Riccardo Fedel (Gorizia, 23 agosto 1906Romagna, maggio/giugno 1944) è stato un partigiano italiano.

Confinato politico, antifascista, sottufficiale del Regio Esercito, dall'8 settembre 1943 partigiano con lo pseudonimo di Libero Riccardi (Libero); dall'inizio di dicembre 1943 alla fine di marzo del 1944 Comandante della Brigata Garibaldi Romagnola (poi rinominata 8^ Brigata Garibaldi); ucciso da una fazione di partigiani romagnoli in circostanze poco chiare con l'accusa (secondo alcune fonti ingiustificata) di diserzione, furto, connivenza col nemico e tentata insubordinazione [1]. Da anni, sul personaggio, è vivo un dibattito tra "colpevolisti" e "innocentisti".

Biografia

1906-1925: fanciullezza e adolescenza

Riccardo, Giovanni Battista Fedel nasce a Gorizia (in terre all'epoca austriache) il 24 agosto 1906. Il Regno d'Italia è nato da appena 45 anni. Trento e Trieste sono Terre Irredente. E’ Re d'Italia da appena 6 anni il 37enne Vittorio Emanuele III, succeduto al padre Umberto I, ucciso a Monza nel 1900 da un anarchico. La madre è Augusta Bedolo, figlia di un patriota veneziano, tal Giovan Battista Bedolo, e di Clorinda Bousquet (di origini alto-borghesi italo-franco-alsaziane). Il fratello di Augusta, zio di Riccardo, tal Carlo Bedolo, si laurea in ingengeria mineraria ed emigra in Sud America (con alterna fortuna). Augusta è paraplegica a causa, probabilmente, della poliomielite contratta nell'infanzia. A Gorizia fa amicizia con un certo Biagio Fedel, istriano, di professione vinaio. Si sposano. Hanno due figli: Riccardo e, nel 1908, Anna. Nel 1912, Biagio cerca di raggiungere il cognato Carlo in Sud America, ma muore nel viaggio verso Buenos Aires. Riccardo rimane quindi orfano di padre a 6 anni [2]. Nel 1913 la famiglia, composta dalla nonna materna Clorinda Bousquet, dalla madre Augusta -paraplegica, e dalla sorella minore Anna (di 4 anni), si trasferisce da Gorizia a Milano. Nel 1915, quando Riccardo ha 9 anni da compiere, l’Italia entra in Guerra contro l’Austria (ma non contro la Germania) il XXIV maggio. Essendo originari di Gorizia (ed essendo quindi cittadini di etnia italiana dell’Impero austro-ungarico), sempre nel 1915, ottengono lo status di rifugiati a Milano, dove si tratterranno fino al 1920. Nel frattempo, Riccardo, dopo la licenza elementare conseguita a Milano, frequenta l'istituto tecnico in un collegio maschile di Tortona. Nel gennaio del 1920 i Fedel passano da Milano a Mestre, presso la villa del Conte Gustavo Soranzo, marito della prozia di Riccardo, sorella della nonna Bousquet. Riccardo frequenta Mestre solo durante le vacanze. È in uno di questi periodi di vacanza, alla fine del 1920, che l'adolescente Riccardo, a 14 anni, si iscrive ai Fasci italiani di combattimento di Mestre[3]. Già nel 1923, a 17 anni, Riccardo cambierà idea, diventando comunista.

