Lucio Anneo Seneca
Lucius Annaeus Seneca (spesso conosciuto semplicemente come Seneca, o Seneca il giovane) (4 a.C. circa - 65) fu filosofo, politico e drammaturgo dell'antica Roma.
Biografia
Le origini
Lucio Annéo Seneca, figlio di Seneca il Vecchio, nacque a Cordoba, capitale della Spagna Betica, una delle più antiche colonie romane fuori del territorio italico, in un anno di non certa determinazione; le possibili date attribuite dagli studiosi sono in genere tre: l'8 a.C., tra il 6 e il 4 a.C., l'1 a.C.: sono tutte ipotesi possibili che si fondano su vaghi accenni presenti in alcuni passi delle sue opere (in particolare De tranquillitate animi e Epistulae ad Lucilium). La famiglia di Seneca, gli Annei, ha origini antiche ed è Hispaniensis, cioè non originaria della Spagna, ma discendente da immigrati italici, trasferitisi nella Hispania Romana nel II secolo a.C., durante la fase iniziale della colonizzazione della nuova provincia. La città di Cordoba, la più famosa e grande di tutta la provincia, aveva assimilato fin dalle origini l'élite economica e intellettuale della popolazione italica; intensi erano i suoi rapporti con Roma e la cultura latina.
La figura paterna
Non si hanno notizie di esponenti della famiglia degli Annei coinvolti in attività pubbliche prima di Seneca Il padre del filosofo, Seneca il Vecchio, era di rango equestre come attesta Tacito negli Annales e autore di alcuni libri di Controversiae e di Suasoriae; scrisse anche un'opera storica che però è andata perduta. A Roma egli costituì il luogo ideale per realizzare le proprie ambizioni. Al fine di rendere più agile l'inserimento alla vita sociale e politica dei figli, si trasferì a Roma negli anni del principato di Augusto, dove si appassionò all'insegnamento dei retori e diventò assiduo delle sale di declamazione. Sposò in età abbastanza giovane una donna di nome Elvia da cui ebbe tre figli:
- il primogenito Lucio Anneo Novato, che prese il nome di Lucio Giunio Gallio Anneano dopo l'adozione da parte dell'oratore Giunio Gallio; intraprese la carriera senatoria e diventò proconsole sotto Claudio.
- il secondogenito Lucio Anneo Seneca
- il terzogenito Lucio Anneo Mela (padre del poeta Lucano), che si dedicò agli affari.
Lo stesso Seneca parla dei suoi fratelli:
La salute cagionevole
Seneca, fin dalla giovinezza, ebbe alcuni problemi di salute; era soggetto a svenimenti e attacchi d'asma che lo tormentarono per diversi anni e lo portarono a vivere momenti di disperazione, ricordandolo persino in una lettera:
E ancora:
La formazione presso la scuola del grammaticus
Seneca ricevette a Roma un'accurata istruzione retorica e letteraria, come voleva il padre, anche se egli si interessava più che altro di filosofia. Seguì quindi gli insegnamenti di un grammaticus e in seguito ricorderà del tempo perduto presso di lui (Epistulae ad Lucilium, 58,5). Egli non ebbe dunque interesse per la retorica, anche se questo tipo di formazione gli servirà per la sua esperienza futura di scrittore.
