Utente:Franz van Lanzee/Sandbox 3
In tutti i paesi invasi dalle forze dell'Asse nel corso della guerra si svilupparono, in maniera più o meno estesa e più o meno intensa, forme e movimenti di collaborazionismo con gli occupanti e, dall'altro lato, di resistenza agli invasori. In entrambi i casi ciò poteva concretizzarsi in molti modi diversi, da un mero appoggio pratico di modesta ampiezza all'estremo opposto rappresentato dalla formazione di gruppi armati che si affrontavano sul campo in azioni di guerriglia e repressione, generando forme più o meno intense di vera e propria guerra civile tra gruppi ideologici contrapposti all'interno delle varie nazioni[1]. Entrambi i contendenti favorirono le forme più violente di collaborazionismo e resistenza: le forze dell'Asse reclutarono unità di polizia e miliziani locali per la repressione dei movimenti resistenziali nei rispettivi paesi, ma anche contingenti ben più numerosi e strutturati per l'impiego sulla linea del fronte (come l'Azad Hind Fauj, reclutato dai giapponesi tra i prigionieri di guerra indiani contrari al dominio coloniale britannico, o i numerosi reparti di truppe straniere nelle Waffen-SS tedesche); gli Alleati si premunirono di appoggiare i partigiani e i gruppi resistenziali nei paesi occupati paracadutando personale specialistico e rifornimenti di armi tramite varie organizzazioni a ciò dedicate: l'Europa occidentale e i Balcani erano zone d'operazione dello Special Operations Executive britannico e dello Office of Strategic Services statunitense[2] (quest'ultimo attivo anche in Asia insieme alla britannica Force 136), mentre i partigiani sovietici erano sostenuti direttamente dalla polizia segreta NKVD[3].
Europa occidentale
Si possono definire diverse differenza tra la Resistenza nell'Europa occidentale e quella nell'Europa orientale. In occidente i movimenti resistenziali si caratterizzarono per una notevole frammentazione politica, con gruppi che appoggiavano gli ideali del comunismo e altri fermi su posizioni più conservatrici e fedeli ai governi d'anteguerra, ma nella maggior parte dei casi ciò non si concretizzò in scontri armati tra le opposte fazioni e in generale fu possibile costituire comandi unitari che raccogliessero tutte le principali anime della Resistenza antitedesca; ciò nonostante, i movimenti resistenziali dell'Europa occidentale non rappresentarono mai una seria minaccia militare per i tedeschi, limitandosi a condurre operazioni di sabotaggio industriale e delle linee di comunicazione, di propaganda e di soccorso ai soggetti ricercati dagli occupanti (in particolare ebrei e piloti alleati abbattuti)[1].
Solo in Francia e in Italia la Resistenza si concretizzò in una significativa forza militare. In Francia il territorio vasto e ricco di rifugi, la tradizionale ostilità verso i tedeschi, la vicinanza geografica con il Regno Unito e la particolarità che vedeva (almeno fino al novembre 1942) parte del territorio nazionale non direttamente occupato dalla Germania favorirono la nascita di un vasto movimento resistenziale. La Francia Libera di De Gaulle tentò di assumere la guida del movimento resistenziale tramite l'organizzazione da essa appoggiata (il Mouvements unis de la Résistance), scontrandosi però con le pretese di autonomia avanzate dai gruppi comunisti dei Francs-Tireurs et Partisans; queste divisioni furono alla fine appianate nel maggio 1943, quando venne costituito l'unitario Conseil national de la Résistance. Oltre che contro i tedeschi, i partigiani francesi (maquis) dovettero fronteggiare le formazioni collaborazioniste espressione tanto del governo di Vichy quanto di vari gruppi politici fascisti interni, spesso ferocemente rivali gli uni con gli altri; l'organizzazione collaborazionista più attiva fu la Milice française, nata nel gennaio 1943. Dopo lo sbarco in Normandia i maquis furono riuniti in una struttura più "regolare", le Forces Françaises de l'Intérieur, efficacemente impiegata nelle operazioni di rastrellamento dei reparti tedeschi rimasti isolati dall'avanzata alleata e poi confluita nelle forze armate della Francia Libera[4].
L'Italia fu l'ultimo paese dell'Europa occidentale a sviluppare un proprio movimento resistenziale, visto che i primi gruppi si formarono solo dopo l'armistizio del settembre 1943; tuttavia, fu in Italia che si verificarono le azioni di guerriglia più violente e le repressioni tedesche più sanguinose di tutta l'Europa occidentale. I vari partiti politici antifascisti (dai monarchici ai comunisti) costituirono quasi immediatamente una struttura di comando unitaria (il Comitato di Liberazione Nazionale), anche se i rapporti tra le varie anime della Resistenza non furono sempre idilliaci e occasionalmente degenerarono in fatti di sangue (come nel caso dell'eccidio di Porzûs). Ad ogni modo, le forze partigiane italiane riunite nel Corpo volontari della libertà arrivarono a organizzare un gran numero di unità armate, capaci anche di operazioni su vasta scala che portarono, nel corso del 1944, alla temporanea creazione di vere e proprie "Repubbliche partigiane" nei territori occupati; la reazione dei tedeschi e delle forze collaborazioniste della Repubblica Sociale Italiana fu di pari intensità, concretizzandosi spesso in sanguinose azioni di rappresaglia contro la popolazione civile (come nei casi dell'eccidio delle Fosse Ardeatine e dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema). Nei giorni che precedettero la resa tedesca in Italia, le forze partigiane furono infine in grado di organizzare una vasta insurrezione che portò alla liberazione dei centri più importanti del Norditalia[5].
