Palazzo Bonet

palazzo storico di Palermo
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Probabilmente perché considerata minore la fabbrica non è stata oggetto di molti studi né di particolare attenzione da parte degli studiosi. La storiografia tradizionale si limita a riferire l’ubicazione dell’edificio, il nome e la provenienza del suo proprietario; Vincenzo Di Giovanni cita i Bonet tra le famiglie di qualità di Palermo e traccia brevemente il profilo della famiglia: Bonetta, da Catalogna. Sono stati capitani e senatori […]La loro casa è cognita alla Misericordia. L’armi sono un’arpa d’oro in campo azzolo . Il Meli è in assoluto quello che fornisce le indicazioni più significative sull’origine della fabbrica, con elementi certi sulla sua storia. A ciò si aggiunge il fortunato reperimento di due atti notarili fondamentali, che individuano il capo mastro e il lapicida della fabbrica, confermando la filiazione di palazzo Abatellis dal prototipo di palazzo Bonet. . Nella prima metà del Quattrocento, con il subentrare della dominazione aragonese, Palermo rappresentò il centro più importante dell’isola; alla tradizione architettonica locale, ancora legata alle forme arabe, sveve e chiaramontane si affiancarono quelle provenienti dall’Italia peninsulare e dalla Penisola iberica, fra cui emersero i maestri lapicidi provenienti dalla Lombardia. Questi, oltre ad una grande abilità manuale, portarono elementi propri dei loro luoghi d’origine di gusto tardo-gotico, non tralasciando di introdurre temi rinascimentali: due correnti principali si sovrapposero così alla tradizione locale, la componente catalana e quella lombarda, che coesisteranno senza fondersi durante tutto il XV secolo, dando luogo ad un raffinato eclettismo linguistico, e solo alla fine del XV secolo Matteo Carnilivari riuscì a sintetizzare lessici così differenti e complessi. La presenza di maestranze provenienti dall’area lombarda si evince chiaramente dagli archivi palermitani: fu proprio un maestro lombardo, Nicolò Longobardo a realizzare il palazzo Bonet; egli rappresentò un personaggio per nulla secondario, se rivestì la carica di console della Corporazione dei marmorari e dei fabbricatori. Anche le maestranze ispaniche importarono in città modelli tipologici, caratteristiche architettonico-costruttive ed elementi decorativi della loro area d’origine, ma riteniamo che maggiormente responsabile dell’uso e della diffusione del gusto ispanico sia stata la facoltosa committenza, rappresentata da mercanti e dignitari di corte spagnoli o vicini alla corona, che imposero il modello dei palazzi della Catalogna. Costoro contribuirono al forte impulso edificatorio e all’espansione della zona nord–orientale della città e di quella in prossimità dell’area portuale, a ridosso del Piano della Marina; la nuova classe dirigente aveva necessità di autorappresentarsi e di affermare il proprio prestigio, secondo modi e forme familiari, tanto che G. Bellafiore parla di κοινή aragonese . Negli anni Ottanta del XV secolo Gaspare Bonet, ricco mercante catalano, decide di far realizzare la sua domus magna nella contrada della Guzzetta, poi quartiere dei Lattarini. Non conosciamo la data esatta dell’inizio della costruzione e, purtroppo, non è stato trovato il capitolato d’appalto; tuttavia, dai documenti rinvenuti, abbiamo certezza che nel 1488 i lavori erano già in corso. I documenti non ci danno altresì elementi utili a comprendere in che modo siano stati accorpati fra loro più edifici preesistenti; il cantiere di restauro ci aiuta a ritenere che diversificati corpi di case vennero acquisite ed accorpate, di cui rimasero superstiti quegli elementi ritenuti di pregio, quali i portali ancora rintracciabili nel corpo orientale del palazzo. Il primo ed unico documento relativo all’edificazione della fabbrica risulta il contratto datato 10 aprile 1488 stipulato