I maestri di filosofia
Ebbe come maestri di filosofia Sozione, Attalo e Papirio Fabiano, appartenenti rispettivamente al neopitagorismo, allo stoicismo e al cinismo. Sozione era legato alla setta dei Sestii, fondata da Quinto Sestio in età cesariana e diretta poi dal figlio Sestio, che raccogli elementi di varia provenienza, in particolare stoica e pitagorica, e raccomanda ai suoi adepti una vita semplice e morigerata, lontana dalla politica; Attalo fu seguace dello stoicismo con influenze ascetiche; Papirio Fabiano fu un oratore e un filosofo, appartenente alla setta dei Sestii, con influenze ciniche. Seneca seguì molto intensamente gli insegnamenti dei maestri, che esercitarono su di lui un profondo influsso sia con la parola che con la coerenza di una vita vissuta in coerenza degli ideali professati. Da Attalo impara i principi dello stoicismo e l'abitudine alle pratiche ascetiche. Da Sozione, oltre ad apprendere i principi delle dottrine di Pitagora, è avviato per qualche tempo verso la pratica vegetariana; venne distolto però dal padre che era preoccupato per la cagionevole salute del figlio e anche perché l'imperatore Tiberio non amava che fossero seguite pratiche di vita non romane:
Il soggiorno in Egitto
Negli anni 19 e 20 d.C. andò in Egitto, dove stette per diverso tempo, anche se non è possibile stabilire esattamente quanto a lungo. Vi andò per curare le crisi di asma e la bronchite ormai cronica da cui era afflitto. Fu ospite del procuratore Gaio Galerio, marito della sorella di sua madre Elvia. Qui approfondì la consoscenza del luogo sia nelle sue componenti geografiche che in quelle religiose, come racconta nel Naturales quaestiones (IV, 2, 1-8). Il contatto con la cultura egizia gli permise di confrontarsi con una diversa concezione della realtà politica (in Egitto il principe era ritenuto un dio) e gli offrì una più ampia e complessa visione religiosa.
Il cursus honorum
Carriera politica e forense
Il coinvolgimento negli intrighi di corte
La relegatio in Corsica
Il coinvolgimento con il principato di Nerone
Il ritorno a Roma
Seneca precettore di Nerone
L'allontanamento dalla politica imperiale
Gli ultimi anni
Nel 31, iniziò l'attività forense e la carriera politica, nel 41, l'imperatore Claudio lo condannò alla relegazione in Corsica con l'accusa di coinvolgimento nell'adulterio di Giulia Livilla, figlia minore di Germanico e sorella di Caligola (in realtà si voleva colpire l'opposizione politica).
In Corsica Seneca restò fino al 49, quando Agrippina, moglie di Claudio, riuscì a ottenere il suo ritorno dall'esilio e lo scelse come tutore del figlio di primo letto, il futuro imperatore Nerone. Affiancato da Afranio Burro, prefetto del pretorio, Seneca accompagnò l'ascesa al trono del giovane Nerone (54 - 68) e lo guidò durante il cosiddetto periodo del buon governo di Nerone, il quinquennio felice, ispirato a principi di equilibrio e di conciliazione fra i poteri del principe e del senato.
Progressivamente tale rapporto si deteriorò e, verso il 62, dopo la morte di Burro, con Nerone ormai avviato alla fase conclusiva del suo regno, Seneca, vista venir meno la sua influenza di consigliere politico, si ritirò gradualmente alla vita privata, dedicandosi ai suoi studi.
Inviso ormai e sospetto a Nerone e a Tigellino, nuovo prefetto del pretorio, Seneca fu coinvolto nella congiura di Pisone (aprile 65), di cui era forse solo al corrente, senza esserne partecipe e, nella repressione che la seguì, fu condannato a morte da Nerone e si tolse la vita. Si tagliò le vene, ma poiché il sangue, lento per la vecchiaia e il denutrimento, non defluiva, dovette ricorrere al veleno usato anche dal filosofo Socrate, la cicuta. Tuttavia la lenta emorragia non gli permise di deglutire; così, secondo la testimonianza di Tacito, si immerse in una vasca di acqua calda per favorire la perdita di sangue e raggiungere una morte lenta e straziante.
Centro della riflessione di Seneca è l'uomo e la sua possibilità di raggiungere la serenità e la libertà interiore attraverso il dominio della razionalità sulle passioni. L'elaborazione di un nuovo linguaggio dell'interiorità da lui compiuta fu fondamentale per il pensiero cristiano.
Le testimonianze
Lo stile
Il filosofo deve badare alla sostanza, non alle parole ricercate ed elaborate, che sono giustificate solo se, in virtù della loro efficacia espressiva, contribuiscono a fissare nella memoria e nello spirito un precetto o una norma morale. La prosa filosofica di Seneca è elaborata e complessa, caratterizzata dalla ricerca dell'effetto e dell'espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che, nella sua disposizione ipotattica, organizza anche la gerarchia logica interna, e sviluppa uno stile eminentemente paratattico, che, nell'intento di riprodurre la lingua parlata, frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi penetranti e sentenziose, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla ripetizione.