Europa orientale e Balcani
La resistenza partigiana nell'Europa orientale e nei Balcani assunse i caratteri della guerriglia più rapidamente e in misura nettamente maggiore rispetto all'Europa occidentale: le spietate politiche razziali tedesche, molto più severe che a occidente e tradottesi spesso in feroci massacri di civili, fecero sì che migliaia di persone trovassero rifugio nelle foreste, nelle montagne e nelle paludi che abbondavano nella regione, dove si unirono ai molti sbandati degli eserciti regolari tagliati fuori dalle fulminee avanzate della Wehrmacht per formare veri e propri eserciti partigiani arrivati a contare decine di migliaia di effettivi in armi. A differenza che in occidente, poi, la lotta nella regione si caratterizzò per una complicata guerra tra tre distinti raggruppamenti, ostili gli uni con gli altri: gli occupanti tedeschi e i reparti collaborazionisti da loro reclutati, i partigiani di ideologia comunista sostenuti dall'Unione Sovietica, e i gruppi resistenziali nazionalisti anticomunisti; tentativi di costituire un fronte comune contro gli invasori naufragarono spesso dopo poco tempo, e in molte zone i partigiani comunisti e nazionalisti passarono tanto tempo a combattersi tra di loro di quanto ne passarono a combattere le truppe dell'Asse. In effetti, la guerra partigiana in Europa orientale non si concluse con la resa della Germania ma proseguì nel corso degli anni 1950 contro le truppe sovietiche e i regimi comunisti da esse sostenuti[6].
Fin dai primi giorni dell'invasione tedesca la Polonia sviluppò un vasto movimento di resistenza agli occupanti, il cosiddetto "Stato segreto polacco". La principale formazione armata era la Armia Krajowa (AK), arrivata a contare anche 400.000 uomini; nazionalista e fedele al Governo in esilio della Polonia, l'AK fu sempre in cattivi rapporti con i partigiani comunisti dell'Armia Ludowa, numericamente più piccoli ma spalleggiati dai sovietici. L'AK sviluppò un vasto piano per attuare un'insurrezione generale prima che l'Armata Rossa potesse rioccupare la Polonia stessa (operazione Tempest), culminato nella grande ma fallimentare rivolta di Varsavia nell'agosto-ottobre 1944; l'AK subì però pesanti perdite in questi ultimi scontri con i tedeschi e i sovietici si affrettarono a smantellarne i resti tramite ondate di arresti. I sopravvissuti dell'organizzazione (i cosiddetti Żołnierze wyklęci, "Soldati maledetti") continuarono una guerriglia a danno dei sovietici almeno fino alla fine degli anni 1950[7].
Le spietate politiche razziali e di spoliazione adottate dai tedeschi portarono allo sviluppo di un vastissimo movimento di Resistenza sovietica nelle regioni invase dell'URSS arrivato a contare al suo picco anche 300.000 uomini, coordinati da uno stato maggiore regolare insediato a Mosca e capaci di condizionare pesantemente le linee di comunicazione delle truppe dell'Asse e il loro controllo delle zone rurali[8]. Le regioni dove i partigiani sovietici agivano maggiormente erano la Bielorussia, la Russia occidentale e l'area di Leningrado, ma altrove la guerriglia di matrice comunista non riuscì ad attecchire. Nei pesi baltici, il forte sentimento nazionalista impedì la nascita di un credibile movimento partigiano comunista: estoni, lettoni e lituani confidarono nel fatto che l'invasione tedesca potesse portare al ripristino delle loro patrie nazionali annesse all'Unione Sovietica nel 1940, ma queste speranze furono ben presto disilluse e decine di migliaia di baltici confluirono nei movimenti partigiani nazionalisti noti collettivamente come "Fratelli della foresta"; dopo la rioccupazione sovietica della regione, i partigiani baltici continuarono una lotta senza speranza almeno fino al 1952[9]. Similmente, in Ucraina l'Esercito insurrezionale ucraino nazionalista si rivelò significativamente più forte dei partigiani comunisti, arrivando a disporre anche di 300.000 uomini e a porre sotto controllo il 60% dell'Ucraina nord-occidentale[10]; impegnate in una lotta senza quartiere contro tedeschi, sovietici e partigiani polacchi, i nazionalisti ucraini non furono sconfitti che all'inizio del 1950[11].
