Critica della ragion pratica
Nella Critica della ragion pratica Immanuel Kant conduce l'analisi (critica) della ragione quando è indirizzata alla pratica (all'azione, al comportamento).
L'opera fu pubblicata nel 1788 ed è preceduta dalla "Fondazione della metafisica dei costumi" (1785) e seguita dalla "Metafisica dei costumi" (1797). In questi tre scritti Kant espone la sua concezione della morale.
Come già nella Critica della ragion pura Kant si proponeva di mostrare come l'uomo conosce, potremo dire i "meccanismi" della conoscenza e non di indicare che cosa l'uomo conosce, così fa per la morale: egli vuole far capire in che consiste la morale, che cos'è la morale, non vuole definire quali comportamenti morali debba compiere l'uomo: il suo quindi è ancora una volta un discorso "formale", illustra la forma non il contenuto della morale.
Il debito con Rousseau
Kant stesso ci dice che per un certo tempo egli fu attratto dalle concezioni morali dei sentimentalisti inglesi che poi abbandonò insoddisfatto perché il loro metodo d'indagine si riduceva a una semplice analisi psicologica e per il loro eccessivo ottimismo non faceva loro prendere in considerazione quello che per Kant costituiva l'elemento essenziale della morale: l'obbligatorietà.
In apparenza vicino alle posizioni dei sentimentalisti appariva essere anche Rousseau che basava la morale sul sentimento, ma Kant capì che il sentimento di cui parlava Rousseau aveva un significato ben diverso, esso andava inteso come il sentimento della dignità umana. Rousseau cioè voleva dire che ciò che rende l'uomo degno di essere considerato tale è proprio il senso morale.
Come aveva fatto nei confronti di David Hume per la conoscenza così Kant riconobbe il suo debito nei riguardi di Rousseau: " Io sono uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell'umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. È Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita, ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l'umanità. " [2]
Viene quindi affermata l'indipendenza dell'atto morale dalla scienza e la sua irriducibilità al sentimento che non potrà mai essere confuso con la moralità. Il sentimento è qualcosa di impulsivo, debole, incostante su cui non può fare affidamento la morale: " una certa dolcezza d'animo che passa facilmente in un caldo senso di pietà, è cosa bella ed amabile, perché rivela una certa partecipazione alle vicende altrui...ma questo sentimento bonario è debole e cieco. "
Il dovere
La morale si deve basare su qualcosa di assolutamente certo e saldo: il dovere. Ogni uomo infatti sente in modo sicuro e consapevole la morale come un dovere. L'uomo, quello dotato di ragione sente di fronte a certe situazioni il dovere di una scelta a cui seguirà il comportamento morale. Anche gli esseri più malvagi, ma che ancora conservano la razionalità, sentiranno di doversi porre il problema della scelta morale, di come comportarsi. Questo è il momento che precede ogni reale azione morale. La morale quindi è un fatto di ragione. Ogni essere razionale ha la morale, sente la necessità, il dovere di scegliere.
Dovere quindi che non ha niente a che fare con gli schemi della causalità del mondo materiale, meccanicistico e deterministico. Il dovere riguarda solo la morale.
" Il dovere, quando si ha dinanzi il semplice corso della natura, non ha alcun senso. Noi non possiamo chiedere che cosa deve avvenire, come non possiamo chiedere quali proprietà deve avere il circolo: ma solo che cosa avviene e quali proprietà il circolo ha "
La necessità del mondo causale interverrà infatti quando tradurremo la scelta in comportamento morale.
Come essere razionale io non posso non considerare ad esempio che vi è sulla strada un uomo malridotto gettato in terra, questi è entrato nella sfera della mia razionalità e in quel momento io non posso non pormi il problema morale che è quello della scelta: "Devo o non devo soccorrere quest'uomo?". Qualunque sia la risposta a questa ineliminabile domanda la morale è apparsa. Anche se poi agissi in modo caritatevole o brutale su quell'uomo io ho posto in essere il dovere morale che non ha a che fare con il mondo della necessità materiale che interverrà con le sue leggi fisico-causali quando tradurrò in azione la mia scelta: avrò o meno la forza per sollevarlo, per aiutarlo? ma questo secondo momento non rientra più nella morale kantiana che non pretende di imporre comportamenti.
La libertà e l'obbligatorietà
La scelta, quindi, è assolutamente libera ed è espressione, come dice Kant, di una volontà pura nel senso che non vi rientra in nessun modo la materialità (che svolgerà il suo ruolo necessitante quando la morale è già apparsa, quando metterò in azione la mia volontà). Ma se la morale è dovere, quindi obbligatorietà come potrà questa conciliarsi con l'assoluta libertà formale della scelta? La risposta è nel concetto di autonomia. La morale dell'essere razionale è cioè tale che egli deve obbedire ad un comando (obbligatorietà) che egli stesso si è liberamente dato (libertà), conformemente alla sua stessa natura razionale.