Tale prosa antitetica all'armonioso periodare ciceroniano, rivoluzionaria sul piano del gusto e destinata a esercitare grande influsso sulla prosa d'arte europea, affonda le sue radici nella retorica asiana procedendo con un ricercato gioco di parallelismi, opposizioni, ripetizioni, in un succedersi di brevi frasi nervose e staccate, realizzando uno stile penetrante, drammatico, ma che non sa evitare una certa teatralità.
Opere
I Dialogi
I trattati
Il De clementia
Il De clementia ("La clemenza") fu composto tra il 55 e il 56 e ci è giunto incompleto (non è chiaro se incompiuto o mutilo).
L'opera è indirizzata a Nerone, da poco divenuto imperatore, di cui Seneca elogia la moderazione e la clemenza, definita come la "moderazione d'animo di chi può vendicarsi o l'indulgenza nella scelta delle pene da parte di un superiore verso un suo sottoposto (temperantia animi in potestate ulciscendi vel lenitas superioris adversus inferiorem in constituendis poenis [3, 1]).
Il sovrano clemente, dice l'autore, dovrebbe comportarsi con i suoi sudditi come un padre con i figli. Seneca non mette in discussione il potere assoluto dell'imperatore, ed anzi lo legittima come un potere di origine divina. A Nerone il destino ha assegnato il compito di governare sui suoi sudditi, ed egli deve svolgere questo compito senza far sentire su di loro il peso del potere.
Questa tesi trova il supporto filosofico nella dottrina politica stoica, secondo cui la monarchia è la forma di governo migliore, all'unica condizione che il sovrano sia sapiente, e trattenendo i suoi sentimenti più violenti, sappia esercitare con temperanza il suo potere.
Le Naturales quaestiones
Template:Sectstub L'interesse scientifico coltivato da Seneca fin dall'età giovanile emerge chiaramente in quest'opera compilativa, risulato di un lungo lavoro di ricerca su fonti letterarie precedenti. L'approccio allo studio della natura viene d'altronde inteso dall'autore non nel più moderno punto di vista "sperimentale", bensì come una serie di dati già acquisiti e compendiati grazie ai quali il saggio può ricavare, dalla contemplazione dell'armonia panteistica dell'Universo, una riflessione morale finalizzata al distacco dalle passioni che agitano la moltitudine. Il proemio generale dell'opera si apre con un elogio alla pura conoscenza, non finalizzata alla morale pratica. Nell'enciclopedia scientifica delle Naturales Questiones la disposizione della materia segue i quattro elementi della fisica classica: Il fuoco e le sue manifestazioni nei libri I e II, l'acqua nel libro III e nella prima parte del libro IV, l'aria nella seconda parte del libro IV e nel libro V e la terra nel libro VI; il libro VII è, infine, dedicato alle comete.
Le Epistole a Lucilio: la lettera filosofica come genere letterario
Seneca, nella produzione successiva al ritiro dalla scena politica (62), volse la sua attenzione alla coscienza individuale. L'opera principale della sua produzione più tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae morales ad Lucilium, una raccolta di lettere di differente estensione (fino alle dimensioni di un trattato) e di vario argomento indirizzate all'amico Lucilio (personaggio di origini modeste, proveniente dalla Campania, assurto al rango equestre e a varie cariche politico-amministrative, di buona cultura, poeta e scrittore).
Verosimilmente si tratta di un epistolario reale (varie lettere richiamano quelle di Lucilio in risposta), integrato da lettere fittizie (quelle più ampie e sistematiche), inserite nella raccolta al momento della pubblicazione. L'opera, che è giunta incompleta e risale al periodo del disimpegno politico (62-63), costituisce un unicum nel panorama letterario e filosofico antico. L'idea di comporre lettere di carattere filosofico indirizzate ad amici viene da Platone e da Epicuro, ma Seneca è perfettamente consapevole di introdurre un nuovo genere nella cultura letteraria latina. Il filosofo distingue le lettere filosofiche dalla comune pratica epistolare, anche da quella di tradizione più illustre, rappresentata da Cicerone. Seneca prende come esempio Epicuro, il quale, nelle lettere agli amici, ha saputo realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio.