tra lo scultore Andrea Mancino, discepolo di Domenico Gagini, e il fabricator Nicolò Longobardo per la realizzazione di tutte le opere d’intaglio di pietra e marmo, necessari al completamento del palazzo. In particolare, nel documento lo scultore Mancino avrebbe dovuto realizzare “duas fenestras ad colunnam cum li chimi spizzati”  : un terminale della ghiera di cornice aggettante intagliata ed una colonnina in marmo di Carrara sono stati ritrovati nel corso dei restauri, oltre ad altre finestre alla “catalana” costituenti aperture del piano terra e caratterizzate dal raffinato decoro. Nel 1490 la residenza signorile doveva essere ben definita nei volumi principali e nei dettagli, come si desume dall’atto di obbligazione tra Matteo Carnelivari e Francesco Abatellis , già citato, in cui l’Abatellis richiedeva per la sua dimora un paramento lapideo de lapide attestata, sicut sunt fatiate anteriores domus nobilis Gasparis Bonet e delle finestre con imposte e sedili sicut sunt in fenestris domus dicti Gasparis Bonet . Nel 1525 la casa magnatizia doveva essere già completato da tempo; a questa data risale, infatti, un reclamo inoltrato al Pretore e ai Giurati della città dai padroni della Chiesa della Misericordia, i nobili Opezinga, nei confronti di Geronimo Bonet, figlio di Gaspare, per una striscia di terra di proprietà della Chiesa di cui il nobile catalano voleva appropriarsi per allineare la recinzione del suo giardino alla fronte del palazzo. I ricorrenti ebbero la meglio e il Bonet dovette riportare tutto ad pristinum statum; nel 1549 la fabbrica viene concessa a cenzo ai Padri Gesuiti, che vi insediano la loro Casa Professa, ma nel 1551 Ottavio Bonet rientrò in possesso dell’immobile perché non soddisfatto del censo precedentemente stabilito. Simboli di una superiorità economica e di rango, le dimore che si realizzano nella seconda metà del XV secolo a Palermo presentano elementi comuni: fronti architettoniche chiuse e inespugnabili nella porzione basamentale, torre angolare, grandi bifore al piano nobile, coronamento merlato, androne voltato che immette in un cortile interno caratterizzato da un loggiato su un solo lato . Riguardo alla matrice tipologica, il palazzo Bonet annovera proprio le costanti “peculiari” dei palazzi quattrocenteschi: l’edificio si presenta come un blocco compatto i cui limiti spaziali sono sottolineati da cantonali in pietra viva; i merli di coronamento, la torre e la colonna con lo stemma araldico angolari costituiscono elementi diffusi e dall’unico significato, quello cioè di significare l’affermazione e il prestigio del proprietario e del suo casato. Il Villabianca citando nel suo Diario e nei suoi Opuscoli palermitani i palazzi e le chiese ancora caratterizzati –all’epoca della stesura dei suoi manoscritti- da merli, torri angolari e colonne alzate nelle cantonate, annoverava anche il convento di S. Anna la Misericordia, dal momento che l’antico nucleo di casa Bonet era già stato inglobato nella fabbrica monastica Il portale originario del palazzo risultava ben distinto rispetto alla porzione muraria basamentale, caratterizzata dall’alto zoccolo modanato e delimitata dalla cornice aggettante su cui poggiavano le bifore del piano nobile. Costituito da un grande arco ogivale, aveva un forte valore di ostentazione di forza e forse era completato da fastigio con le armi e i simboli araldici della famiglia. Al pari del coronamento merlato, simbolo di una architettura fortificata, spiccava nell’angolo la torre. Il piano terra presenta allo stato attuale sulla piazza e su strada aperture rettangolari caratterizzate da cornici e delicate decorazioni scultoree che testimoniano la continua presenza degli scalpellini e dei maestri lapicidi per tutta la durata del cantiere ; queste illuminavano dall’alto i locali adibiti a magazzini, stalle e cucine; tali finestre sostituirono