1925-1943: maturità

Riccardo Fedel fu sorvegliato ininterrottamente come comunista pericoloso per vent’anni, dal 1924 al 1943. Arrestato come sospetto, condannato a 6 mesi di carcere (con accuse strumentali) e poi -appena approvate le leggi fascistissime- a 3 anni di confino perché sospettato di aver cospirato contro il regime fascista in relazione ai primi due attentati a Mussolini (Zaniboni e Gibson), e comunque perché considerato elemento capace di organizzare attentati contro il Duce. Subisce il confino politico a Pantelleria dal 22 novembre 1926 al 16 marzo 1927 e poi a Ustica fino al 9 ottobre 1927, data nella quale viene liberato condizionalmente per le sue condizioni di salute [4]. Tornato in Veneto, dove risiedeva la famiglia, viene assunto come confidente della Milizia per la Sicurezza Nazionale (MVSN), e inviato in servizio a Gorizia. Dopo una settimana, i responsabili della MVSN ne denunciano la malafede e lo rinviano a Mestre, "licenziandolo". A Mestre, "spacciandosi per agente della Milizia" Riccardo organizza una curiosa manovra: fa stampare a dei fascisti con cui era entrato in contatto dei manifestini che inneggiano allo sciopero dei tessili di Pordenone e, spacciandosi anche a Pordenone come agente della Milizia, li distribuisce. In conseguenza di questa azione, viene nuovamente condannato al confino come "comunista pericolosissimo" per 3 anni. La manovra di cui si è detto, è stata interpretata da alcune fonti (quali il Calendario del Popolo) come l'azione di un informatore che viola le direttive di organizzare provocazioni [5]. Dalla lettura della sentenza della commmissione del confino, risulterebbe invece il sospetto, da parte fascista, che Riccardo Fedel sia un agente provocatore del Partito Comunista. In ogni caso, l'effetto è il confino politico in provincia di Potenza, dove rimane (con alcune ‘pause’ carcerarie: 6 mesi a Potenza e 14 mesi ad Avellino, per tentata fuga) dal 16 maggio 1928 sino al 1930, quando viene trasferito –come ulteriore misura punitiva- alle isole Tremiti, ove termina di scontare il periodo di confino il 30 settembre 1931. Nel dopoguerra, proprio sulla base dei citati rapporti con la MVSN, il suo nome fu inserito nelle liste dei collaboratori dell'OVRA, dal quale, su ricorso della madre, sarà cancellato con decisione regolarmente pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 5 marzo 1948, con la motivazione di "non esser stato assunto a confidente dell'OVRA". [6].

Dal confino lucano, si sposerà, per procura, con Anita Piovesan, figlia di un sindacalista anarco-socialista di Mestre (autore dello Statuto del sindacato dei panificatori), che potrà così raggiungerlo e fargli compagnia per qualche mese. Tornato in Veneto, inizia una vita da sorvegliato politico tra Milano e Mestre, con un breve periodo trascorso anche a Roma, cercando dapprima di sottrarsi alla sorveglianza (sconta 6 mesi di carcere a Brescia per contraffazione di documenti) e poi di fare una vita ritirata, in considerazione dei desideri della moglie e dei bisogni della famiglia. Grazie alla sua abilità di grafico, riesce a mantenere dignitosamente la famiglia.

Nel 1940, all’entrata in guerra dell’Italia, torna all’attività politica, con modalità e spirito però più maturo e strutturato degli anni giovanili, divenendo animatore di un gruppo di propaganda antifascista operante, nelle fabbriche e nelle caserme, tra Mestre, Padova e Treviso. Pur sorvegliato, riesce ad esercitare la propria attività con abilità cospirativa, evitando l'arresto. Nel 1941 viene richiamato sotto le armi (aveva conseguito il grado di sergente già nel 1924 durante il servizio di leva), ma rimane in Italia presso il distretto di Mestre potendo quindi continuare nell’attività di propaganda. Nel 1942 parte per il Montenegro destinato al 120° RGT Fanteria della Divisione Emilia, lasciando a Mogliano Veneto (TV) la famiglia composta dalla moglie e dai tre figli maschi. Ad Herzeg Novi, alle Bocche di Cattaro, conoscerà Arrigo Boldrini (Bulow), con il quale prenderà poi contatto, prima della fine di settembre del ’43, per proseguire nella sua attività di combattente già iniziata a Mestre, tra l’8 e il 12 settembre, ove, in collaborazione con altri compagni, aiuta numerosi soldati italiani a sfuggire alla deportazione nei treni piombati. Il 13 settembre, venuto a conoscenza dei combattimenti in corso presso Gorizia, si aggrega a quelle formazioni partigiane, partecipando ai combattimenti della nota Brigata proletaria, sino allo sbandamento, avvenuto già attorno al 18.

Con alcuni compagni, decide nel mese di settembre di recarsi a Ravenna, per contattare Boldrini ed altri compagni conosciuti nella divisione Emilia, con i quali si augura di poter continuare la lotta. Destinato ad Alfonsine (RA) per la preparazione dei volontari destinati alla montagna, dopo qualche settimana costituisce un gruppo partigiano inizialmente formato da 6 elementi (noto come "gruppo Libero"). Il 9 novembre 1943 il gruppo inizia l’attività partigiana spostandosi nell’Appennino faentino con il compito di riunire gli eventuali isolati e i piccoli nuclei partigiani della zona.