Le lettere di Seneca vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos dell'epistolografia antica, Seneca sostiene che lo scambio epistolare permette di istituire un colloquium con l'amico, fornendo un esempio di vita che, sul piano pedagogico, è più efficace dell'insegnamento dottrinale. Seneca, proponendo ogni volta un nuovo tema, semplice e di apprendimento immediato, alla meditazione dell'amico discepolo, lo guida al perfezionamento interiore (per lo stesso motivo, nei primi tre libri, Seneca conclude ogni lettera con una sentenza che offre uno spunto di meditazione).
Lo scrittore ritiene l'epistola lo strumento più adatto per la prima fase dell'educazione spirituale, fondata sull'acquisizione di alcuni principi basilari, più tardi, con l'accrescimento delle capacità analitiche del discente e del suo patrimonio dottrinale, sono necessari strumenti di conoscenza più impegnativi e complessi. La forma letteraria si adegua, quindi, ai diversi momenti del processo di formazione e le singole lettere, col procedere dell'epistolario, divengono sempre più simili al trattato filosofico.
Non meno importante dell'aspetto teorico è l'intento esortativo: Seneca vuole non solo dimostrare una verità, ma anche invitare al bene. Il genere epistolare si rivela appropriato ad accogliere un tipo di filosofia priva di sistematicità e incline alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, suggeriti per lo più dall'esperienza quotidiana, sono svariati, e nella varietà, nell'occasionalità e nel collegamento fra vita vissuta e riflessione morale, sono evidenti le affinità con la satira, soprattutto oraziana. Seneca parla delle norme cui il saggio si deve attenere, della sua indipendenza e autosufficienza, della sua indifferenza alle seduzioni mondane e del suo disprezzo per le opinioni correnti e propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, al perfezionamento interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui.
La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi lo porta ad esprimere una condanna del trattamento comunemente riservato agli schiavi, con accenti di intensa pietà che hanno fatto pensare al sentimento della carità cristiana: in realtà l'etica senecana resta profondamente aristocratica, e lo stoico che esprime pietà per gli schiavi maltrattati manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbrutite dagli spettacoli del circo. Nelle Epistole, l'otium è costante ricerca del bene, nella convinzione che le conquiste dello spirito possano giovare non solo agli amici impegnati nella ricerca della sapienza, ma anche agli altri, e che le Epistole possano esercitare il loro benefico influsso sulla posterità.
Le tragedie
Le tragedie ritenute autentiche sono nove (qualche dubbio sussiste per l' Hercules Oetaeus), tutte di soggetto mitologico greco.
- L'Hercules furens è costruito sul modello dell'Eracle euripideo: Giunone provoca la follia di Ercole, uccide moglie e figli. Una volta rinsavito, determinato a suicidarsi, egli si lascia distogliere dal suo proposito e si reca infine ad Atene a purificarsi.
- Le Troades è la contaminazione dei soggetti di due drammi euripidei, le Troiane e l'Ecuba. La tragedia rappresenta la sorte delle donne troiane prigioniere e impotenti dì fronte al sacrificio di Polissena, figlia di Priamo e del piccolo Astianatte, figlio di Ettore e Andromaca.
- Le Phoenissae è l'unica tragedia senecana incompleta, improntata sulle Fenicie di Euripide e sull'Edipo a Colono di Sofocle. La vicenda ruota attorno al tragico destino di Edipo e all'odio che divide i suoi figli Etèocle e Polinice.
- La Medea naturalmente si rifà a Euripide e forse anche a un'omonima, e fortunata, tragedia perduta di Ovidio. La tragedia narra la cupa vicenda della principessa della Colchide abbandonata da Giasone e assassina, per vendetta, dei figli avuti da lui.