L'uomo che decide in obbedienza al dovere morale di compiere una determinata azione sa che per quanto la sua decisione possa essere spiegata naturalisticamente, magari con motivazioni psicologiche, la vera sostanza della sua morale non risiede in questa concatenazione causale ma in una libertà che coincide con l'essenza razionale del suo essere [3].
L'uomo quindi è un essere che appartiene a due mondi: in quanto dotato di sensi appartiene a quello naturale, e per questo è sottoposto alle leggi causali; in quanto creatura razionale, però, l'uomo appartiene anche a quello che Kant chiama il mondo "intelligibile" o noumeno, cioè il mondo com'è in sé indipendentemente dalle nostre sensazioni o dai nostri legami conoscitivi, e perciò in esso egli è assolutamente libero (autonomo), di una libertà che manifesta nell'obbedienza alla legge morale, all'"imperativo categorico".
Gli imperativi categorici
La legge morale come imperativo categorico, un comando a cui non si può sfuggire, si distingue dall'"imperativo ipotetico" che consiste nel pronunciare un comando in vista del conseguimento di un fine. Gli imperativi ipotetici si possono riassumere nella formula: se vuoi A fai B; per esempio: "se vuoi andare in Paradiso obbedisci alla legge di Dio". Questo tipo di comandi configurano cioè un'ipotesi (se vuoi andare in Paradiso) la cui realizzazione é condizionata dal mettere in atto forzatamente un comportamento (obbedisci alla legge di Dio).
I caratteri dell'imperativo categorico invece sono tali per cui la sua imperatività:
- - non è condizionata da nulla; (l'obbedire non dipende dal voler andare in Paradiso)
- - vale per tutti gli uomini in tutte le condizioni; (nell'imperativo ipotetico dell'esempio questo valeva solo per chi crede nel Paradiso)
- - esprime una volontà pura, non condizionata empiristicamente (nell'imperativo ipotetico dell'esempio si metteva in atto la volontà di obbedire ma al fine di conseguire il Paradiso).
Quindi l'imperativo morale:
- - non è formulabile mediante regole particolari miranti a far compiere questa o quell'azione determinata connessa alle particolari condizioni storiche in cui vivono gli individui;
- - non potrà provenire da nessuna autorità esterna all'uomo. Se così fosse il comando morale varrebbe solo per chi riconoscesse quella autorità: verrebbe così a mancare il carattere di universalità.
Nell'ambito allora della morale formale che esclude tutte le morali contenutistiche, eteronome, che hanno il fondamento di sé nel conseguimento di un fine esterno, l'imperativo categorico kantiano è una legge morale che prescrive " come la volontà debba atteggiarsi, non quali singoli atti deve compiere
Il primo imperativo categorico dice:
- " Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale ".
Quando cioè ti trovi a compiere una determinata azione scegli come regola (massima), di chiederti sempre se quello che tu stai per fare possa essere condiviso da tutti. Se per esempio hai intenzione di suicidarti domandati cosa accadrebbe se questo tuo comportamento fosse seguito da tutti gli uomini.
Il secondo imperativo afferma:
- " Agisci in modo da trattare l'uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo ".
L'uomo non deve mai essere solo strumento di un'azione morale, il vero fine di ogni atto buono è l'uomo. È importante nel citare questa frase ricordarsi l'"anche" e il "solo": Kant non era un illuso e sapeva bene che molte delle relazioni interpersonali usano effettivamente l'uomo come mezzo (assegnare un lavoro ad un'altra persona è a tutti gli effetti usarla come "mezzo" in quanto questa viene assunta per fare qualcosa per noi). La frase va quindi interpretata alla luce della limitazione che Kant pone: usiamo pure l'uomo come mezzo, ma ricordandoci che è il fine di ogni atto buono e dandogli quindi la dignità che gli spetta. In virtù di questo, è giusto pagare un muratore affinché ci costruisca la casa ma è sbagliato mandare a morire un'altra persona per salvarci la pelle.
Il terzo imperativo categorico ricorda all'uomo che non basta limitarsi alla propria sfera individuale nel compiere azioni morali ma che ciò che si fa possa essere la prima pietra di un " regno della moralità ", che ciò che tu hai fatto sia da esempio e diventi legge per tutti gli altri:
- " Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale"
Analogia della pratica con la teoretica
Il carattere essenzialmente razionale della morale si rivela, secondo Kant, per la sua analogia per quanto riguarda la razionalità nel campo teoretico. Le azioni determinate dagli impulsi infatti egli ritiene che possano essere assimilate ai giudizi sintetici a posteriori. Qui la mia volontà è determinata da una oggettività rappresentata dalla mia sensibilità, da una mia spinta oggettivamente psicologica.
