Film comico
Il film comico è una forma d'arte basata sulle capacità dell'attore di far scaturire il meccanismo del riso mediante battute linguistiche o gag fisiche tese a sovvertire l'ordine costituito. Fin dalle origini del teatro greco l'ambito comico è stato identificato come un vero elemento di trasgressione, e come tale è stato ricondotto (tanto dalle poetiche classiche quanto dalle teorie moderne) a comportamenti attinenti la sfera del grottesco, del surreale e del bizzarro.[1]

Esso si differenzia dal film commedia per il metodo e la natura di provocare divertimento. La commedia comprende in sé diverse situazioni (anche drammatiche) che spesso prevedono un happy end riconciliante e consolatorio. Il film comico può, in alcuni casi, risultare meno "ricercato", soprattutto se lo script rimanda a sketch e trovate vicine allo slapstick, e facenti leva su una comicità più basica e compulsiva, lontana da ogni forma di riflessione e sentimento. La distinzione comunque non sempre viene certificata dalla critica che sovente ha preferito coniare la doppia espressione comico/commedia bilanciando e accorciando le distanze tra i due generi.
Storia
Le origini
I primi quadri in movimento a carattere comico hanno avuto, fin dalle origini, una larga fortuna, nonostante fungessero da mero pretesto per supportare pellicole più ambiziose. Non è un caso che nei vari esperimenti di Georges Méliès e in alcuni fotogrammi di Auguste e Louis Lumière si trovino sequenze che si risolvono più volte in un esito comico. Tra i numerosi fotogrammi dei fratelli Lumière (composti da una sola inquadratura) si ricordano: Arroseur et arrosé, Charcuterie mécanique, Le cocher endormi e Le squelette joyeux, databili tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e i primi anni del Novecento.[1] In linea con la tecnica e lo stile del cinema delle attrazioni, la produzione dei primi quindici anni del Novecento privilegia gli effetti puramente visivi, a discapito di quelli narrativi. Infatti, le vicende descritte ruotano attorno ad esili canovacci che servono da pretesto per scatenare affollati inseguimenti, rovinose cadute e catastrofi in serie. Questo tipo di comicità slapstick (termine che indica in inglese una piccola canna di legno usata dagli artisti comici per produrre rumore) arruola personaggi incapaci di adattarsi alla società producendo comportamenti devianti e inadeguati.[1]
La cinematografia più attiva del periodo diviene quella francese, che annovera fra le star di maggior richiamo i nomi di Boireau (personaggio interpretato da André Deed), Rigadin (interpretato da Charles Prince), Robinet (portato al successo da Marcel Fabre), Polidor (ideato da Ferdinand Guillaume) e Fricot (impersonato prima da Ernesto Vaser e in seguito da Cesare Gravina).[1] Ben presto tale produzione artistica dilaga oltreconfine raggiungendo gli Stati Uniti, la cui esplosione si lega soprattutto al nome di Mack Sennett, direttore dal 1912 della casa di produzione Keystone e scopritore di moltissimi talenti. Tuttavia la figura più importante degli anni dieci è quella dell'artista francese Max Linder, la cui comicità, elegante e raffinata ma anche eccessiva e distruttiva, ha lo scopo di dissacrare le convenzioni della civiltà borghese.[1] Tra le varie opere della sua filmografia si riportano: Les débuts d'un patineur (1907), Max fait du ski (1910), Max victime du quinquina (1911) e Max et le mari jaloux (1914), quasi tutte dirette e interpretate da se medesimo.
L'evoluzione del cinema comico
Tra la fine degli anni dieci e l'inizio degli anni venti si assiste ad un progressivo aumento del metraggio che porta ad una attenta definizione dei personaggi e a un maggior sviluppo della trama. Anche il cinema comico registra questa evoluzione servendosi di soggetti filmici più elaborati.[1] All'estro e all'improvvisazione dell'attore si accompagnano copioni più sofisticati che valorizzano e amplificano la struttura di una gag. Le innumerevoli potenzialità del racconto vengono subito esaltate dalle produzioni statunitensi che iniziano a creare un'autentica industria della risata. Gli anni venti segnano in generale il momento di massima maturazione estetica e narrativa del film comico. Nello stesso tempo, i suoi protagonisti cominciano ad assumere atteggiamenti prettamente immaturi e infantili. L'inettitudine del personaggio è per lo più il frutto di un'innocenza originaria, di una condizione adamitica, dove il comico, nudo e puro di fronte al mondo, ne subisce le regole adottando comportamenti inversamente proporzionali a quelli del consorzio sociale.[1] I corpi, i volti e il trucco di attori quali Charlie Chaplin, Buster Keaton, Harry Langdon, Stan Laurel e Oliver Hardy sono del tutto funzionali ad una stretta correlazione fra l'universo comico e il procedimento mentale dell'infanzia.[1]
A partire dal 1914 la scena del cortometraggio viene dominata dal cineasta e interprete britannico Charlie Chaplin con l'invenzione della maschera universale del vagabondo (The Trump nei paesi anglosassoni e Charlot in quelli latini) che in breve tempo assurge a icona globale della settima arte. Dal 1921, con l'uscita del lungometraggio Il monello, il buffo omino in bombetta comincia ad assumere connotati più malinconici allargando il proprio sguardo, sempre con l'uso del comico, sulla triste condizione delle classi subalterne, vittime di una società alienante e mistificatrice.[2] Ciò diverrà più evidente nelle successivi capolavori La febbre dell'oro (1925), Il circo (1928), Luci della città (1931) e Tempi moderni (1936); fino a sfociare nella commedia satirica a sfondo drammatico Il grande dittatore (1940), nel cui finale Chaplin utilizza per la prima volta il linguaggio parlato.