- La Phaedra presuppone il celebre modello euripideo dell'Ippolito, di una tragedia perduta di Sofocle e della quarta delle Heroides ovidiane: tratta dell'incestuoso amore di Fedra per il figliastro Ippolito e del drammatico destino che si abbatte sul giovane, restio alle seduzioni della matrigna, la quale, per vendetta, ne provoca la morte denunciandolo al marito Teseo, padre di Ippolito.
- L'Oedipus, ispirato all'Edipo Re sofocleo, narra il mito tebano di Edipo, inconsapevole uccisore del padre Laio e sposo della madre Giocasta. Alla scoperta della tremenda verità egli reagisce accecandosi.
- L' Agamemnon, si ispira, assai liberamente, all'omonimo dramma di Eschilo. La tragedia rievoca l'assassinio del re, al ritorno da Troia, per mano della moglie Clitennestra e dell'amante Egisto.
- Il Thyestes rappresenta una vicenda mitica già trattata in opere perdute di Sofocle e di Euripide. Atreo animato da odio mortale per il fratello Tieste, che gli ha sedotto la sposa, si vendica con un finto banchetto di riconciliazione in cui imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli.
- Nell' Hercules Oetaeus (Ercole sull'Eta, il monte su cui si svolge l'evento culminante del dramma) modellato sulle Trachinie di Sofocle, è trattato il mito della gelosia di Deianira, che per riconquistare l'amore di Ercole innamoratosi di Iole, gli invia una tunica intrisa del sangue del centauro Nesso, creduto un filtro d'amore e in realtà dorato di potere mortale: tra dolori atroci Ercole si uccide ed è assunto fra gli dei.
Le tragedie di Seneca sono le sole opere tragiche latine pervenute in forma non frammentaria, costituiscono quindi una testimonianza preziosa sia di un intero genere letterario, sia della ripresa del teatro latino tragico, dopo i vani tentativi attuati dalla politica culturale augustea per promuovere una rinascita dell'attività teatrale. In età giulio-claudia (27 a.C.–68 d.C.) e nella prima età flavia (69–96) l'élite intellettuale senatoria ricorse al teatro tragico per esprimere la propria opposizione al regime (la tragedia latina riprende ed esalta un aspetto fondamentale in quella greca classica, ossia l'ispirazione repubblicana e l'esecrazione della tirannide). Non a caso, i tragediografi di età giulio-claudia e flaviana furono tutti personaggi di rilievo nella vita pubblica romana.
Le tragedie di Seneca erano, forse, destinate soprattutto alla lettura, il che poteva non escludere talora la rappresentazione scenica. La macchinosità o la truce spettacolarità di alcune scene sembrerebbero presupporre una rappresentazione scenica, mentre una semplice lettura avrebbe limitato, se non annullato, gli effetti ricercati dal testo drammatico. Le varie vicende tragiche si configurano come scontri di forze contrastanti e conflitto fra ragione e passione. Anche se nelle tragedie sono ripresi temi e motivi delle opere filosofiche, il teatro senecano non è solo un'illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica, sia perché resta forte la matrice specificamente letteraria, sia perché, nell'universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male.
Alle diverse vicende tragiche fa da sfondo una realtà dai toni cupi e atroci, conferendo al conflitto fra bene e male una dimensione cosmica e una portata universale. Un rilievo particolare ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere, chiuso alla moderazione e alla clemenza, tormentato dalla paura e dall'angoscia. Il despota offre lo spunto al dibattito etico sul potere, che è importantissimo nella riflessione di Seneca. Di quasi tutte le tragedie senecane, restano i modelli greci, nei confronti dei quali Seneca ha una grande autonomia che però presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale l'autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione nell'impianto drammatico.
Il linguaggio poetico delle tragedie ha origine nella poesia augustea (cospicua la presenza di Ovidio), dalla quale Seneca mutua anche le raffinate forme metriche, come il particolare tipo di senario, già adottato dal teatro tragico augusteo. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono soprattutto nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza alla frase sentenziosa, isolata, in netto rilievo, alimentata soprattutto dal gusto retorico del tempo.