1943-1944: la Brigata Garibaldi Romagnola (8^ Brigata Garibaldi)

Attorno al 20 novembre, in seguito ad un’azione che “brucia” la sua copertura, Libero riceve l’ordine dal Comitato militare di pianura del PCI romagnolo di trasferirsi nell’Appennino forlivese, ad ovest di Galeata (28 novembre 1943), per organizzare, in veste di comandante, la neocostituita Brigata Garibaldi Romagnola, congiungendosi con il gruppo partigiano già lì presente e sino a quel momento guidato da Salvatore Auria. Nel giro di pochi mesi, il distaccamento passò da 40 a oltre 1.000 uomini effettuando dal dicembre 1943 al marzo 1944 numerose azioni di guerriglia costituendo anche, agli inizi di febbraio, una "repubblica partigiana" nella zona di Corniolo, esperienza che si protrasse per circa un mese, dando vita al cosiddetto "dipartimento del Corniolo". A gennaio, il capo del Comitato Militare Romagnolo, Antonio Carini (Orsi) sale in montagna per verificare la situazione della Brigata. Secondo quanto riportato da Tabarri nel suo "Rapporto generale", la gestione della Brigata appare in contrasto con le disposizioni del FN. Per esempio, pare che solo in seguito ad animate discussioni con Orsi, Libero accetti di sostituire la stella rossa del berretto dei partigiani con la coccarda tricolore [7]. A fine gennaio, Orsi è raggiunto da "Lino" (Angelo Guerra) che, sempre secondo quanto racconta Tabarri, registrerebbe in un rapporto come vi siano "deficienze come la mancanza di commissari e quindi del lavoro politico (...) Per Libero vien detto che è stato ricondotto ad accettare la linea direttrice del Partito e del FN e che accanto a difetti innegabili ha anche delle qualità per cui è possibile utilizzarlo. Ma bisogna inviargli un buon commissario."[8]. In pratica, sembra che Libero cercasse di dare alla Brigata una struttura fatta di reparti regolari o comunque molto numerosi, che contava di poter armare grazie a degli aviolanci concordati con alcuni generali inglesi rifugiatisi presso la Brigata (aviolanci che, peraltro, furono effettivamente effettuati nel corso del rastrellamento che colpì la Brigata ad aprile del '44). Tanto che Libero, dopo il 9 febbraio del 1944 "emanò addirittura bandi di chiamata alle armi per le classi 1923-24-25, in contrapposizione a quelli della Repubblica Sociale Italiana" [9].

Tale fatto suscitò la reazione del Comando di Pianura che considerava tale atto contrario alle direttive impartite, non tanto per la chiamata in sé quanto perché "comminava pene severissime ai renitenti"[10], invece di rimanere "nell'ambito del volontariato" [11]. "Venne quindi inviato alla formazione, con poteri discrezionali Ilario Tabarri" [12]. Il 22 marzo 1944 Ilario Tabarri (Pietro Mauri), esponente del partito comunista locale e nuovo capo del Comitato[13], sale in montagna e comunica a Libero che -su ordine del Comitato di pianura- avrebbe dovuto lasciare a lui il comando. A seguito di discussioni di tipo strategico e politico (oltre al fatto che la popolarità del Comandante Libero tra gli uomini suggeriva l'adozione di soluzioni non traumatiche), il 27 marzo viene deciso di trasformare la Brigata - forte di più di mille uomini - nel "Gruppo Brigate romagnole" (in pratica, una Divisione costituita da 3 Brigate), con Pietro Comandante e Libero Capo di Stato Maggiore. Libero venne autorizzato dal Comando a raggiungere la Toscana per contattare dei partigiani desiderosi di costituire una nuova Brigata. Il 3 e 5 aprile ebbero luogo nella zona appenninica degli aviolanci da parte degli alleati (precedentemente concordati con Libero): è in questa occasione che Libero, secondo quanto affermato da Tabarri nel suo "rapporto generale", si appropriato, informandone Tabarri, di uno dei due milioni di lire inviati dagli Alleati. Tabarri reagì inviando un gruppo di partigiani per recuperare il denaro ed esortare Libero a ritornare alla base per incontrarsi con lui, ottenendone però un rifiuto[14].