Alla fama planetaria di Chaplin tenne testa l'attore e regista statunitense Buster Keaton, ideatore di una maschera facciale impassibile e dimessa, e dotato di una mimica corporea inedita e stravagante. Definito dalla critica "il comico che non ride mai", per via della sua espressione impenetrabile, nei confronti del mezzo cinematografico ha apportato contributi di rilievo, sia dal punto di vista attoriale che registico. Il suo successo e la sua carriera si protraggono per tutto il decennio, concludendosi con l'arrivo del sonoro, la cui arte lunare e metafisica mal si adattava alla nuova invenzione. Tra i suoi film più significativi vanno ricordati: Senti, amore mio (1923), La legge dell'ospitalità (1923), La palla nº 13 (1924), Come vinsi la guerra (1927) e Il cameraman (1928), considerato tra le vette più alte della sua produzione.[3]
Altro protagonista dell'epoca del muto è senza dubbio Harry Langdon. All'apice della sua carriera, intorno alla metà degli anni venti, ha vestito i panni paradigmatici dell'eterno fanciullo, costruiti su una timidezza ingenua e disarmante, in questo aiutato da un volto candido e rotondo che sembrava disegnato per un apposito fumetto. Da ricordare è la filmografia di Larry Semon (conosciuto in Italia con il nome di Ridolini); inventore di un personaggio dal viso infarinato e clownesco, costantemente alle prese con innumerevoli inseguimenti e acrobazie.
Sempre negli anni venti si registra l'attività del comico statunitense Harold Lloyd, divenuto popolare grazie alla caratterizzazione del giovanotto ambizioso e arrivista, sempre teso alla conquista del successo e pregno di vitale ottimismo. Famoso per le sue perfomance di funambolo ed equilibrista ha saputo, negli anni, rivaleggiare con le massime star dell'epoca. Celebre, ancora oggi, il fotogramma che lo ritrae appeso alla lancetta dell'orologio di un grattacielo, appartenente al lungometraggio Preferisco l'ascensore, del 1923.
L'avvento del sonoro
Gli anni Trenta costituiscono un periodo di assestamento e di ridefinizione delle forme del comico. Se la purezza visiva dell'epoca del muto tende a venire meno, la disponibilità della parola sviluppa elementi farseschi carichi di intemperanze verbali, che sfiorano volutamente il nonsense. L'avvento del sonoro viene a produrre, così, una comicità più mediata, organizzata in forma di commedia, sulla quale influiscono i modelli di stilizzazione teatrale esemplificati dalla sophisticated comedy hollywoodiana.[1] Fruitori di questo cambiamento divengono i fratelli Marx: autori di una comicità travolgente ed esplosiva, irrispettosa delle convenienze di etichetta come delle convenzioni linguistiche, dispiegando un ventaglio di trovate sempre diverse e complementari. Tra i fratelli si distinguono Harpo, la cui creatività consta nel saper usare oggetti del quotidiano come sostituti del parlato e Groucho: mente logica del gruppo, dedito a svolgere spericolati ragionamenti producendo fulminanti boutades e improbabili argomentazioni. Da ultimo troviamo Chico, il musicista, che funge da spalla e da mediatore tra i due artisti.[1]
Dei tre ad emergere maggiormente sotto i riflettori della ribalta sarà proprio Groucho Marx, soprattutto in virtù del suo peculiare umorismo e della creazione di un'eccentrica maschera fatta di vistosi baffi dipinti, occhiali tondi, sguardo ammiccante e sigaro perennemente tra i denti. Tra le opere cinematografiche più rinomate del gruppo si ricordano: Animal Crackers (1930), La guerra lampo dei fratelli Marx (1933), Una notte all'opera (1935) e Un giorno alle corse (1937).