La stessa tendenza si manifesta anche nella frammentazione dei dialoghi (un verso per ogni personaggio) ed in una costante influenza della retorica asiana, percepibile nella continua tensione, nell'enfasi declamatoria, nello sfoggio di greve erudizione nelle tinte fosche e macabre. Spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di lunghe digressioni, che alterano i tempi dello sviluppo scenico isolando singole scene come quadri autonomi, estraniati dal contesto della dinamica teatrale (forse "pezzi di bravura" destinati ad esser letti nelle sale di recitazione). Uno stile che costituisce un documento tra i più rappresentativi del gusto letterario contemporaneo.
Una decima tragedia, l'Octavia, rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone da lui ripudiata, perché innamorato di Poppea, e fatta uccidere. Sì tratta quindi di una tragedia di argomento romano, ossia una praetexta (l'unica rimasta), ma è certamente spuria, sia perché lo stesso Seneca vi compare come personaggio del dramma, sia perché la descrizione della morte di Nerone (avvenuta nel 68, tre anni dopo quella di Seneca), preannunciata dall'ombra di Agrippina, è troppo corrispondente alla realtà storica, inoltre l'autore, che mostra grande familiarità con l'intera produzione di Seneca, trasferire nella tragedia brani versificati tratti dalle opere filosofiche. L'Octavia quindi, fu scritta in un ambiente vicino a Seneca e pochi anni dopo la sua morte (70-80 d.C.).
Analisi e rappresentazione delle tragedie
Seneca mostra nelle sue tragedie il lato forse più sconosciuto della sua personalità, l’altra faccia di quel vir sapiens et bonus suicidatosi per la giusta causa della libertà, di quel saggio stoico che andava predicando l’imperturbabilità, la giustizia e il Bene.
La tragedia è un tipo di rappresentazione teatrale molto antico; l’etimologia del termine, trághos (‘capro’) e odé (‘canto’), rimanda al canto dei capri, ovvero al coro composto dai seguaci di Dioniso mascherati da capri. Si sappia che le fattezze caprine, ma soprattutto quelle dei satiri e dei fauni, vennero prese in prestito dall’iconografia paleocristiana per la rappresentazione del demonio.
Ritornando sui nostri passi, le tragedie senecane, spesso a sfondo mitico e con personaggi presi in prestito dalla tradizione mitica e tragediografa greca, si configurano infatti come uno studio oculato e preciso dei comportamenti umani, soprattutto per quanto riguarda le esperienze del Male e della morte. In esse Seneca parla infatti uccisioni (anche all’interno del gruppo familiare o a danno di amici), di incesti e di parricidi, di rituali di magia nera, di maledizioni e di predizioni quanto mai macabre, di cerimonie di sacrificio e di atrocità d’ogni genere, di crisi d’ira e di gesti incontrollabili, di atti di cannibalismo e di azioni nefaste, di insane passioni e di un uso folle e spregiudicato della violenza. Nelle tragedie senecane domina insomma incontrastato l’irrazionale e il Male.
A testimonianza di ciò si nota che Seneca non ricorre all’uso del deus ex machina (ovvero dell’entrata in scena, soprattutto sul finire dello spettacolo, di un dio ‘volante’, sostenuto per mezzo di una fune da un complesso sistema di carrucole: da qui appunto ex machina) per mezzo del quale solitamente si aveva la risoluzione pacifica del dramma (il lieto fine) oltre che la giustificazione del Male compiuto nell’azione. Questo perché le sue tragedie ci offrono uno spaccato di vita (chiamarla quotidiana sarebbe un po’ troppo azzardato) nella quale non c’è né rimedio né soluzione alle atrocità commesse. I personaggi sono, in questo senso, comunque condannati: ad esempio Fedra è inevitabilmente destinata al suicidio, in preda al rimorso per l’incesto col figliastro Ippolito. Prototipo maligno per eccellenza è però Medea, colei che invoca rabbiosa e vendicatrice le forze del Male per abbattere e distruggere ogni cosa in modo da rendersi giustizia, dopo essere stata ripudiata da Giasone che in cambio sposa Creusa.
