Assedio di Messina (1848)
L’assedio di Messina del 1848 durò dal gennaio al settembre di quell’anno e vide contrapposte le forze degli insorti siciliani e quelle dell’esercito borbonico, che dopo una serie di sconfitte riuscirono a vincere la battaglia finale. Più che di un assedio nel senso classico del termine si può parlare di un lunghissimo ciclo operativo militare, con una successione ininterrotta di scontri di diversa entità e portata. Fu l'episodio saliente sul piano militare della Rivoluzione siciliana del 1848.

Introduzione
Il porto di Messina è costituito da una penisola che partendo dall'estremità sud della città volge verso nord e poi verso ovest a forma di falce. Nel punto di partenza di questa piccola penisola era stata costruita, dopo la grande insurrezione di Messina del 1674-78 contro gli Spagnoli, una mastodontica fortezza, nota come la Cittadella, formata da una costruzione pentagonale protetta da profondi fossati ed opere avanzate. Inoltre sull’altra estremità della penisola esisteva un’altra fortezza, più piccola, il forte san Salvatore, fiancheggiato dal forte Real Basso, posto dinanzi sulla spiaggia cittadina. Questo complesso di fortificazioni sbarrava interamente l’ingresso del porto. Sul lato opposto, la Cittadella nel punto in cui si collegava con la terraferma aveva inoltre un arsenale fortificato ed un altro forte, il forte Don Blasco. Si trattava quindi di un vero complesso fortificato, che era imperniato attorno alla Cittadella, attorniata da tre altri forti e dall’arsenale. Esistevano ancora a sorveglianza della città di Messina altri tre forti, quelli di Gonzaga, di Rocca Guelfonia e del Castellaccio, che però non facevano sistema con quelli posti presso il porto. Esistevano inoltre presidi militari presso le carceri e l’ospedale civico. Messina era quindi sorvegliata da ben sette diverse fortezze, di diverse dimensioni, fra cui spiccava la mole dell’enorme Cittadella. La subitanea insurrezione del 1848 aveva liberato dal dominio borbonico, molto odiato nell’isola, quasi tutta la Sicilia. Tuttavia, l’esercito napoletano aveva avuto cura di conservare il dominio della Cittadella di Messina, che era di grandi dimensioni, potentemente fortificata e per la sua collocazione atta a costituire un’autentica testa di ponte per la riconquista della Sicilia. La Cittadella contava circa 300 cannoni ed una forte guarnigione, al sicuro dietro le mura ed i fossati. Il cosiddetto assedio di Messina durò dal gennaio al settembre del 1848 e vide nel corso di questi nove mesi di lotta sette distinte grandi fasi di bombardamenti dell’artiglieria borbonica sulla città, oltre a violente battaglie di fanteria. Si possono distinguere quattro principali fasi di lotta.
La prima fase. 29 gennaio/21 febbraio
Un tentativo insurrezionale era avvenuto già il 1 settembre del 1847, ma era stato schiacciato dalla truppa borbonica nel giro d’alcune ore. La cittadinanza di Messina non si rassegnava però alla sconfitta e ricostituiva ad inizio di gennaio un comitato rivoluzionario, con la collaborazione del patriota Giuseppe La Masa.
Il 28 gennaio era poi creato un comitato di pubblica sicurezza e di guerra presieduto dall'avvocato Gaetano Pisano, che decideva a favore dell’insurrezione per il giorno successivo. Nel corso della notte si preparava la sollevazione ed alle ore nove della mattina del 29 gennaio i Messinesi scendevano in massa per le strade, armati in modo improvvisato con fucili da caccia, vecchie armi da fuoco come schioppi e tromboni od anche armi bianche quali sciabole, stocchi, coltellacci.
Il comitato degli insorti provava a trattare con il comandante borbonico, il generale Cardamona, che però rifiutava. Il comando borbonico, che comprendeva i generali Cardamona, Busacca e Nunziante ed il duca di Bagnoli, aveva ricevuto dal re Ferdinando II l’ordine di tenere ad ogni costo Messina, poiché la città rappresentava la testa di ponte indispensabile per la riconquista della Sicilia insorta. Gli alti ufficiali borbonici decidevano quindi far bombardare la città con i numerosissimi cannoni e mortai a propria disposizione nelle molte fortezze, a cui si aggiungevano ancora le artiglierie mobili collocate nel cosiddetto piano di Terranova, dinanzi alla Cittadella, e quelle della nave da guerra “Carlo III”. Le prime vittime erano un bambino, ucciso mentre si trovava in braccio alla madre, ed un’anziana donna. Approfittando del massiccio bombardamento, le truppe borboniche uscivano dalle fortezze ed attaccavano gli insorti, nel tentativo di riprendere possesso della città. La loro azione incontrava però la resistenza compatta dell’intera cittadinanza, che vedeva assieme uomini, donne e persino i bambini combattere contro i napoletani.