Di lì ad una settimana, un vasto e prolungato rastrellamento nazifascista produceva il disfacimento della Brigata (i. e. del costituendo "Gruppo Brigate romagnole"), mentre di Libero si perderà ogni traccia[15].

A rastrellamenti esauriti e dopo la riorganizzazione delle forze partigiane avvenuta ai primi di maggio del '44 [16], Tabarri invierà in pianura (giugno 1944) un "rapporto generale"[17], secondo alcune fonti autoapologetico[18], nel quale egli muove a Libero gravi accuse. Già prima, durante i rastrellamenti, Pietro aveva inviato in pianura il commissario politico della Brigata, da lui nominato, Savio (Luigi Fuschini), per riferire al comando di pianura delle difficoltà in cui versava la Brigata e dei motivi e delle circostanze che avevano portato alla rimozione di Libero dal Comando: ed infatti Boldrini registra nel suo Diario di Bulow in data 27 aprile 1944: "(...) Intanto Savio ci raggiunge. Dalla sua informazione risulta che si sono costituite, alla fine di marzo, tre brigate (...). Non è stato facile sostituire Libero che comandava con metodi autoritari. Il comando del gruppo 'brigate romagnole' è stato assunto da Pietro (...) capo di stato maggiore Libero (...). Dalle notizie che ci fornisce Savio, sembra che Libero abbia in passato trattato col nemico per una tregua concordata e che sia scappato prelevando alcuni fondi. Rimaniamo costernati. È il primo caso di un così alto tradimento!". Accuse alle quali Libero non poté replicare personalmente. Peraltro, sempre nel suo "diario" Bulow annota in data 11 maggio 1944: "(...) raggiungo 'casa Spada d'Oro' per discutere di Zita -la compagna che convive con Libero- e del comportamento di Libero. Apprendiamo dai compagni (...) che Libero è transitato in bicicletta per raggiungere il Ferrarese o il Veneto. (...) Dopo lunga e animata discussione, convinciamo Zita a mettersi in contatto con Libero per un suo ritorno al comando dell'8a Brigata. Speriamo che le cose procedano come abbiamo deciso.". Libero era stato rintracciato ed imprigionato a Cervia, per essere sottoposto ad un interrogatorio "stringente e duro", come indica Angelo Giovannetti (Il Moro), il quale in una lettera osservava che "la polizia lo cerca e, se cadesse nelle sue mani, sarebbe un serio pericolo per l'organizzazione; con questo elemento bisogna andarci molto cauti come con la dinamite..."[19].

Libero fu giustiziato. Tuttavia, il suo corpo non sarà mai ritrovato e Riccardo Fedel sarà ufficialmente dato per disperso. Nel 1945, dopo la Liberazione, Bulow affermerà in una lettera alla famiglia di Riccardo Fedel di non avere più avuto notizie sulla sua sorte, dopo la primavera del '44, riconfermando i suoi sentimenti di amicizia verso Libero[20]. È solo nel dopoguerra che Ilario Tabarri dichiarerà di aver comminato una sentenza di morte nei suoi confronti per diserzione e disobbedienza[21].

A proposito di Libero, Dino Mengozzi [22] afferma che "si è forse eccessivamente insistito, nel passato, su incapacità e deficienze del comandante di quella prima formazione per spiegare la disgregazione delle forze partigiane verificatasi in aprile. Pare più accettabile (...) l'ipotesi che vada messo l'accento sull'importanza delle retrovie romagnole per il Comando tedesco. Con tutta probabilità, a ciò si deve la notevole mobilitazione di uomini e mezzi militari per tenerle sgombre".

Dibattito aperto

Sul personaggio è ancora vivo un dibattito tra "colpevolisti" e "innocentisti", alimentato da ultimo dal saggio di Giampaolo Pansa "I gendarmi della memoria". Dibattito che, spesso condotto con fini di polemica politica, rischia a volte di far perdere di vista la verità storica.