presumibilmente originarie feritoie o piccole monofore trecentesche. Rileviamo come se in termini di impianto e caratteri tipologici la fabbrica testimonia uniformità a modelli precostituiti ed iterati, nel campo della decorazione si rintracciano invece elementi differenti ed originali, indici di quell’eclettismo e delle diverse matrici culturali appannaggio di maestranze operanti nei cantieri pubblici e privati. Il cortile centrale, dalla forma pseudo quadrangolare, si qualifica alla stregua di spazio interno determinante sia dal punto di vista distributivo che funzionale; ad esso si accede per mezzo di un andito e di un loggiato, quasi a voler segnalare il passaggio dall’esterno al cuore della casa in modo progressivo e filtrato: dal buio dell’androne alla penombra del porticato. Non è dato con precisione ubicare la sede della scala, giacché non è stata trovata alcuna traccia; l’ipotesi della presenza di una scala escuberta alla catalana viene in parte confutata dal mancato ritrovamento nel cortile di strutture fondali di tale collegamento verticale, anche se ciò appare anomalo perché elemento tipico dell’architettura palaziale del periodo risulta il sistema patio-loggia-scala-salone di rappresentanza. La loggia è contrassegnata da tre archi acuti impostati su pilastri ottagoni; riteniamo utile sottolineare come l’utilizzo dell’arco acuto avvicini la fabbrica più alla corrente lombarda goticheggiante che a quella catalana. L’arco depresso, utilizzato già a palazzo Speciale e a palazzo Marchesi, qui non viene riproposto. La pianta a “C” era come riferito chiusa nel lato libero dal muro di cinta di un giardino al quale si accedeva dal cortile; anche la presenza del giardino è per G. Bellafiore un elemento del lessico aragonese , rinvenuto anche nei palazzi napoletani e messinesi. Il piano nobile risulta invece caratterizzato da ampi saloni e da grandi bifore, queste ultime in pietra di intaglio dalla perfetta stereotomia, con esile colonnina centrale in marmo di Carrara; le foglioline alla base della colonna sono analoghe al motivo decorativo delle colonne del cortile di Palazzo Abatellis, ad ulteriore dimostrazione della derivazione di esso dal modello di riferimento costituito proprio dal palazzo Bonet. Quanto ai principali caratteri costruttivi, le strutture murarie sono realizzate con calcarenite conchiliare dalla cromia grigio-beige (i banchi più antichi), in conci abbozzatamente squadrati messi in opera con poca malta, mentre per i cantonali, i portali, le mostre di finestre ed altre aperture, gli elementi modanati, si utilizzarono conci di intaglio e con lavorazioni accessorie, gli orizzontamenti di piano erano costituiti da solai a doppio ordito decorati all’intradosso da pitture policrome.

Trasformazioni ed evoluzioni della fabbrica: da domus magna a complesso conventuale Secondo quanto riportato dal Verchiani, Ottavio Bonet donò il palazzo nel 1604 a Don Francesco Bologna; durante questo periodo riteniamo che la facies interna ed esterna dell’edificio restò immutata e che, invece, al possesso dei Bologna siano da attribuire la modifica delle bifore in grandi finestroni architravati, la decorazione dei solai lignei del piano nobile e, probabilmente, la prima mano di intonaco a rivestimento delle fronti in pietra a vista. Nel 1618, l’attiguo convento di S. Maria della Misericordia acquistò da D.a Girolama Bologna l’intero palazzo; gli ambienti vennero stimati dall’architetto del Senato Mariano Smiriglio e da un capo mastro delle fabbriche del Senato, tale Vincenzo Di Blasi, prima della stesura dell’atto di compravendita e secondo una consuetudine diffusa in città (relazione di consistenza utile a determinare il “giusto” prezzo o censo). Dalla descrizione dei corpi di fabbrica, desumiamo quale fosse la configurazione della fronte principale (sull’attuale via S. Anna) a quel momento, infatti si parla