Si distinsero fra gli altri Francesco Munafò, Antonio Lanzetta e Rosa Donato, poi soprannominata “artigliera del popolo”. Le forze borboniche, contenute e poi contrattaccate, erano costrette a ritirarsi all’interno dei forti. Il generale Cardamono, furioso, ordinava di proseguire il bombardamento sulla città, ma questo non spaventava gli insorti. Messina anzi s’illuminava a festa e l’anziano Salvatore Bensaia percorreva le vie della città a testa d’una banda musicale che suonava marce guerresche. Le forze degli insorti erano frattanto rafforzate dall’affluire dalla campagna e dai paesi dell’interno di gruppi di volontari, con coccarda tricolore sul capo e fascia tricolore a tracolla, muniti d’armi da fuoco e bianche. Il comitato di pubblica sicurezza dei patrioti assumeva l’organizzazione della lotta ed assieme dell’amministrazione della città e del territorio.
Il 30 gennaio il generale Cardamono tentava un contrattacco per collegare i reparti borbonici sparsi per la città, ma esso era nettamente respinto. Il 31 gennaio erano invece gli insorti a passare all’offensiva, prendendo come obiettivo le guarnigioni minori ed i forti più deboli: i presidi napoletani all’ospedale civico ed alle carceri e quelli posti a Rocca Guelfonia ed al Castellaccio s’arrendevano praticamente senza combattere. Il giorno seguente, 1 febbraio, i siciliani attaccavano Forte Gonzaga, che s’arrendeva dopo una resistenza quasi nulla. A questo punto rimanevano in mano alle truppe regie napoletane soltanto la Cittadella ed i forti ad essa collegati. Il comando borbonico tentava un altro contrattacco e per far ciò ordinava alle truppe di fare irruzione nel monastero femminile di Santa Chiara. I borbonici sfondavano un solido muro perimetrale del convento e vi facevano irruzione, fra lo sgomento delle suore. Il monastero era quindi subito adibito a fortezza da parte dei napoletani, che tentavano partendo da questo punto d’effettuare una sortita contro gli insorti. Essa era però respinta con energia dai siciliani.
Agli insuccessi militari s’aggiungevano quelli politici. L’arcivescovo di Messina, monsignor Francesco Paola Villadicani, indignato per la profanazione del santuario da parte dell’esercito borbonico, lanciava la scomunica sui responsabili. I consoli inglese e francese invece presentavano le loro proteste al comando militare regio per il modo con cui era stata condotta la repressione.
S’apriva a quel punto una fase di tregua. Gli insorti ricevevano alcuni aiuti provenienti da altre parti della Sicilia, mentre il governo borbonico tentava di staccare Messina dal resto dell'isola, offrendole uno statuto speciale e la sua proclamazione a capitale dell’isola in sostituzione di Palermo. Il comitato insurrezionale rispondeva però che la città preferiva la distruzione al tradimento.
Seconda fase. 22 febbraio/20 aprile
Gli insorti controllavano l’intera città vera e propria, ma essa non poteva assolutamente dirsi al sicuro essendo sovrastata dalla Cittadella e dai forti ad essa collegati. Il loro obiettivo doveva essere pertanto la presa o la neutralizzazione dell’imponente sistema fortificato in mano ai napoletani. Tale intento appariva difficilissimo. Gli insorgenti avevano circa 4000 uomini con armamento improvvisato e scarso o nullo addestramento, contro un numero equivalente di borbonici bene armati ed addestrati. I cannoni erano 77 dalla parte siciliana contro 300 dei regi. A questa già netta disparità di mezzi s’aggiungeva poi il problema di riuscire a forzare la cinta difensiva fortezze poderose. I reparti combattenti siciliani erano però sostenuti si può dire dall’intera città di Messina, moralmente ed all’occorrenza anche nei combattimenti. Inoltre le truppe borboniche avevano dato prova negli scontri precedenti di scarsa volontà combattiva, essendosi spesso arrese con facilità, come era avvenuto per i forti di Rocca Guelfonia, Castellaccio e Forte Gonzaga. I