Secondo alcune fonti, le accuse mosse nei confronti di Libero da Tabarri (Pietro) sarebbero da considerarsi false e costruite a posteriori (così ad es. Natale Graziani; Giampaolo Pansa ed altri ex partigiani della Brigata quali il comandante Umberto Fusaroli Casadei, scomparso nel 2008) per giustificarne "la purga". Altre fonti (sito web dell'Istituto Storico della Resistenza ravennate o pubblicazioni dell'ISR forlivese), in apparenza neutrali, si limitano a registrare le divergenze al comando tra i due personaggi, sottolineando come il dibattito interno alla Resistenza su come portare avanti la lotta fosse, all'epoca, la normalità: dividendosi i pareri tra la necessità di una guerra di popolo (cui si ispirava, probabilmente, Libero) e la necessità di una guerra di guerriglia e sabotaggio (cui si ispirava, stando alle sue parole, Pietro). Altre fonti ancora[23] sostengono senz'altro la versione "colpevolista", considerando la versione di Tabarri sui fatti del tutto credibile, suffragandola con fatti precedenti che si assumono collegati con quelli successivi: la presunta collaborazione di Riccardo Fedel col regime fascista risalente alla fine degli anni '20 (nonostante, come detto, la collaborazione col regime sia stata dichiarata in giudizio inesistente sin dal 1948). Collaborazione che, inserendosi nel dibattito, Mimmo Franzinelli (in un articolo apparso su Il Sole 24 Ore intitolato "Fedel, né eroe né traditore")[24] ha definito "abborracciata" e "viziata (...) con provocazioni sgradite persino al capo della polizia Bocchini, che difatti riassegna Fedel al confino e lo mantiene nell'elenco dei sovversivi, in quanto 'giovane esaltato' (...) incapace di 'serio ravvedimento'"[25]. Nel dibattito si è inserita direttamente anche la famiglia di Riccardo Fedel che, in risposta ad un articolo di Maria R. Calderoni, che su Liberazione [26] riprendeva -con intento anti-Pansa- quanto sostenuto dal Calendario del Popolo, ha ottenuto che la stessa Calderoni, il 24 aprile 2008, in un articolo dal titolo "Riccardo Fedel, una complessa, contraddittoria vicenda che ha bisogno di essere ancora indagata, forse" rendesse noto che "i (...) familiari (...), addolorati e offesi (...) hanno inviato (una lettera che) accompagna una voluminosa documentazione sulla innocenza del loro congiunto(...). Nella loro lettera impugnano la validità della sentenza emanata da un tribunale partigiano, giudicata praticamente un falso, costruito ad hoc e in data posteriore; contestano gli elenchi dell'Ovra; sottolineano i due provvedimenti di confino subito dal congiunto in quanto 'pericoloso elemento comunista'; accusano il 'Calendario' di manipolazione. E vorrebbero che l'Anpi nazionale promovesse la riapertura del crudele caso Fedel, approfondendo tutte le carte, nessuna esclusa (...)". La Calderoni chiude l'articolo affermando che "La contraddittoria vicenda di Riccardo ha bisogno di essere ancora indagata, forse. Pietà non è morta".

Al di là delle polemiche citate, di certo v'è che "l'antagonista" di Riccardo Fedel, Ilario Tabarri - nell'immediatezza degli eventi, nel giugno del 1944- ebbe l'opportunità di muovere a Libero (prima tramite Savio e poi nel suo "rapporto generale") accuse molto gravi, quando verosimilmente Libero era già stato ucciso. Documento che, secondo Pansa, di per sè, può essere letto come una "confessione". Va comunque registrato che nessun altro documento dell’attività della Brigata Garibaldi Romagnola è sopravvissuto al rastrellamento dell'aprile 1944, cosa che Tabarri si premura di far sapere già nel suo Rapporto generale; e che sarà egli stesso a curare, nel dopoguerra, l’archiviazione dei documenti della Brigata depositati all’Istituto Storico Provinciale della Resistenza di Forlì[27]. Tale lacuna non aveva, finora, consentito di giudicare l'operato di Libero al comando della Brigata alla luce di documenti storici "neutrali". Oggi però, sulla base di quanto ci dicono le fonti d'archivio tedesche e fasciste dell'epoca, finalmente consultabili, sembra certo che Libero non fosse un collaboratore del fronte nazifascista, dal quale era anzi considerato un grave pericolo da eliminare appena possibile[28].

Il dibattito e la ricerca storica sul personaggio e la sua vicenda (anche pre-resistenziale) stanno comunque, tuttora, proseguendo e la sua figura appare, in un certo senso, paradigmatica di tutto un periodo storico.