di tre porte grandi che corrispondono cioè una per l’intrata di ditta casa, l’altra intra la vanella della Correria (attuale vicolo dei Corrieri) et l’altra de lo medesimo giardino che corrisponde in detta vanella vicino la chiesa . Con l’acquisizione di casa Bonet e del suo giardino i Padri francescani poterono mettere in pratica i loro grandiosi programmi: fu possibile realizzare, infatti, il refettorio e il chiostro. Dal 1618 si diede avvio ad una consistente campagna di lavori di modifica, per adeguare il palazzo alle esigenze conventuali; sfortunatamente i documenti poco ci aiutano a ricostruire tali trasformazioni, ma i restauri colmano le lacune documentarie, fornendo utili deduzioni. Fra le modifiche degne di nota possono annoverarsi la realizzazione in copertura di un volume edilizio utile a costituire lo “stenditoio” del convento, caratterizzato da ampie archeggiature, la sopraelevazione della torre angolare convertita in campanile, l’eliminazione dei merli con l’abbassamento del solaio di copertura per ricavare una ulteriore elevazione; ancora, la chiusura delle grandi finestre in corrispondenza del piano nobile, sostituite da una serie di più piccole aperture, il tamponamento delle finestre a piano terra e l’apertura di porte di botteghe da concedere in affitto, oltre alla generale e diffusa frammentazione dei volumi interni, con l’introduzione di nuovi sistemi di divisori e di ulteriori orizzontamenti. Intorno alla metà del XVII secolo la costruzione del convento doveva essere già a buon punto, con il chiostro in fase di completamento, il grande scalone che avrebbe collegato la fabbrica conventuale al primigenio palazzo quasi ultimato. La percezione unitaria delle fronti, avvenne presumibilmente nel 1771, quando si decise di sopraelevare l’ala del convento sulla via S. Anna per realizzare un nuovo coro e nuovi dormitori per i frati; nell’ambito dell’unificazione funzionale dei due organismi architettonici, si inserisce la trasformazione della torre angolare del palazzo Bonet in campanile, così come ben documentato dalla pianta di Gaetano Lazzara del 1703. Dalla fine del XVIII secolo, l’edificio fu interessato da massicci interventi di sostituzione di brani murari nelle parti basamentali, come si può osservare dall’analisi della pezzatura e della natura geologica dei conci, oltre che dalla presenza di fori aventi inclinazione verso l’esterno nello spessore murario che lascerebbero in questo modo supporre l’impiego di sistemi di puntellamento. Il terremoto del marzo 1823 provocò gravi danni alla chiesa, tanto che il 27 luglio 1825 Francesco I autorizzava il convento ad ipotecare i beni di sua proprietà per la restaurazione delle fabbriche della chiesa del detto Convento . Circa eventuali danni al convento non si fa invece esplicito riferimento; tuttavia, la presenza di catene metalliche con testa filettata e piastre nervate in ghisa, di chiara matrice ottocentesca, farebbero ipotizzare consolidamenti eseguiti per fronteggiare i danni. Al XIX secolo, epoca di grande crisi finanziaria per i Francescani, dovrebbe risalire la creazione del piano ammezzato, che parcellizzava il corpo di fabbrica destinato un tempo ai locali di servizio del palazzo Bonet, per la realizzazione di appartamenti dapprima affittati e in seguito venduti a privati. Tutto ciò contribuì a determinare forti modifiche, soprattutto in facciata: si aprirono nuovi vani, si realizzarono balconi e sporti, senza alcuna regola di corrispondenza dei vuoti e senza alcun rispetto per la qualità estetica della preesistenza. L’insediamento nel 1818 nell’edificio delle Regie Scuole Normali, attraverso contratto di locazione con i religiosi, provocò radicali cambiamenti dell’assetto distributivo, di cui l’elemento più evidente fu costituito da una scala a struttura voltata in mattoni pieni -ubicata nel corpo settentrionale- che collegava