Le azioni invece dettate dalla ragione ma per fini egoistici (gli imperativi ipotetici) sono assimilabili ai giudizi analitici quelli per cui nel soggetto è già contenuto il predicato ("Il triangolo ha tre angoli"). Infatti nell'imperativo ipotetico ad es.: "Se vuoi diventare ricco devi agire in un determinato modo" , nell'analisi della ipotesi è già contenuta la conclusione.
L'imperativo categorico è infine analogo ai giudizi sintetici a priori per cui il suo comando è formale, non prescrive alcuna azione determinata ma nello stesso tempo è reale (trascendentale).
Il valore della metafisica
Ogni morale non può essere limitata nel conseguimento del bene. Non posso propormi di conseguire il bene fino ad un certo punto e non oltre. Il fine dell'azione morale quindi deve essere il " sommo bene" . Ma cosa s'intende per sommo bene?. Per alcuni semplicemente il sommo bene, inteso come il "il bene più alto", consiste nell'obbedire agli imperativi categorici.Prendendo come guida gli imperativi categorici ognuno quindi può raggiungere il sommo bene. Ma altri il sommo bene lo intendono come "il bene più completo" da raggiungere tramite una condizione prima: "la virtù" e una conseguenza necessaria: "la felicità".
Per realizzare il bene più completo, quello cioè che procuri quella felicità, irraggiungibile su questa terra, occorrerà allora credere che la propria esistenza possa proseguire all'infinito e che si raggiunga l'immortalità affinché si arrivi al massimo della virtù, alla santità e che ci sia un Essere divino in grado di assicurare una giusta proporzione tra la virtù raggiunta e la felicità da attribuire. Bisognerà cioè " postulare" per l'azione morale diretta al bene più completo che ci sia:
- un'anima immortale,
- che esista Dio
- e che si possa andare oltre il limite naturale, che l'azione di chi vuole raggiungere la santità sia infinita postulando cioè un'agire senza alcun condizionamento finito, come dire l'assoluta libertà, per chi opera in vista di quel fine.
Ecco quindi comparire come " postulati della ragion pratica " quelle che erano le tre idee della Ragione metafisica[4] che non trovavano spiegazione nella dialettica trascendentale e che dimostravano l'illusorietà e l'inganno della metafisica quando pretendeva di presentarsi come scienza. Ora quelle stesse idee fallaci sul piano teorico acquistano invece valore sul piano pratico, morale, divengono corollari della legge morale.
Alla base dei corollari della ragion pratica non vi è un " so " ma un " voglio ": " voglio che esista Dio, voglio che la mia esistenza in questo mondo sia anche un'esistenza nel mondo intelligibile, voglio che la mia durata sia senza fine. "
Se i postulati non potranno mai assumere il valore di un vero e proprio sapere nello stesso tempo però nessun progresso scientifico potrà mai metterli in dubbio, anzi è proprio la loro insostenibilità razionale che darà valore all'azione morale. Se l'immortalità dell'anima, l'esistenza di Dio fossero verità certe, come tali renderebbero impossibile ogni autentica azione morale. Se gli uomini praticassero il bene per paura di un castigo o per speranza di un bene e non per un dovere razionale connesso alla nostra stessa natura, la morale diverrebbe "eteronoma" [5] , perdendo ogni significato.
Note
- ^ La citazione è tratta dalla conclusione della Critica della ragion pratica: "Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di natura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito." (Critica della ragion pratica, Laterza Editore, Bari, 1966, pp. 201-202)
- ^ Questa e tutte le altre citazioni nella voce sono tratte da I.Kant, "Critica della Ragion pratica", Bari 1970)
- ^ [1] Sulla dicotomia tra mondo della morale e mondo naturale in Kant e nelle scienze biologiche, si veda quest'intervista a Giovanni Felice Azzone, compresa nella serie dell'Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche
- ^ L'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima, l'infinito
- ^ avrebbe cioè il suo valore non in se stessa ma in una legge a lei estranea com'è in tutte le morali delle religioni rivelate
Bibliografia essenziale
- Theodor W. Adorno: Probleme der Moralphilosophie. Frankfurt am Main 1996, ISBN 3-518-58225-9
(Adorno si occupa in questo corso di lezione del 1963 quasi esclusivamente della morale kantiana)
- Allison, Henry E., Kant's Theory of Freedom, Cambridge: University Press, 1990.
- B, Lewis W., A Commentary on Kant's Critique of Practical Reason, Chicago: University Press, 1960 [dt. 1974].
- Gonnelli Filippo, Guida alla lettura della “Critica della ragion pratica” di Kant, (Guide ai classici, 6), Roma; Bari: Laterza, 1999.
- O'Farrell Francis, Per leggere la Critica della Ragione pratica di Kant, Roma: PUG, 1990.