Note

  1. ^ Secondo quanto riportato in una lettera di Ilario Tabarri alla sorella di Riccardo Fedel del 1948, nella quale è citata una "sentenza" sulla cui reale esistenza alcuni studiosi hanno avanzato dubbi
  2. ^ mentre l’Italia diventa una "potenza coloniale" in Libia
  3. ^ Sono i giorni dell’azione di D’Annunzio a Fiume e dell’articolo di Mussolini sul POPOLO D’ITALIA sull’Accordo di Rapallo, che ne determina il clamoroso arresto. In proposito si veda: Renzo DE FELICE, Mussolini il Rivoluzionario 1883-1920, Torino (Einaudi), 1965, p. 645 e ss.
  4. ^ Quaderni dell'Anppia, "Antifascisti nel Casellario Politico Centrale", vol. 8, Anppia 1992, p. 109.
  5. ^ Mauro Canali, "Le spie del regime", Il Mulino, 2004, pag.163.
  6. ^ Mimmo Franzinelli, "I tentacoli dell'OVRA", Bollati Borighieri, 1999, p. 659. Cancellazione tutt'ora non citata in alcune fonti "colpevoliste" (qual è Flamigni-Marzocchi, "Resistenza in Romagna" o, ma solo per rinvio all'opera citata, Claudio Pavone, "Una guerra civile")
  7. ^ Flamigni-Marzocchi, Resistenza in Romagna, p. 166
  8. ^ "Rapporto Generale del comandante dell'8a Brigata" in ISR Forlì - L'8a Brigata Garibaldi nella Resistenza, p. 56
  9. ^ Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, alla voce Romagna, Brigata, vol. V, p. 240
  10. ^ "Rapporto Generale del comandante dell'8a Brigata" in ISR Forlì - L'8a Brigata Garibaldi nella Resistenza, p. 56
  11. ^ "Rapporto Generale" cit., p. 57
  12. ^ Enciclopedia cit., p. 240
  13. ^ Il Comitato militare romagnolo era, all'epoca, composto dai soli Pietro e Bulow (Arrigo Boldrini), giacché il loro capo, Orsi, era stato trucidato dai nazifascisti poche settimane prima (esattamente il 6 marzo); c'è da dire però che Bulow è sempre più impegnato sul fronte ravennate, lasciando, di fatto, Pietro da solo al comando.
  14. ^ Per le numerose e non sempre collimanti fonti si veda la nota 31 in N. Graziani, "Il comandante Libero Riccardi (...)", in Studi Romagnoli, LV (2004), p.283.
  15. ^ Solo 60 anni dopo si saprà che, prima di dirigersi in Toscana, era passato in Veneto per incontrare la famiglia per poi ritornare nell'area ravennate.
  16. ^ La formazione di montagna venne rinominata 8^ Brigata Garibaldi 'Romagna' mantenendo al suo comando Pietro.
  17. ^ Reperibile anche presso ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE IN ITALIA – ISTITUTO GRAMSCI, a cura di Giampiero CAROCCI e Gaetano GRASSI, Le Brigate Garibaldi nella Resistenza, 3 voll., Feltrinelli, 1979
  18. ^ Il rapporto dell'ufficiale di collegamento del CUMER, inviando il documento al comando generale a Milano, afferma "In queste pagine si nota con tutta evidenza la preoccupazione del comandante della divisione di dare una spiegazione al crollo delle sue formazioni (...) Queste 'cronache', dove affiora in qua e in là uno spirito di autodifesa, ci danno però tutta una serie di insegnamenti", rep. in INSMLI-Istituto Gramsci, a cura di Carocci-Grassi, cit. vol I, p. 419
  19. ^ Lettera al C.M.P. datata presumibilmente 21 maggio 1944, cit. in Luigi Martini, Le Ville Unite e il Distaccamento Settimio Garavini, Edizioni del Girasole, Ravenna, 1995, p. 55 e s.
  20. ^ Cit. in N. Graziani, op. cit.
  21. ^ La circostanza della accusa di diserzione mossa a Libero venne registrata per la prima volta nel 1969 da Sergio Flamigni nel suo "Resistenza in Romagna", pur senza espliciti riferimenti alla citata sentenza.
  22. ^ in "L'8.a Brigata Garibaldi nella Resistenza", cit., vol. I, p. 19
  23. ^ Davide Spagnoli, Pansa riabilita il "partigiano" spia dei fascisti, in Il Calendario del Popolo, N° 727, Febbraio 2008, pp. 4-10
  24. ^ Il Sole 24 Ore di Domenica 30 marzo 2008, N. 88, "Storia e Storie", pag. 42
  25. ^ L'articolo di Franzinelli è stato parzialmente contestato dalla famiglia Fedel che, su Il Sole 24 Ore di domenica 11 maggio 2008 ha ottenuto che fosse pubblicata una rettifica
  26. ^ Liberazione, anno XVII, n. 55, mercoledì 5 marzo 2008, p. 13
  27. ^ Luciano Marzocchi nella prefazione a "ISR-Forlì, L'8.a Brigata Garibaldi nella Resistenza cit.", vol. I, p. 13
  28. ^ N. Graziani, op. cit.