La Resistenza greca si polarizzò fin da subito in due movimenti ideologicamente inconciliabili, il comunista ELAS (numericamente più forte e capace di operare nell'intero territorio nazionale) e il monarchico EDES (più piccolo e confinato al solo Epiro, ma forte dell'appoggio ricevuto dal Regno Unito). Tentativi di creare un fronte comune fallirono ben presto, e nell'ottobre 1943 ELAS ed EDES si affrontarono in una guerra aperta in cui furono coinvolti anche i reparti britannici, sbarcati ad Atene in ottobre dopo la ritirata dei tedeschi dalla zona; questi scontri, intervallati da fragili tregue, furono i prodromi della guerra civile greca che avrebbe infuriato fino alla fine del 1949[12]. Simile fu la situazione in Jugoslavia, dove i comunisti dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia (EPLJ) dovettero ben presto confrontarsi armi alla mano con i partigiani nazionalisti dell'Esercito jugoslavo in patria (o "cetnici"); la contesa fu tale che i cetnici arrivarono anche a cooperare in molti casi con le forze occupanti dell'Asse contro i partigiani comunisti. Questa condotta costò tuttavia ai cetnici il sostegno degli Alleati, che si riversò tutto sui partigiani comunisti: alla fine del 1944 l'EPLJ era ormai divenuto, grazie all'aiuto britannico e sovietico, un vero esercito regolare con 800.000 combattenti organizzati in quattro armate e circa 50 divisioni, con forze pesanti meccanizzate e squadriglie aeree, in grado di partecipare autonomamente alle offensive finali alleate contro le ultime posizioni tedesche.
Asia
Benché si proponessero come liberatori dei popoli asiatici dal giogo coloniale degli europei, i giapponesi attuarono politiche severe nei territori da loro occupati, asservendo le economie locali alle esigenze belliche del Giappone, confiscando materie prime e reprimendo con spietatezza ogni forma di dissenso; i territori più fortunati (come Filippine e Birmania) furono consegnati a governi fantoccio in tutto e per tutto asserviti al Giappone, quelli più sfortunati (come Corea, Malesia e Indonesia) furono sottoposti a vere e proprie politiche di "nipponizzazione" della società[13]. Abbastanza prevedibilmente, tutto ciò non fece che generare movimenti di resistenza contro gli occupanti.
Alcuni movimenti resistenziali furono creati direttamente dagli Alleati, come nel caso del Seri Thai thailandese o dell'Esercito di liberazione coreano; in vari casi, unità speciali alleate armarono contro i giapponesi le minoranze etniche perseguitate (come i Daiacchi del Borneo o i Karen della Birmania). Altri movimenti resistenziali furono invece espressione di partiti politici autoctoni, in primo luogo comunisti: fu questo il caso dell'Esercito anti-giapponese dei popoli malesi o dell'Organizzzaione anti-fascista birmana; vari di questi movimenti avversavano tanto i giapponesi quanto il ripristino delle vecchie autorità coloniali, come nel caso del Viet Minh indocinese.
I movimenti di Resistenza anti-giapponese numericamente più forti furono quello cinese e quello filippino. Lo spietato regime di occupazione imposto dal Giappone alla Cina generò una vastità di gruppi guerriglieri attivi dietro la linea del fronte: benché notevolmente frammentati e ideologicamente divisi tra il supporto al Partito comunista cinese o al Kuomintang nazionalista, questi gruppi contribuirono non poco a tenere bloccati 325.000 soldati giapponesi (e varie decine di migliaia di truppe collaborazioniste cinesi) che altrimenti sarebbero stati impiegati altrove. La Resistenza filippina fu parimenti molto estesa, arrivando a contare anche 270.000 guerriglieri sparpagliati nelle numerose isole dell'arcipelago[14]; molti di questi gruppi si erano originati dalla dissoluzione delle forze armate filippine ed erano guidati e appoggiati da ufficiali statunitensi, ma non mancarono i gruppi di ideologia comunista (Hukbalahap) o espressione di minoranze ostili tanto ai nuovi che ai vecchi occupanti (i Moro musulmani che abitavano le isole meridionali).
- ^ a b Thomas et al. 1999, p. 49.
- ^ Thomas et al. 1999, pp. 53-54.
- ^ Overy 2011, p. 157.
- ^ Thomas et al. 1999, pp. 65-70.
- ^ Thomas et al. 1999, pp. 79-85.
- ^ Thomas et al. 1999, pp. 3-7.
- ^ Thomas et al. 1999, pp. 8-9.
- ^ Overy 2011, pp. 157-160.
- ^ Thomas et al. 1999, p. 18.
- ^ Overy 2011, p. 161.
- ^ Thomas et al. 1999, pp. 17-18.
- ^ Willmott et al. 1999, pp. 240-241.
- ^ Garcon 1999, pp. 53-54.
- ^ Garcon 1999, p. 56.
- Nigel Thomas; Peter Abbott; Carlos Caballero Jurado, La guerra partigiana 1941-45 e la Resistenza 1940-45, Osprey Publishing/Edizioni Del prado, 1999, ISBN 84-8372-024-8.
- Richard Overy, Russia in guerra, il Saggiatore, 2011, ISBN 978-885650259-6.
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