comandanti degli insorti, che al momento erano gli ufficiali Porcelli, Longo, Scalia e Mangano, si ponevano quale primo obiettivo la conquista di forte Real Basso. Si procedeva perciò a costruire nella notte del 22 febbraio una parallela di botti e sacchi riempiti di terra, dietro alla quale si collocavano i cannoni. Al sorgere del sole l’artiglieria siciliana apriva il fuoco sul nemico, che rispondeva da tutte le fortezze. Il duello era decisamente diseguale, poiché il numero di pezzi dei borbonici soverchiava quello dei siciliani: 300 contro 77. Gli insorti però resistevano all’intensissimo fuoco e riuscivano ad aprire una breccia nelle mura di forte Real Basso. Esso era allora attaccato in massa dai siciliani, che colmavano il fossato per poi irrompere nella breccia oppure arrampicarsi sugli spalti con scale mobili. La guarnigione napoletana s’arrendeva immediatamente. Al contempo altri reparti d’insorti attaccavano il cosiddetto piano di Terranova, che era l’insieme d’opere accessorie e secondarie antistante la Cittadella, che comprendeva il fortino don Blasco, la porta Saracena, l’arsenale, le locali caserme. Nella stessa zona si trovava anche il monastero di Santa Chiara, che era stato occupato dai borbonici e trasformato in fortilizio improvvisato. Questo complesso d’opere era preso d’assalto e conquistato dai siciliani, costringendo i borbonici a ripiegare all’interno della gigantesca Cittadella. L’artiglieria regia insisteva però nel bombardamento, che si protraeva dalla mattina del 22 febbraio sino alla sera del 24. Frattanto il generale Cardamona era sostituito dal maresciallo di campo Paolo Pronio, che riceveva inoltre rinforzi di truppe. Un contrattacco borbonico riusciva nel pomeriggio del 25 febbraio a riprendere forte Don Blasco. Gli insorti procedevano da parte loro a riorganizzare la propria struttura di comando. Il comitato rivoluzionario aveva per presidente il dottor G. Pisano, anche se di fatto il comando degli insorti sul piano militare passava temporaneamente ad Ignazio Ribotti, un liberale e patriota costretto all’esilio del 1831 e che aveva combattuto in Spagna e Portogallo raggiungendo il grado di colonnello. I siciliani facevano un ultimo tentativo di prendere la Cittadella, ordinando il fuoco alle proprie artiglierie contro la Cittadella stessa e forte San Salvatore, con un’azione che si protraeva per due giorni, il 7 e l’8 marzo. I borbonici replicavano sparando coi propri cannoni sulla città. Mentre i danni sulle massicce fortificazioni in cui erano rinserrati i regi erano scarsi, erano invece gravi quelli dell’abitato di Messina. Essendo le munizioni d’artiglieria dei siciliani ormai molto ridotte, gli insorti accettavano la proposta di una tregua d’armi, che venne abitualmente rispettata sino alla terza decade d’aprile, anche se le artiglierie borboniche di tanto in tanto riprendevano il fuoco sulla città, provocando danni e vittime e mantenendo la cittadinanza in uno stato di continua apprensione. Questo periodo era impiegato dalle autorità provvisorie siciliane per cercare di costituire un esercito regolare. I primi reparti costituiti avevano una divisa formata da una blusa di colore blu scuro, berretto dello stesso colore con coccarda tricolore, mostrine rosse, pantaloni di colore grigio. Il popolo soprannominò da subito questi militari col nome di “camiciotti” per la blusa che indossavano e così furono tramandati alla storia. Le unità regolari erano poi affiancate dalla Guardia nazionale, dagli irregolari delle squadre provenienti dall’entroterra ed all’occorrenza dal puro e semplice afflusso di cittadini di Messina. Erano invece pochi gli ufficiali con valida preparazione tecnica, indispensabile specialmente per il tipo di guerra d’assedio che si svolgeva, in cui il genio e l’artiglieria, le cosiddette “armi dotte”, erano basilari. Inoltre il comando degli insorti aveva problemi organizzativi.