Negli anni trenta, oltre ai fratelli Marx, conoscono successo internazionale la coppia di comici formata da Stan Laurel e Oliver Hardy, attivi nel mondo della celluloide fin dai tempi del muto. La vis comica dei due interpreti si basa sulla peculiare capacità di combinare assieme i reciproci comportamenti. Laurel è sempre maldestro e inconcludente, anche nell'affrontare compiti elementari, di fronte ai quali manifesta la sua difficoltà grattandosi il capo per poi lasciarsi andare a piagnistei infantili. Hardy si dimostra sempre sicuro di sé e nel constatare i fallimenti di Lauren cerca la complicità dello spettatore volgendo lo sguardo in camera. Nel medesimo istante dà sfogo alla sua impazienza gonfiando le guance o arrotolandosi la cravatta. Anch'egli però, proprio come il compagno, riesce a far diventare insormontabili le situazioni più banali.[4] La fama e la stima raggiunta dai due artisti a cavallo di tre generazioni li ha resi, senz'altro, la coppia comica più nota dell'intera storia del cinema.[4] Tra le produzioni più riuscite troviamo: Il compagno B (1932), Fra Diavolo (1933), I figli del deserto (1933), Allegri Gemelli (1936), Avventura a Vallechiara (1938) e I diavoli volanti (1939). Quest'ultima pellicola contiene il celebre motivo Guardo gli asini che volano nel ciel, versione italiana (cantata da Alberto Sordi) del motivo musicale inglese Shine On, Harvest Moon.[5]
Il cinema comico dal dopoguerra agli anni sessanta
Nel solco tracciato da Stan Laurel e Oliver Hardy si inseriscono negli anni quaranta Gianni e Pinotto, traslitterazione italiana del duo statunitense "Abbott and Costello". La coppia impersona, quasi sempre, soggetti appartenenti al ceto medio che tentano (con apparente astuzia) di dare una svolta alla loro esistenza per poi essere travolti da cause di forza maggiore. Funzionale al racconto è risultata, in più occasioni, l'idea di contaminare la sceneggiatura con elementi tipici dell'horror e del thriller suscitando sorprese e ilarità. Scritturati dalla Universal arrivano sul grande schermo con il film One Night in the Tropics (1940). Il secondo lungometraggio, Gianni e Pinotto reclute (1941), realizza un incasso da record rendendoli tra le star più richieste di Hollywood.[6]
Nei decenni successivi la forma comica si concretizza in un ventaglio di proposte assai variegato. Il prodotto in sé stesso tende a mantenere un suo carattere trasgressivo e irregolare, e a strutturarsi attorno a performance attoriali dagli eccessi mimico-espressivi, nonché linguistici e comportamentali. La costruzione della trama punta a racconti che prendono la piega della farsa, favorita dall'origine teatrale, cabarettistica e televisiva della maggior parte dei suoi interpreti.[1] Esempio concreto di questa tendenza è stato l'attore televisivo, teatrale e cinematografico Jerry Lewis.
Esibitosi fin dal dopoguerra in coppia con l'amico e cantante Dean Martin e valorizzato da registi quali Frank Tashlin, Lewis ha saputo creare nelle proprie pellicole un personaggio fisicamente eccessivo e irregolare facendo leva su gag iperreali ed esuberanti. All'inizio degli anni sessanta intraprende la carriera solista divenendo unico referente della sua arte. La sua tendente abilità nell'addentrarsi negli spazi del bizzarro e del surreale lo hanno reso uno dei protagonisti più alti del cinema comico degli anni cinquanta e sessanta.[7] In merito alla sua cospicua filmografia si menzionano: Il nipote picchiatello (1955), Il Cenerentolo (1960) e Le folli notti del dottor Jerryll (1963), chiara parodia del romanzo di Robert Louis Stevenson e definito dalla critica come uno dei suoi capolavori.[8] Proprio nel genere parodistico molti attori del tempo hanno dato prova del loro estro in numerosi lungometraggi, spesso a basso budget e sicuro successo. Tale sottogenere è stato ripreso con fortuna negli anni settanta dal regista e attore Mel Brooks, in particolar modo nel cult movie Frankenstein Junior (1974), che ha visto come primi attori Gene Wilder e Marty Feldman.[9]