il cortile al primo piano. Come è noto, con Regio Decreto del 7 luglio 1866 che sanciva la soppressione degli Ordini religiosi, gli edifici conventuali e le chiese della città passarono allo Stato, ed il convento da allora in poi fu adibito a varie destinazioni d’uso. Dal 1870 il secondo piano di Palazzo Bonet diventò quartiere delle Guardie Daziarie Municipali e Ufficio Amministrativo dei Dazi Comunali e del Saggio del Gas; l’8 Gennaio 1872 l’Amministrazione per il Fondo di Culto cedeva e consegnava al Comune di Palermo i locali dell’ex convento e la Chiesa di S. Anna per destinarli ad uffici. Alcuni ambienti di piano terra all’interno del chiostro furono riservati ai Bersaglieri Municipali-Guardie Daziarie. Risale invece 1878 l’utilizzo dei locali al primo piano quale sede del liceo classico Umberto I: tale circostanza determinò ulteriori e drastici cambiamenti nella distribuzione dei locali, sebbene gli stessi da tempo erano già stati destinati ad usi scolastici. Nel 1898 il Comune commissionava all’ing. Pietro Giordano il rilievo dell’intero complesso conventuale, che rappresentò una istantanea delle fabbriche alla fine di quel secolo; in particolare, tale rilievo ha consentito di individuare la presenza dell’ex stenditoio del convento e della scala per accedervi, dimostrando come risultasse errata la datazione agli anni Cinquanta . Il terremoto del 1968 colse le fabbriche durante una delle innumerevoli ristrutturazioni; gli edifici conventuali vennero dichiarati inagibili, probabilmente più per interessi economico-politici che per reali motivazioni di messa in sicurezza, poiché nessuna grave lesione o dissesto strutturale supportava tale provvedimento. Il complesso conventuale veniva abbandonato nell’aprile del 1996, data di inizio dei lavori di restauro. Questi curati dall'Ufficio del Centro Storico si basavano su una progettazzione della Società ITALTER s.p.a. Con l’amara consapevolezza dell’inadeguatezza delle indagini conoscitive preliminari al progetto effettuate, i lavori di restauro iniziarono nel 1996 avviando due fondamentali interventi: la dismissione dei recenti (anni 50)intonaci esterni, effettuata con le cautele del caso, e la demolizione delle evidenti superfetazioni non storicizzate che, oltre a compromettere la lettura dell’edificio, ne mutavano i comportamenti strutturali. A dirigere i Lavori furono chiamati gli architetti Mario Li Castri e Carmelo Bustinto e l'ing. Giuseppe Letizia. Si procedette quindi con celerità e determinazione ad acquisire quegli indispensabili elementi per ricostruire ulteriormente la genesi e l’evoluzione delle fabbriche: si stipulò una convenzione fra l’Ufficio del Centro Storico di Palermo ed il Dipartimento di Storia e Progetto della Facoltà di Architettura di Palermo finalizzata ad avviare una ricerca storico archivistica, eseguita dagli architetti S, Di Fede e F. Scaduto con il coordinamento scientifico della prof.ssa M. Giuffrè; in parallelo, il prof. Marco Rosario Nobile pubblicava una pianta della città di Palermo con veduta plano-assonometrica di eccezionale dettaglio, redatta da G. Lazzara nel 1703, conservata in un archivio spagnolo, già divulgata –comunque- da L. Dufour; infine, si rinveniva presso l’Archivio Storico Comunale il rilievo del Giordano del 15/6/1898. Si procedette, quindi, a redigere un nuovo rilievo geometrico-dimensionale del monumento, che consentisse la lettura degli spessori e delle giaciture murarie, oltre al rilievo materico-costruttivo che avrebbe invece indirizzato la classificazione degli apparecchi murari individuandone i materiali costitutivi, le tipologie costruttive, le dimensioni dei conci. Si passò quindi, a seguito della dismissione degli intonaci inconsistenti -eseguita in maniera selettiva al fine di leggere le stratigrafie successive- alla stesura di rilievi di dettaglio che consentissero un approfondimento