Full Metal Jacket
Full Metal Jacket è un film di Stanley Kubrick, ispirato al romanzo The Short-Timers di Gustav Harsford, un ex-marine e corrispondente di guerra, che ha collaborato alla sceneggiatura. Secondo Kubrick l'opera di Harsford è un "un libro molto breve, scritto splendidamente in modo molto conciso".
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Durata | 116' |
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"Signore, Texas Signore."
"Strano io ho sempre saputo che nel Texas ci nascono solo tori e checche, soldato Cowboy. Tu l'aria del toro non ce l'hai neanche un pò e quindi il cerchio si restringe!"»
Il film, che ha come sfondo la guerra in Vietnam, è diviso in due parti nettamente distinte: la prima ha come tema l'addestramento militare, mentre la seconda ci mostra i soldati in guerra.
Uno dei temi del film è l'odio tra gli uomini e il disprezzo della vita che lega tra di loro i personaggi del film: solo chi rinnega la propria ragione l'ha vinta in un mondo alquanto "arretrato".
Il Vietnam che non c'è
Full Metal Jacket (il titolo si riferisce alla guaina di rame con cui sono blindati i proiettili) esce negli Stati Uniti il 26 giugno 1987 e sembra essere, sulla scia dei suoi predecessori, ad appena un anno di distanza dal pluripremiato Platoon di Oliver Stone, un altro film sul Vietnam. In realtà la pellicola di Kubrick è un film di guerra atipico, poiché, come ha scritto Sandro Bernardi, "il Vietnam da questo film è sparito"; la guerra è visibile in forma estremamente concentrata solo nella seconda parte dell'opera, in cui viene rappresentata anti-epicamente, al di fuori dell'iconografia cinematografica classica (cui nel 1958 si conforma anche, parzialmente, l'altro film di guerra di Kubrick, Orizzonti di gloria) che la vuole in primo piano.
Full Metal Jacket, rispetto ai precedenti film di guerra, e in modo particolare rispetto a tutti quelli sul coinvolgimento americano in Vietnam, è un film sulla psicologia della follia, sulla psicoticità della natura umana, ed è, in rapporto al modo ormai consolidato di fare cinema da parte di Kubrick, contrassegnato da quel "gusto per la sorpresa e per il cambiamento", in cui Michel Ciment ravvisa "uno dei segni della [sua] modernità", un oggetto spiazzante, un'opera in cui la familiarità dello spettatore con la tipologia cui esso dovrebbe appartenere, viene, come d'abitudine, mantenuta e tradita nel medesimo tempo. Cifra di un'assenza, il Vietnam è qui un referente del tutto elusivo, privo di qualsivoglia spessore simbolico, mentre il linguaggio totalmente anti-retorico che informa l'opera impedisce alla "guerra" di assurgere a metafora e la fa invece ricadere su sé stessa trasformandola in pura tautologia.
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