Mediterraneo, in questo caso dell’Agro Pontino, abitato per lo più da cittadini privi di educazione e di istruzione che conducevano una vita rurale. Per cui si tentò solamente di ripulirle e risanarle, per migliorarne la situazione agricola[5].

Nel decennio a cavallo dell'Ottocento e del Novecento si scoprì invece che la malaria era scatenata dal parassita Plasmodium, che contenuto nelle ghiandole salivari della zanzara Anopheles veniva rilasciato all’interno del sistema circolatorio epatico dell’organismo ospite quando quest’ultima pungeva[6].

«Però dov'è la malaria è terra benedetta da Dio. [...] Allora bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura, perché il Signore ha detto: «Il pane che si mangia bisogna sudarlo». Come il sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di granoturco, e non c'è più bisogno di solfato né di decotto d'eucalipto, lo si carica sulla carretta del fieno [...] con un sacco sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola solitaria.

[...] La malaria non ce l'ha contro di tutti. Alle volte uno vi campa cent'anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né arte né parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti lo conoscevano a quaranta miglia intorno, [...] a fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un tozzo di pane; dormiva nei fossati, sul ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto le tettoie degli stallazzi; e viveva di carità, errando come un cane senza padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande tenuti insieme da una funicella sulle gambe magre e nere. [...] Egli non prendeva più né solfato, né medicine, né pigliava le febbri. Cento volte l'avevano raccolto disteso, quasi fosse morto, attraverso la strada; infine la malaria l'aveva lasciato, perché non sapeva più che farsene di lui. Dopo che gli aveva mangiato il cervello e la polpa delle gambe, e gli era entrata tutta nella pancia gonfia come un otre, l'aveva lasciato contento come una pasqua, a cantare al sole meglio di un grillo.»

Profilassi e Cura

Nel Regolamento del 28 Febbraio 1907 furono concordati gli strumenti legislativi e terapeutici contro l'infezione. La somministrazione del chinino diventò funzione di Stato: “Non beneficienza o carità legale ma doverosa misura di salute pubblica”[7].

La profilassi e la cura si basavano soprattutto sull'utilizzo del chinino e nelle zone malariche anche sulla protezione meccanica che prevedeva l'istallazione di zanzariere nelle case e lo scolo delle acque ristagnanti[2].

Il chinino di Stato era prodotto industrialmente dallo Stato stesso, confezionato in confetti e fiale per iniezioni dalla Farmacia Centrale Militare di Torino. Pur dovendo fare i conti con il disagio economico che ne scaturì, venne preferito il monopolio rispetto alla condivisione con le industrie private per rendere il farmaco accessibile anche ai ceti più bassi, ovvero quelli più colpiti[8]. Effettivamente venne distribuito gratuitamente e senza prescrizione medica a tutti i lavoratori nelle zone paludose ed ai poveri[2]. La Legge del 2 novembre 1901 affermava: “Nelle zone di cui all’art. 1 (malariche).. ai coloni e agli operai impiegati in modo permanente o avventizio, con remunerazione fissa o a cottimo, quando siano colpiti da febbri palustri e dove le Congregazioni di Carità non hanno mezzi per provvedervi, le Amministrazioni comunali forniranno gratuitamente il chinino per tutta la durata della cura, secondo le prescrizioni del medico comunale.[...]”[9]. La legge stabiliva anche che gli operai addetti ai lavori pubblici, se colpiti da febbri, avevano diritto all’assistenza medica e al chinino gratuito a carico dell’Amministrazione che conduceva i lavori o dell’Impresa. Per gli inadempienti si prevedevano ammende da 100 a 1000 lire.