Bibliografia

Saggi e romanzi

  • AA.VV., "Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza", La Pietra, 1968, vol. V, p. 240 e ss.
  • Maurizio Balestra, "L'8.a Brigata Garibaldi «Romagna», in "Studi Romagnoli", Società di Studi Romagnoli, 2005
  • Arrigo Boldrini, "Diario di Bulow", Vangelista, 1985.
  • Ennio Bonali-Dino Mengozzi, a cura di, "La Romagna e i generali inglesi", Franco Angeli, 1982
  • Mauro Canali, "Le spie del regime", il Mulino, 2004. p. 163 e p. 562
  • Cesare De Simone, "Gli anni di Bulow", Mursia, 1996.
  • Sergio Flamigni-Luciano Marzocchi, "Resistenza in Romagna", La Pietra, 1969.
  • Mimmo Franzinelli, "I tentacoli dell'Ovra", Bollati Boringhieri, 1999-2000.
  • Mauro Galleni, "Ciao, russi", Marsilio, 2001, p. 93 e ss.
  • Gianni Giadresco, "Guerra in Romagna 1943-1945", Il Monogramma, 2004.
  • Natale Graziani, "Il comandante Libero Riccardi capo della Resistenza armata nella Romagna appenninica", in "Studi Romagnoli", LV, Società di Studi Romagnoli, 2004, p. 243 e ss.
  • Istituto Storico Provinciale della Resistenza - Forlì, "L'8.a Brigata Garibaldi nella Resistenza" - 2 voll., La Pietra, 1981.
  • Istituto Storico della Resistenza di Ravenna, a cura di Luciano Casali, "Il Movimento di Liberazione a Ravenna" (Catalogo N.2: 1943/1945, dattiloscritti e manoscritti), Ravegnana, 1965, p. 339.
  • Giampaolo Pansa, "I gendarmi della memoria", Sperling & Kupfer, 2007, p. 429 e ss.
  • Claudio Pavone, "Una guerra civile", Bollati Boringhieri, 1991-1994.
  • Quaderni dell'ANPPIA, "Antifascisti nel casellario politico centrale", 8° vol., 1992.
  • Tigre (Terzo Larice), a cura di Maurizio Balestra, "Diario e ricordi del II Bataglione", Tosca, 1997
    • Silvia Di Natale, L'ombra del cerro, Feltrinelli, 2005 (romanzo ispirato alla storia di Libero e dell'ottava Brigata)

Articoli di Stampa

  • Q.C., "Il partigiano Libero un comunista scomodo", in "Avvenire", anno XXV, del 1/2/1992, p. 13
  • Davide Spagnoli, "Pansa riabilita il 'partigiano' spia dei fascisti", in Il Calendario del Popolo, anno 64°, n. 727, Febbraio 2008, p. 4 e ss.
  • Maria R. Calderoni, "La tremenda storia di Riccardo Fedel", in Liberazione, anno XVIII, n. 55 del 5/3/2008, p. 13
  • Mimmo Franzinelli, "Fedel, né eroe né traditore", in Il Sole 24 Ore, anno 144°, n. 88 del 30/3/2008, p. 42
  • E.M.(Enrico Mannucci), "Polemiche Storiche: Quante interpretazioni per Fedel", in Corriere della Sera Magazine n. 15 del 10/4/2008, p. 38
  • Maria R. Calderoni, "Riccardo Fedel, una complessa contraddittoria vicenda che ha bisogno di essere ancora indagata, forse", in Liberazione, anno XVIII, n. 98 del 24/4/2008, p. 23
  • Giorgio Fedel-Nicola Fedel-Alberto Fedel, "La fama di Fedel", in Il Sole 24 Ore, anno 144°, n. 129 del 11/5/2008, p. 40
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