anche tecnologico dei singoli elementi architettonici, efficaci a rappresentare -laddove necessario, anche ogni singolo concio- la tessitura muraria, per comprendere le relazioni tra le parti, gli interventi susseguitisi nel corso dei secoli, le condizioni di degrado. Inoltre, si attivò una campagna di test di pulitura ed interventi di protezione, utili per calibrare le lavorazioni da estendere all’intero manufatto, campionando opportunamente i singoli materiali ed componenti architettonici. L’attivazione del cantiere fece riscoprire anche il rifugio antiaereo –dimenticato- risalente al secondo conflitto mondiale, posto al di sotto della pavimentazione del chiostro e che le indagini geognostiche già redatte non avevano rilevato, provvedendo altresì ad una nuova campagna di saggi per ottenere una dettagliata conoscenza del terreno di fondazione, sia attraverso trivellazioni che tramite indagini soniche effettuate sulle murature. Soprattutto la dismissione degli intonaci e le indagini conoscitive sulle strutture murarie hanno consentito di riportare alla luce il partito architettonico di pregio appartenente all’antica facies della fabbrica rinascimentale. Il “cantiere della conoscenza” si rivelò così una fase imprescindibile di collazione di dati utili per nuovo indirizzo progettuale da mettere in atto, ben differente da quello in precedenza appaltato; in particolare, tale mutato atteggiamento fu motivato anche dal ritrovamento di alcune porzioni dell’originario Palazzo Bonet, che sinteticamente enumeriamo: - il loggiato su pilastri ottagoni con archi ogivali, che era stato tamponato e già comunque individuato dai precedenti progettisti; - l’accesso alla corte dal vicolo dei Corrieri descritto dai documenti d’archivio; - le bifore del piano nobile e, ritrovamento del tutto insperato, anche una delle snelle colonne in marmo di Carrara con capitello e base perfettamente integra e completa; - un portale con cornice archiacuta, di cui il progetto originario non teneva conto prevedendo la demolizione dell’edifico di appartenenza per la realizzazione di una palestra. Questo ed altri edifici elencali limitrofi, ai piani terra erano costituiti da una maglia chiusa di archi in pietra da taglio ed ai piani superiori risultavano parte integrante dell’impianto conventuale; la ricerca storica confermava la loro alienazione dalla proprietà francescana solo in tempi recenti, e pertanto passibili di recupero e valorizzazione; - le finestre “alla catalana” di piano terra con cornice a bastone e decorazione floreale; - le bifore del piano nobile “alla pisanisca” lungo la fronte settentrionale della corte, più piccole rispetto a quelle reperite sulle fronti esterne e l’arco a tutto centro in pietra da taglio utile ad uno degli accessi al piano terra; - l’apparecchio murario in pietra da taglio costituito da massicci cantonali che incorniciano campi murari con tessitura muraria di minore qualità materico-costruttiva; - un pregevole pavimento maiolicato in corrispondenza di un pianerottolo di disimpegno al di sotto della scala con struttura voltata di mattoni pieni, realizzata –come peraltro in precedenza precisato- alla fine dell’Ottocento per consentire l’accesso autonomo al liceo Umberto I; - ancora, l’andamento di alcune porzioni superstiti di cornice nelle murature che indicavano la giacitura di una scala che dalla corte del palazzo immetteva allo scalone che invece dal chiostro conduceva al primo piano del convento, come evidenziato e confermato dalla presenza di un portale in pietra da taglio. Questo ritrovamento e l’assenza di murature di fondazione di eventuali collegamenti verticali nella corte facevano ipotizzare che la scala seicentesca in realtà fosse stata realizzata sfruttando parzialmente una struttura precedente, giustificando altresì l’importanza del grande arco posto sulla fronte settentrionale della corte, che