Inoltre, negli anni sessanta si fanno strada commedie che contengono in sé situazioni che virano decisamente verso il comico come dimostrano alcune produzioni interpretate da attori come Walter Matthau e Jack Lemmon, nonché alcune pellicole di Blake Edwards come il film cult Hollywood Party (1968), con protagonista Peter Sellers. In un tempo coevo a quello di Lewis si impone all'attenzione di pubblico e critica il comico francese Jacques Tati. Erede della tradizione del muto, ha saputo costruire nei propri lungometraggi gag visive e sonore intelligenti e originali, più vicine allo straniamento di Buster Keaton che all'esuberanza malinconica di Charlie Chaplin.[10] Il personaggio di "Monsieur Hulot" (protagonista di quattro film da lui stessi diretti) viene concepito e ideato dall'attore come maschera silente e spettatrice che mantiene una costante imperturbabilità anche dinanzi alle situazioni più coinvolgenti. Molto amato dai registi della Nouvelle vague, nell'arco della sua carriera ha realizzato solo sei lungometraggi, con i quali ha saputo rinnovare ugualmente l'universo del comico.[10]
Gli anni settanta e ottanta
Negli anni settanta la tendenza alla divaricazione fra le forme più ordinate della commedia e le forme più esplosive del comico sembra accentuarsi ancora. La crescita dell'influenza della televisione, unita alla sempre più marcata prevalenza di modalità di comunicazione brevi e veloci, dà luogo a una comicità segnata da una progressiva destrutturazione e da frequenti contaminazioni.[1] Prevale sempre più l'elemento demenziale, con l"esempio di David Zucker e L'aereo più pazzo del mondo e Una pallottola spuntata. Fino alla fine degli anni '90, i Fratelli Zucker e l'attore Leslie Nielsen dominano le scene del comico, fino all'arrivo di Jim Carrey, Eddie Murphy e Ben Stiller, mentre un nuovo filone del demenziale prende avvio, fino a oggi, con la saga parodistica di Scary Movie.
Italia
In Italia i primi film comici risalgono al tempo del muto, negli anni '20, con comiche e personaggi pagliacceschi sulla scia di Charlot e Buster Keato, come Tontolini e Cretinetti. A causa della censura fascista, i veri film comici nasceranno solo negli anni '40, rappresentati specialmente da Totò, che si pone, in pellicole come San Giovanni decollato o Totò nella fossa dei leoni come un nuovo Chaplin, impersonando un buffo ometto napoletano dalla parlantina accesa e il corpo da marionetta sgangherata. Totò sarà il principale attore comico per tutti gli anni '50, spesso mescolando la comicità al genere di commedia classica. Negli anni '60 Franco Franchi e Ciccio Ingrassia saranno i principali rappresentanti della commedia italiana di serie B, raccogliendo tuttavia la verve comica del passato teatrale italiano della rivista anni '30. Negli anni '70 ci fu inoltre Paolo Villaggio che inventò il personaggio buffo e sfortunato di Ugo Fantozzi, emblema del misero italiano medio, inconcludente e sfruttato dai potenti.
Negli anni '80-'90 prevale la commedia erotica di livello basso, impersonata da Alvaro Vitali nel ruolo di Pierino, e Lino Banfi nel ruolo del tipico pugliese sfortunato. Dopo un lungo periodo di decadenza nello stile demenziale, con la creazione del nuovo genere del "Cinepanettone", rappresentato da Massimo Boldi e Christian De Sica, il cinema comico visse un breve periodo fiorente negli anni '90 grazie a Neri Parenti e Paolo Villaggio, che girarono film comici sulla scia di Fantozzi e le vecchie comiche americane del muto.
Negli anni 2000 la riscoperta del cinema comico è risorta in parte grazie a Checco Zalone, Giorgio Panariello e Maccio Capatonda.
Note
- ^ a b c d e f g h i j k l Cinema comico - Treccani, su treccani.it. URL consultato l'11 ottobre 2017.
- ^ Corriere della Sera, 27 dicembre 1977, pag 3, autore Giovanni Grazzini
- ^ Morando Morandini, Il Morandini Dizionario dei film 2003, Zanichelli, p. 217
- ^ a b Stanlio e Ollio - Treccani, su treccani.it. URL consultato il 12 ottobre 2017.
- ^ Antonio Genna, Domanda 51, su Il mondo dei doppiatori, archivio, antoniogenna.net, 4 febbraio 2013. URL consultato il 1º febbraio 2016.
- ^ Abbott e Costello, ovvero Gianni e Pinotto - Cinemalia, su cinemalia.it. URL consultato il 13 ottobre 2017.
- ^ Jerry Lewis - Treccani, su treccani.it. URL consultato il 13 ottobre 2017.
- ^ Paolo Mereghetti, p. 1295
- ^ Paolo Mereghetti, p. 1319
- ^ a b Jacques Tati - Treccani, su treccani.it. URL consultato il 14 ottobre 2017.
Bibliografia
- Sandro Bernardi, L'avventura del cinematografo, Marsilio Editori, Venezia 2007. ISBN 978-88-317-9297-4