Invece il resto della popolazione doveva comperarlo al prezzo di fabbrica molto basso e accessibile[2]. Ogni scatola da 10 gr. di Idroclorato era venduta al prezzo di 2 lire; il Solfato a 1,60; un singolo tubetto di Idroclorato costava 40 centesimi e uno di Solfato 32[8]. La produzione del farmaco doveva essere costante e programmata sia per la cura che per la profilassi.[2]

Dapprima venne consigliata l'assunzione di 60 centigrammi di chinino al giorno per otto settimane, in seguito le Stazioni Sanitarie consigliarono di diminuire le dosi a 0,6-1 grammi per 1-6 settimane. Tuttavia venne vietata successivamente l'assunzione a non oltre una settimana[10].

Era necessario far comprendere agli abitanti del luogo che dovevano sottoporsi ad una cura ciclica e costante per evitare di arrivare ad una forma cronica della malattia. Per invitarla a sottoporsi alla cura, la Direzione Generale della Sanità presso il Ministero dell’Interno iniziò una politica di propaganda con lo scopo di convincere la popolazione del luogo che la malaria non discriminava ceti sociali ad altri, né fasce di età o professioni. In realtà le febbri perniciose attaccavano ovviamente i lavoratori in cantieri e gli abitanti dei campi, ovvero organismi indeboliti dalla povertà e dalla fame che avevano usanze e costumi radicati da generazioni nelle paludi. In questi casi ad una dose di chinino avrebbe dovuto essere somministrata una maggiore quantità di cibo. Le classi agiate, per igiene e qualità di vita, fornivano sicuramente un bersaglio meno invitante.[2]

Nascita della Scuola

Medici, maestri elementari, parroci e società operaie tentavano di istruire la popolazione a seguire determinate regole, banali ma efficaci, ad esempio evitare di dormire all'aperto. A questo proposito, già molti si stavano adoperando a seguire la grande intuizione del Dr. Angelo Celli, igienista, secondo cui era strettamente necessario fondare una «scuola» poiché sosteneva che l'alleato più pericoloso della malaria è l'ignoranza. Questa lotta ottenne un'accezione sistematica e scientifica quando nel 1918 il maestro Bartolomeo Gosio

Note

  1. ^ Cartolina gentilmente donata dal Professor Eugenio Bartolini.
  2. ^ a b c d e f autore, op. cit., p. 107
  3. ^ Gianfranco Donelli, Enrica Serinaldi, op. cit., p. VII (Introduzione di Vittorio A. Sironi)
  4. ^ Gianfranco Donelli, Enrica Serinaldi, op. cit., p. VII (Introduzione di Vittorio A. Sironi, citazione Ippocrate, De aere, aquis et locis)
  5. ^ Giancarlo Majori, Federica Napolitani, op. cit., pp. 8, 14, 15
  6. ^ Hickman, Roberts, Keen, Eisenhour, Larson, L'Anson, op. cit., pp. 342-344
  7. ^ Angelo Celli, op. cit., p. 164
  8. ^ a b Gianpaolo Feligioni, op. cit., p. 27
  9. ^ Atti Parlamentari, Leg. XXI, I Sess., Disc. torn. del 27-3-1901
  10. ^ Giancarlo Majori, Federica Napolitani, op. cit., p. 24

Bibliografia

  • autore da scoprire, Titolo, casa, Luogo anno
  • Giancarlo Majori, Federica Napolitani, Il Laboratorio di Malariologia, Istituito Superiore di Sanità, Roma 2010
  • Gianfranco Donelli, Enrica Serinaldi, Dalla lotta alla malaria alla nascita dell'Istituto di Sanità Pubblica. Il ruolo della Rockefeller Foundation in Italia: 1922-1934, Editori Laterza, Roma-Bari 2003
  • Angelo Celli, Malaria e colonizzazione nell'Agro Romano, dai più antichi tempi ai nostri giorni, Vallecchi, Firenze 1927
  • Gianpaolo Feligioni, Angelo Celli. Medico e Deputato, Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche, Quaderno N.35, Ancona 2001
  • C.P. Hickman Jr., S. Roberts, S.L. Keen, D.J. Eisenhour, A. Larson, H. L'Anson, Zoologia, 16ª edizione, McGraw-Hill Education, 2016