segna l’avvio dello scalone monumentale del palazzo. La rimozione selettiva dell’intonaco dello scalone, ha consentito di rinvenire altresì varie bucature di porte e finestre, che per tipologia e materiali sono attribuibili alla fabbrica rinascimentale; ciò confermerebbe l’ipotesi che lo scalone del convento fosse sorto laddove presumibilmente prima esisteva un vicolo di accesso al viridario del palazzo. Questa congettura spiegherebbe, inoltre, l’anomalia costituita da un lato del palazzo non ortogonale agli altri. Si potrebbe sempre ricondurre a tali considerazioni la presenza di una piccola bifora che al piano terra si apre in un angolo della corte, quasi come se un braccio del cortile fosse stato aggiunto successivamente. Purtroppo, l’esiguità dei riscontri documentari sulle prime fasi costruttive della fabbrica non ci consente di avere certezze sulla sua genesi edificatoria; tuttavia, l’osservazione attenta e diretta ha consentito di giungere alle considerazioni che di seguito si riportano. Il piano ammezzato risultava chiaramente una evidente superfetazione dei primi del secolo e interferiva con il sistema delle bucature rettangolari di matrice catalana che davano luce alta ai locali di piano terra. La monofora al piano nobile non costituiva poi “una originaria bifora” come riportato nella relazione storica a corredo del primo progetto redatto dall’ITALTER, bensì un originario accesso spostato e monumentalizzato probabilmente in tempi recenti, ipotesi suffragata dall’utilizzo di un profilato ad I quale architrave. Il terzo piano era -come dimostrato dai documenti d’archivio, dalla pianta del Lazzara e dal rilievo del Giordano- già esistente sin dai primi del XVIII secolo; la sua edificazione va collocata temporalmente all’epoca dell’accorpamento del palazzo al convento; circa la destinazione d’uso, esso era adibito a lavanderia e stenditoio coperto per i frati, ipotesi questa già sottolineata e confermata dal ritrovamento sul posto di un lavatoio scavato in un blocco di calcare. L’attenta lettura dei materiali e la potenzialità di ricerca che offre un cantiere di restauro ha inoltre consentito l’elaborazione della seguente ipotesi: - esistevano già delle case in parte dell’area su cui si costruì la dimora dei Bonet, probabilmente con accesso dal portale con soprastante ghiera rinvenuto nel corpo su vicolo dei Corrieri. I saggi geognostici hanno rilevato al di sotto di questa zona edificata la presenza di un banco di biocalcarenite superficiale, e quindi l’esistenza di aree non alluvionali, costituendo essa stessa il limite del bordo alluvionale del porto interno del Kemonia; - con i depositi alluvionali, a partire dall’XI secolo circa, il bordo del porto interno si ritira progressivamente sino a scomparire, dando vita al piano della Guzzetta; si rendono così disponibili nuove aree edificabili ed i Bonet -giunti in città al seguito degli Aragonesi - acquistano case e terreni liberi per costruirvi la loro domus magna, accorpando le unità edilizie esistenti o per acquisto diretto o tramite la nota ed utilizzata Prammatica di Re Martino. Gran parte dell’area viene destinata a giardino proprio per la fertilità dei terreni alluvionali; il terreno coltivabile risultava perimetrato da due attraversamenti pubblici, il vicolo su cui i Francescani erigeranno nel ‘600 lo scalone e l’attuale bordo occidentale del chiostro che, anche dopo la realizzazione dello stesso, mantiene ancora oggi l’uso pubblico; - la successiva evoluzione e trasformazione della fabbrica è nota attraverso i riscontri documentari e passa attraverso l’acquisizione del palazzo ai Francescani, con la trasformazione del viridario in chiostro, la saturazione del vicolo con lo scalone, la trasformazione della torre in campanile, la realizzazione della loggia stenditoio e le manomissioni ottocentesche precedentemente descritte ed enumerate.