Nelle tragedie di Seneca si assiste quindi ad un completo rovesciamento dei punti di vista, secondo cui ciò che apparirebbe naturalmente privo di senso, anomalo e degenerato, finisce per apparire del tutto normale, oltre che lecito. Le anime malate che egli rappresenta sembrano inoltre aver perduto una volta per sempre il senno, ovvero la ragione, senza la quale il mondo sembra essere diventato preda di ombre e di mostri in completa balìa del Male e delle forze dell’inferno.
L'Apokolokyntosis
Il Ludus de morte Claudii (o Divi Claudii apotheosis per saturam) è generalmente noto col nome di Apokolokyntosis, (parola che implicherebbe un riferimento a kolòkynta, cioè la zucca, forse come emblema di stupidità) parodia della divinizzazione di Claudio decretata dal senato alla sua morte. Nel testo senecano non si parla di zucche e l'apoteosi non ha luogo, il termine va inteso non come "trasformazione in zucca", ma come "deificazione di una zucca, di uno zuccone". Tacito (Annales XIII 3) afferma che Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell'imperatore morto (pronunciata da Nerone), però, in occasione della divinizzazione di Claudio, che aveva suscitato le ironie degli stessi ambienti di corte e dell'opinione pubblica, potrebbe aver dato sarcastico sfogo al risentimento contro l'imperatore che lo aveva condannato all'esilio (l'opera sarebbe del 54).
Il componimento narra la morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto fra gli dei, i quali lo condannano invece a discendere, come tutti i mortali, agli inferi, dove egli finisce schiavo del nipote Caligola e da ultimo viene assegnato al liberto Menandro: una condanna di contrappasso per chi aveva fama di esser vissuto in mano dei suoi potenti liberti. Allo scherno per l'imperatore defunto Seneca contrappone, all'inizio dell'opera, parole di elogio per il suo successore, preconizzando nel nuovo principato un'età di splendore e di rinnovamento. L'opera rientra nel genere della satira menippea (così detta da Menippo di Gàdara, vissuto nel III secolo a.C., l'iniziatore di questa forma, carica di valenze polemiche), e alterna perciò prosa e versi di vario tipo, in un impasto linguistico e stilistico che accosta i toni piani delle parti prosastiche a quelli spesso parodicamente solenni delle parti metriche, con beffarde incursioni nel lessico volgare.
Gli epigrammi
Sotto il nome di Seneca, sono state trasmesse anche alcune decine di epigrammi in distici, quasi certamente spuri.
Opere perdute
Numerose sono le opere perdute: una biografia del padre, numerose orazioni, trattati di carattere fisico, geografico, etnografico, opere filosofiche (fra cui i Moralis philosophiae libri, cui accenna più volte egli stesso), altre opere sono di dubbia attribuzione o sicuramente spurie: fra queste il caso più noto è quello della corrispondenza fra Seneca e San Paolo, leggenda che contribuì ad alimentare la fortuna di Seneca nel Medioevo.
Bibliografia
Per una guida esaustiva della bibliografia senecana, si rimanda semplicemente alla recente e ricca rassegna (6006 titoli) contenuta in
- Bibliografia senecana del XX secolo, a cura di Ermanno Malaspina, Bologna, Pàtron, 2005.
Voci correlate
Collegamenti esterni
- Wikisource contiene una pagina dedicata a Lucio Anneo Seneca
- Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Lucio Anneo Seneca
- Wikiquote contiene citazioni in lingua italiano di o su Lucio Anneo Seneca
- Wikiquote contiene citazioni in lingua latino di o su Lucio Anneo Seneca
- Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Lucio Anneo Seneca
- Opere in latino
- Edizioni su Seneca del Progetto Gutenberg, vedi: http://www.gutenberg.org/browse/authors/s#a1308
- Saggio sulle tragedie di Seneca
- Opere Di Lucio Anneo Seneca, testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza