La filiera corta (o canale corto o vendita diretta) è una filiera produttiva caratterizzata da un numero limitato e circoscritto di passaggi produttivi, e in particolare di intermediazioni commerciali, che possono portare anche al contatto diretto fra il produttore e il consumatore. È maggiormente diffusa in agricoltura, soprattutto per quei prodotti che non necessitano di processi di trasformazione, come il riso[1] o quasi tutti i prodotti ortofrutticoli freschi.

Si tratta una strategia alternativa che crea filiere indipendenti dalla grande distribuzione, basate sulla produzione locale, in cui si riducono gli intermediari della catena del cibo e le distanze che il cibo stesso percorre.[2] Questo contribuisce al rafforzamento delle economie locali e favorisce il progresso nel campo delle produzioni sostenibili.

Il termine ‘corta’ si riferisce a tre dimensioni:

  • prossimità geografica: misurata come distanza fisica tra chi produce e chi consuma
  • prossimità sociale: suggerisce un rapporto di fiducia e solidarietà tra produttore e consumatore, che condividono tradizioni e identità territoriali
  • prossimità economica: gli scambi di mercato sono circoscritti all’interno di un territorio.[3]

L'importanza strategica della filiera corta

Il fattore prezzo

Rispetto al canale tradizionale, nel canale corto i prodotti sono solitamente più convenienti per i consumatori, grazie al contenimento dei costi di produzione e all'assenza di intermediazione. Oltre ai consumatori, anche il produttore può ottenere un guadagno più equo in base ai fattori produttivi impiegati e può riappropriarsi di una parte del valore che usualmente si disperde nei vari passaggi lungo la filiera.[4]

In merito alla distribuzione del valore lungo la filiera e, in particolare, dei prezzi dei prodotti al consumo, le filiere corte:

  • possono ridurre i costi complessivi di produzione e distribuzione del cibo attraverso la riduzione dei chilometri percorsi dal cibo e del numero di passaggi di intermediazione;
  • rappresentano un’alternativa ai canali distributivi dominanti, e quindi possono contribuire ad evitare gli squilibri di potere contrattuale lungo la filiera;
  • possono consentire l’accesso al mercato a categorie di produttori e a tipologie di prodotti che difficilmente possono accedere ai canali distributivi più moderni;
  • facilitano il passaggio di informazioni tra produttori e consumatori, consentendo al prezzo che si forma sui mercati di tenere meglio in considerazione le caratteristiche dei processi produttivi e gli effetti sociali e ambientali;
  • promuovono una revisione degli stili di produzione e di consumo tipici del mercato convenzionale, puntando all'innovazione del sistema

I Mercati esistenti seguono criteri molto diversi tra loro per valutare il prezzo:

  • da un lato affrontano il tema del prezzo giusto da un punto di vista strettamente economico: benefici economici che produttori e consumatori possono trarre dall'accorciamento della filiera
  • dall’altro lato, considerano anche i benefici sociali e ambientali generati da un sistema “alternativo” di produzione e consumo. Questo approccio porta a dare maggiore risalto agli aspetti relativi alla comunicazione dei “valori” del prodotto e al tema del costo (sociale) di produzione.

Entrambi gli approcci possono essere funzionali ai diversi obiettivi che gli organizzatori e partecipanti dei mercati dei produttori agricoli possono porsi.[5]

Fattori determinanti per l'imprenditore che influiscono sulla scelta di utilizzazione del canale corto

Il canale corto, dal lato dell’agricoltore, favorisce la riduzione dei costi di produzione:

  • il rispetto della stagionalità dei prodotti, permette di limitare l’uso dell’energia necessaria
  • vendendo a livello territoriale, si evita il trasporto su lunghe distanze, risparmiando quindi in costi di conservazione, imballaggio e carburante.[4]

La filiera corta, tuttavia, non è conveniente per tutti gli agricoltori.

  • Le aziende più grandi, potendo sostenere i costi di produzione a fronte della disponibilità di innovazione tecnologica e di volumi adeguati di produzione, hanno un approccio non esclusivo alla filiera corta, che affiancano ai tradizionali canali di sbocco sul mercato
  • per quelle più piccole, invece, il circuito breve o la vendita diretta sono spesso fondamentali per la loro stessa sopravvivenza.[6] Per esempio, le piccole aziende agricole di montagna e collina, che si trovano in aree marginali, utilizzano i canali alternativi per far fronte alle maggiori difficoltà legate all’attività produttiva.

Inoltre, per quanto riguarda il tipo di prodotto, la filiera corta è più adatta ai prodotti orticoli, vitivinicoli e trasformati e non alle produzioni frutticole né a tutti quei prodotti (ad es. alcuni cereali) che possono arrivare al consumatore solo dopo una trasformazione non facilmente attuabile in azienda. [7]

Fattori determinanti per i consumatori che influiscono sulla scelta di utilizzazione del canale corto

Oltre alla convenienza, le principali motivazioni d’acquisto che attirano i consumatori verso il canale diretto sono molteplici:

  • la garanzia di qualità e freschezza dei prodotti
  • la possibilità di rapportarsi direttamente con i produttori
  • la volontà di sostenere l’economia locale
  • l'aspetto ambientale: il minore inquinamento, il risparmio di energia e la difesa dell’ambiente legati al consumo dei prodotti locali (cibo “a chilometro zero”, minore utilizzo di packaging, spesso prodotti biologici ottenuti per definizione con minore uso di input chimici)
  • l'aspetto socio-culturale: è un'occasione per riscoprire il mondo rurale e quindi salvaguardare le tradizioni la cultura enogastronomica del territorio[4]

Filiera corta e filiera lunga a confronto

  • Nella concezione classica di mercato il bene della collettività è più marginale. Nel caso della filiera corta, invece, il mercato fa riferimento a sistemi alimentari più etici: il consumatore ha una visione più ampia che lo induce a rivalutare i consueti comportamenti di consumo.[8]
  • nella filiera lunga l’offerta alimentare è ampia e di qualità standardizzata, mentre nella filiera corta si vendono pochi prodotti ma di elevata qualità[4]
  • la filiera lunga prevede dei circuiti lunghi, cioè vari intermediari e lunghi tragitti di percorrenza[9], mentre la filiera corta riduce al minimo gli intermediari ed è basata sui rapporti personali[4]
  • dal punto di vista dell’impatto economico, i vantaggi della filiera corta rispetto alla lunga sono: valore trattenuto nel territorio e prezzi più contenuti
  • per quello che riguarda gli impatti ambientali, la filiera corta dà più importanza ai prodotti freschi, locali e di stagione. Gli studi hanno però mostrato che l’uso di indicatori troppo semplificati come le ‘food miles’, che calcolano la semplice distanza tra luogo di produzione e luogo di vendita, rischiano di trasmettere informazioni incomplete rispetto alla complessità dei fattori che determinano la sostenibilità.
  • riguardo agli impatti sociali, nella filiera corta, la minore distanza sociale migliora la capacità dei consumatori di acquisire informazioni, mentre le filiere globali tendono ad oscurare il costo sociale delle merci
  • per quello che riguarda l’impatto nei confronti della salute pubblica, si accostano le filiere globali a modelli di nutrizione errati e quello delle filiere corte ad una dieta più salutare. In quanto mezzi di comunicazione di valori non commerciali, le filiere corte possono trasmettere in modo più coerente norme per una corretta nutrizione e hanno effetti indiretti sui comportamenti dei consumatori.[3]

Filiera corta e lunga: non sempre alternative

La filiera lunga come anche quella corta risultano di volta in volta più o meno efficienti a seconda dei diversi contesti locali e situazioni di mercato in cui operano. Ci sono ambiti in cui filiera corta e lunga possono coesistere nel medesimo contesto. Infatti alcune imprese trovano convenienti le opportunità offerte da entrambe e possono quindi fruire anche contemporaneamente di queste opposte modalità di produzione e vendita. I due circuiti possono infatti valorizzarsi reciprocamente in presenza di un prodotto di alta qualità.[9] Un esempio tipico è il settore del vino, dove la vendita diretta svolge un ruolo crescente in aziende che esportano i propri prodotti in tutto il mondo.[8]

Tipologie

Farmers' market

I farmers’ market o green market fanno particolare riferimento ai prodotti agricoli delle coltivazioni e dell’allevamento. Negli USA i prodotti venduti sono in genere alimenti di consumo quotidiano, non contraddistinti da particolari caratteristiche qualitative[9]. In Europa, il modello dei farmers’ market è stato importato dagli Stati Uniti intorno agli anni Novanta. Rispetto alle esperienze estere, nel nostro paese sembra emergere un’enfasi al sostegno del canale focalizzato sui prodotti tipici locali, che aiutano a conoscere il territorio circostante e a far crescere il turismo.[4]

Si tratta di mercati organizzati dagli agricoltori in collaborazione con le istituzioni locali, ma i FM vengono aperti per rispondere ad una domanda specifica dei consumatori.[10]

GAS (Gruppi di Acquisto Solidale)

I GAS emergono da associazioni informali di stampo ecologico-etico, o da piccoli gruppi di famiglie che vivono in uno stesso paese, accomunate dal desiderio di supportare il tessuto produttivo agricolo locale e, per estensione, lo sviluppo del proprio territorio. L’iniziativa ha origine non dal produttore, ma dalla capacità dei consumatori di auto organizzarsi spontaneamente, secondo logiche ispirate appunto alla solidarietà nei confronti dei produttori, di altri consumatori e in particolare verso i soggetti più svantaggiati. Si forma così un vero e proprio gruppo che dialoga e si struttura al suo interno in base alle caratteristiche e ai bisogni ed è in stretto contatto con il produttore ed il luogo di produzione. I consumatori, il cui profilo è variegato, sono generalmente più sensibili al tema delle foodmiles, della sostenibilità ambientale e attenti alla qualità e alla salubrità dei prodotti. La richiesta principale del consumatore è che ci sia un rapporto equo tra la qualità dei prodotti e il prezzo rispetto ai supermercati e ai mercati rionali, unitamente all’interesse verso il recupero di valori immateriali, come ad esempio le ricette antiche, le tradizioni gastronomiche, la tipicità delle produzioni locali.[11]

Box Scheme (‘vendita in cassetta’)

Molti produttori agricoli, per avvicinarsi ai consumatori finali senza intermediari, non si limitano alla semplice vendita in azienda dei propri prodotti ma hanno attivato altri canali di commercializzazione, come la consegna a domicilio di cassette con la spesa della settimana, che variano nelle dimensioni e nei contenuti secondo le preferenze dei consumatori.[11]

Community supported agriculture (Csa)

I cosiddetti Community Supported Agriculture (Csa), costituiscono una forma diretta di partenariato commerciale tra uno o più agricoltori e un gruppo di sostenitori/consumatori. Questi ultimi garantiscono una parte del bilancio operativo legato all’attività agricola, attraverso l’abbonamento a una o più “quote” del raccolto della stagione sottoscritto al principio dell’annata agraria, assumendo così, assieme al coltivatore, alcuni dei costi e dei rischi dell’attività agricola stessa.[11]

Vendita diretta in azienda

Alcune tipologie di aziende hanno cominciato a sperimentare nuovi modi, più diretti e indipendenti, di proporre i propri prodotti sul mercato, con lo scopo di valorizzarne le particolarità (Raffaelli et al., 2009). Le esperienze di vendita diretta aziendale sono quindi diversificate:

  • valorizzazione del prodotto in quanto unico e irriproducibile, riuscendo a proporlo sul mercato “fuori dagli standard”.
  • cooperazione di realtà piccole, poco accessibili che operano in presenza di oggettive difficoltà ambientali – climatiche, geografiche, logistiche
  • vendita dei propri prodotti di aziende dedite soprattutto all’agricoltura sociale e all’inserimento al lavoro di persone svantaggiate
  • diversificazione dell’attività agricola con l’inserimento di iniziative didattiche, ristorazione e ricezione turistica.[11]

I dati sulla vendita diretta in Italia

[Dal secondo rapporto dell’Osservatorio nazionale sulla vendita diretta riferito al 2007, che la Coldiretti ha creato insieme ad Agri 2000, emerge che le aziende che praticano la vendita diretta rappresentano il 6,1% del totale delle aziende agricole iscritte alle Camere di Commercio. Prendendo in considerazione la quota di aziende con vendita diretta rispetto al totale delle aziende agricole di ciascuna regione, le prime 5 regioni risultano la Toscana (20,3%), l’Abruzzo (20,3%), la Liguria (15,7%), la Lombardia (13,8%) e il Trentino Alto Adige (13,5%). La vendita diretta è diffusa soprattutto nelle aziende del comparto vitivinicolo (37,2% del totale), ma una quota importante è rappresentata anche dalle aziende che offrono prodotti ortofrutticoli (27,7%) e dalle aziende del comparto olivicolo (19,5%), ma sono in crescita anche prodotti come i formaggi ed il miele. Il luogo nel quale più frequentemente viene organizzata la vendita è rappresentato dagli stessi locali dell’azienda, con il 63,4% del totale; seguito dai mercati e dalle fiere locali (24%), mentre le aziende che si stanno organizzando con l’allestimento di negozi aziendali rappresentano il 14%. Infine, il valore delle vendite in Italia nel 2007 è stimato in 2,5 miliardi di euro, il 4,1% in più rispetto all’anno precedente. Vino (47%) e ortofrutta (28%) rappresentano congiuntamente il 75% del valore complessivo del canale. ] (FONTE 2)[4] [Le aziende sono localizzate prevalentemente nelle aree collinari e distano in media 25 km dai principali mercati di sbocco delle produzioni e ciò comporta effetti positivi, soprattutto in termini di riduzione delle esternalità negative legate ai trasporti quali l’emissione di anidride carbonica, l’inquinamento atmosferico, il traffico e l’inquinamento acustico (Defra, 2005).] (FONTE 7)[12]

Riferimenti normativi

Indicazioni a livello comunitario

[Con la nuova politica di sviluppo rurale europea, il sostegno alle filiere corte diventa un importante strumento per il mantenimento della vitalità delle aree rurali. La definizione che il testo legislativo proposto dalla commissione dà di filiera corta è tuttavia di carattere molto generale e i principi che dovranno essere precisati nella regolamentazione nazionale e regionale. Nel nuovo regolamento per lo sviluppo rurale le filiere corte sono menzionate come uno degli strumenti di realizzazione di uno degli obiettivi del regolamento (articolo 5) e precisamente: “promuovere l'organizzazione della filiera agroalimentare e la gestione dei rischi nel settore agricolo, con particolare riguardo ai seguenti aspetti: (a) migliore integrazione dei produttori primari nella filiera agroalimentare attraverso i regimi di qualità, la promozione dei prodotti nei mercati locali, le filiere corte, le associazioni di produttori e le organizzazioni interprofessionali". Per realizzare questi obiettivi, “Gli Stati membri possono inserire nei programmi di sviluppo rurale dei sottoprogrammi tematici, che contribuiscano alla realizzazione delle priorità dell'Unione in materia di sviluppo rurale e rispondano a specifiche esigenze riscontrate, in particolare per quanto riguarda: .... (d) le filiere corte” (articolo 8). ] (FONTE 8)[3]

[La Politica Agricola Comune, per il periodo 2014-2020, guarda alla filiera corta come elemento strategico, sia nell’ambito degli obiettivi generali di miglioramento della competitività e della redditività delle aziende agricole, sia nell’ambito degli incentivi all’organizzazione delle filiere agroalimentari nelle zone rurali anche con riferimento alla migliore integrazione degli agricoltori nella filiera.] (Davide Marino) [13]

Leggi italiane

[Il concetto di ‘filiera corta’ emerge solo a partire dal 2001 con il d.lg. n. 228/2001. Da allora le filiere corte sono state oggetto di attenzione da parte del legislatore, soprattutto per quello che riguarda tre principali tipologie: la vendita diretta in azienda, i mercati degli agricoltori, i gruppi di acquisto. Per quello che riguarda la vendita diretta, il d.leg. 228/2001 consente agli imprenditori agricoli di vendere direttamente al dettaglio, “...in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende...”. Con la legge finanziaria del 2007 (legge n. 296/2006) il legislatore ha agevolato la creazione di mercati agricoli riservati alla vendita diretta da parte degli imprenditori agricoli(FONTE 8)[3] (stabilendo che spetta ai comuni autorizzare i mercati agricoli che devono soddisfare determinati standard e promuovendo azioni di informazione per i consumatori sulle caratteristiche qualitative dei prodotti agricoli posti in vendita (2) FONTE 2)[4].

A livello regionale

Su questa base alcune regioni hanno sviluppato specifiche politiche di intervento. [In Toscana, ad esempio, nel 2007 nasce il Progetto "Filiera Corta", con contributi regionali a fondo perduto dell'80%.](FONTE 2)[4]. [La legge regionale della Liguria del 2012 regola i farmers’ markets (L.R. 30/04/2012, n. 19). Il legislatore si è occupato anche dei gruppi di acquisto solidali. La legge finanziaria del 2007 (legge 24 dicembre 2007, n. 244) ne introduce una definizione, per equipararli ad attività non commerciale e pertanto ad esentarli da eventuali obblighi fiscali (Cristiani, 2008). Successivamente, alcune regioni hanno introdotto misure specifiche di sostegno a questi gruppi. In particolare, l’Umbria (L.R. 10/02/2011, n. 1), la Calabria (L.R. 18/07/2011, n. 23) e la Puglia (L.R. 13/12/2012, n. 43). A segnare l’evoluzione della materia, la legge della provincia autonoma di Trento include i gruppi di acquisto solidale definiti ai sensi della legge 2007 tra i “soggetti impegnati nell’economia solidale” (art. 2 comma 3 L.P. 17/06/2010, n. 13).](FONTE 8)[3]

Obiettivi futuri: filiere corte come strumento di politiche per la sostenibilità

[Le filiere corte sono oggi viste come un fattore di innovazione e di riequilibrio dell’intero sistema, in competizione ma non necessariamente in opposizione ad altre configurazioni. In primo luogo, uscendo da un circuito ‘alternativo’ le filiere corte saranno sempre di più tenute a dimostrare l’effettivo livello di sostenibilità, anche nel confronto con le filiere lunghe. In secondo luogo, alle filiere corte potrebbe essere richiesto di contribuire in modo sostanziale al consolidamento dei sistemi alimentari urbani. Sotto questo aspetto, molto dipenderà da come si orienterà il quadro di policy.](FONTE 6)[8]

[Nella filiera corta il tema dell’accesso al cibo è legato in maniera innovativa alla sostenibilità dei sistemi alimentari e territoriali. Gli schemi di filiera si propongono, di conseguenza, l’obiettivo di costruire un sistema di approvvigionamento alimentare alternativo con obiettivi di sostenibilità e democrazia alimentare, che garantisca l’accesso ad alimenti sostenibili, sotto il punto di vista ambientale, sociale ed economico.]FONTE 7 [12] [Le iniziative di filiera corta possono contribuire ad un obiettivo: la transizione dei sistemi alimentari verso la sostenibilità. A tal fine sembra necessario un ammodernamento nelle politiche in materia degli strumenti di analisi, ed una maggiore flessibilità dei meccanismi di supporto e dei criteri di selezione delle misure.](fonte 8)[3]

Evoluzione della filiera corta

  • Visti l'evoluzione dell'industria alimentare e il cambiamento degli stili di vita e di consumo, gli agricoltori hanno da principio identificato nelle filiere corte una sorta di 'resistenza' dalla globalizzazione del sistema alimentare. [3](FONTE 8). In quella fase, la filiera corta rappresentava per i piccoli agricoltori uno strumento per la riappropriazione di quote di valore aggiunto che nel corso della modernizzazione erano state erose dai soggetti forti della filiera. (fonte 6)[8][Attraverso una maggiore prossimità con i consumatori, gli agricoltori possono sviluppare strategie autonome di marketing basate non solo sulla prossimità, ma anche sulla trasmissione di valori ‘alternativi’ incorporati nel prodotto, come la sostenibilità, la biodiversità, la tradizione culturale, la solidarietà.) (FONTE 8)[3]
  • [Progressivamente, le filiere corte sono apparse come una delle molteplici forme dei cosiddetti ‘Networks alimentari alternativi’ (Alternative Food Networks) (Renting et al., 2000), canali commerciali appropriati alla commercializzazione di prodotti differenziati ad alto valore aggiunto, in grado di remunerare meglio l’azienda familiare e al tempo stesso comunicare ai consumatori valori – la cultura rurale, il rapporto con la natura - che i sistemi convenzionali non erano in grado o non volevano comunicare. Dallo studio delle filiere corte come ‘resistenza contadina’, in altre parole, si è passati a studiare le filiere corte come esempio di nuovi paradigmi di sviluppo agricolo (Van der Ploeg et al., 2000).
  • quando queste tematiche hanno acquisito influenza sul quadro politico, di fronte alla crescente sensibilità dei consumatori nei confronti del cibo, il sistema convenzionale è andato modificando i propri modelli di business, accogliendo la sfida della qualità e diversità, in molti casi incorporando messaggi e modelli organizzativi introdotti dalla filiera corta. In questa fase, la filiera corta viene interpretata come ‘nicchia di innovazione’, capace di introdurre in un sistema altrimenti bloccato dal paradigma della modernizzazione elementi di innovazione dal basso, e dunque potenziale oggetto di politiche di sostegno finalizzate all’innovazione di sistema. Non è un caso che il sostegno alla filiera corta sia, nel più recente quadro strategico per lo sviluppo rurale, esplicitamente menzionata tra le possibili priorità dei piani di sviluppo rurale. Grazie agli strumenti dello sviluppo rurale, la filiera corta è diventata parte di strategie regionali di costruzione di sistemi alimentari locali le cui finalità rispecchiano le condizioni specifiche del contesto di riferimento, come il rafforzamento delle identità locali in sinergia con i sistemi turistici, o il consolidamento dei legami tra città e campagna attraverso la rilocalizzazione dei consumi.] (FONTE 6)[8]

Vantaggi e limiti della filiera corta

I vantaggi della filiera corta consistono nella sostenibilità di questa modalità di vendita dai diversi punti di vista:

  • economico: prezzi dei beni alimentari più contenuti per gli acquirenti e più remunerativi per i produttori. Non si possono tuttavia rascurare alcuni elementi in contrasto. Ad esempio si deve tener conto del fatto che non sempre a livello locale i prezzi dei prodotti scambiati nell'ambito della filiera corta, sono più bassi per i consumatori di quelli offerti dalle grandi catene che operano con notevoli economie di scala nella filiera lunga.
  • ambientale: riduzione dei consumi energetici e dell'inquinamento legato al trasporto e alla frigo-conservazione; e produzione biologica. In relazione alla sostenibilità ambientale, c'è tuttavia un filone scientifico che ha un atteggiamento critico riguardo ai vantaggi dell'offerta a chilometro zero. Infatti ciò che si deve considerare nella valutazione della sostenibilità non è soltanto il costo ambientale del trasporto, ma tutti i costi comparati ambientali delle produzioni ottenute e commercializzate da differenti tipologie di imprese nelle diverse parti del globo. [Accorciare la filiera può fornire risposte positive all'esigenza di produrre più cibo con una maggiore efficienza nell'uso delle risorse? non Sembra scontato che la filiera corta possa dare risposte positive a tutti i fenomeni ambientali;  ad esempio, recenti calcoli della Lincoln University dimostrano che la Carbon footprint dell’Agnello prodotto in Nuova Zelanda e consumato in Inghilterra  è decisamente Inferiore a quella della produzione inglese, pur tenendo Conto dei trasporti. D'altra parte il contatto diretto tra produzione e consumo potrebbe avere un impatto positivo nella riduzione della quota di cibo che resta invenduta punto la valutazione ambientale deve quindi incorporare, oltre al concetto di foodmiles, Anche altri aspetti che vanno dalla biodiversità al paesaggio, e che al tempo stesso tengano conto dei flussi del risorse.](Davide Marino, Clara Cicatiello)
  • sociale: controllo diretto del prezzo e della qualità da parte dei consumatori, maggiore freschezza dei prodotti, rapporto di fiducia e scambio di informazioni senza intermediari tra produttori e consumatori, circuiti di sviluppo rurale in aree marginali. Inoltre la filiera corta può innescare processi di sviluppo sia in aree rurali marginali dei Paesi sviluppati, sia nel contesto locale di Paesi sottosviluppati, opponendosi a fenomeni di progressivo impoverimento, sia di risorse naturali che di risorse umane.

La filiera corta non costituisce la soluzione più indicata per tutti i problemi, e in determinati contesti, dove non trova la sua naturale collocazione, risulta meno efficiente della filiera lunga. In generale essa risulta particolarmente idonea a risolvere le difficoltà di aziende di piccole dimensioni, multifunzionali, che offrono prodotti di nicchia (locali tipici e/o biologici). Appare invece poco adeguata in tutte le situazioni in cui prevalgono le dimensioni d’impresa medio grandi e si creano economie di scala di tipo economico ed ecologico, quando l'offerta aziendale è specializzata e costituisce una consistente massa critica di prodotto che può trovare maggiore facilità di sbocco in un mercato più ampio di quello locale. In queste situazioni può risultare più vantaggiosa la filiera lunga.[8]

Note

Bibliografia

  • Laura Angela Ceriotti, Food strategy e multifunzionalità nella filiera corta del riso, Novara, Interlinea, 2015, ISBN 978-88-6857-041-5.
  • Davide Marino, Agricoltura urbana e filiere corte. Un quadro della realtà italiana, Milano, Franco Angeli, 2017.
  • Davide Marino, Clara Cicatiello, I farmers' market: la mano visibile del mercato. Aspetti economici, sociali e ambientali delle filiere corte, Milano, Franco Angeli, 2012.

Collegamenti esterni

Voci correlate