Terza fase. 17 aprile/24 agosto
La fragile tregua era interrotta dai borbonici, che il 17 aprile sferravano un altro pesante bombardamento sulla città, tirando dalla Cittadella e da forte san Salvatore. Giungevano frattanto grossi rinforzi di uomini e munizioni ai regi, che riprendevano a bombardare il 21 aprile. Quel giorno era il Venerdì Santo della Settimana pasquale ed i cittadini di Messina erano tutti riuniti nelle chiese per le funzioni religiose. Il giorno 24 aprile, il Lunedì dell’Angelo di Pasqua, i borbonici intraprendevano un’offensiva. Sia il 24, sia il 25 aprile i napoletani bombardavano la città e facevano partire sortite dalla Cittadella verso il piano di Terranova. Gli attacchi di fanteria erano però respinti dai siciliani. Le due parti decidevano quindi di sottoscrivere una tregua. Anche questa tregua era però spezzata dalle truppe borboniche, che il 5 giugno sferravano un’altra sortita in direzione del piano di Terranova, poi ripetuta nella notte. Entrambi gli attacchi s’infrangevano contro la decisa resistenza siciliana, al che l’artiglieria dei regi riprendeva a sparare sulla città. La lotta proseguiva anche sul mare: il 15 giugno, nello stretto di Messina, le barche cannoniere siciliane, comandate dal capitano di vascello Vincenzo Miloro, affrontavano e costringevano alla fuga una fregata a vapore napoletana. Nella notte del 17 i borbonici attaccavano ancora una volta nel piano di Terranova ed ancora una volta erano costretti alla ritirata. Allo scontro partecipavano da parte siciliana anche molti volontari improvvisati forniti di picche e coltelli. Anche se gli insorti continuavano ad avere successi parziali, la Cittadella restava inespugnabile e poteva tenere sotto tiro con i suoi 300 cannoni la città, che si trovava a distanza di poche centinaia di metri. Era indispensabile per i siciliani riuscire a conquistare la grande fortezza, ma questo non si poteva fare con un assalto all’arma bianca, che si sarebbe infranto dinanzi ai fossati, alle mura, alla numerosissima artiglieria: risultava necessario agire con tecniche d’assedio, ma scarseggiavano da parte degli insorgenti sia gli uomini qualificati, sia i mezzi. Continuavano frattanto gli scontri e dal 15 al 24 agosto le artiglierie napoletane tiravano sulla città, provocando gravi danni e molte perdite fra i combattenti ed i civili.
Quarta fase. 25 agosto/7 settembre
Ferdinando II aveva provveduto a schiacciare durante l’estate la rivolta della Calabria ed era ora pronto ad invadere la Sicilia per risottometterla al suo dominio. I preparativi della spedizione iniziavano già a fine agosto. Il suo comandante designato era il principe di Satriano, il tenente generale Carlo Filangieri, figlio di Gaetano Filangieri (il celebre autore della Scienza della legislazione), veterano dell’esercito napoleonico (era stato colonnello di Gioacchino Murat) e senz’altro il migliore fra tutti i generali borbonici.
Il corpo di spedizione comprendeva 18.000 uomini di fanteria, 1500 del personale di marina imbarcato sulle navi, più i 5000 uomini di guarnigione nella Cittadella, per un totale di 24.500 uomini impegnati contro Messina, con 450 cannoni complessivi. Facevano parte di questa armata i migliori reparti di tutto l’esercito borbonico, ossia i mercenari svizzeri. La superiorità di forze era schiacciante da parte borbonica, poiché gli insorti potevano contare attorno ai 6000 uomini.
Piero Pieri, il miglior storico militare italiano, riporta in proposito i seguenti calcoli nella sua “Storia militare del Risorgimento”: “Due battaglioni di «camiciotti», 1000 uomini complessivi, 400 artiglieri, 300 zappatori del genio e 200 guardie municipali; e inoltre 500 marinai cannonieri addetti alle batterie fra Messina e il Faro, i quali non presero parte alla lotta. In totale le formazioni che potremmo chiamare regolari assommavano a 2500 uomini, di cui 2000 nei punti attaccati. A queste bisognava aggiungere 2500 uomini delle squadre; 500 uomini di Guardia Nazionale e 500 altri uomini degli equipaggi delle scialuppe e inoltre 2000 elementi delle squadre dislocati lungo la costa da Galati a Forza d'Agrò al sud di Messina, e da Torre Faro a Milazzo. Nell'insieme dunque Messina disponeva di 6000 uomini armati alla meglio, addestrati in modo inuguale e senza un vero capo, contro 25 000 soldati rappresentanti la parte migliore dell'esercito borbonico e con un capo, veterano delle guerre napoleoniche, d'innegabile valore ed energia.” (Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962, p. 500) Fra le 6000 unità siciliane, soltanto 5000 erano munite di fucili. Il divario era grande anche nelle artiglierie, con 112 cannoni per gli insorti, 450 per i borbonici.
Nonostante l’enorme sproporzione di uomini e mezzi, nell’ordine di 4 contro 1 a favore dei napoletani, la battaglia finale dell’assedio di Messina fu eccezionalmente accanita. Il primo attacco delle truppe regie, svoltosi il 3 settembre, incontrò una resistenza estremamente energica dei siciliani e costrinse la spedizione del Filangieri a ripiegare dopo aver perso molte centinaia di uomini. L’artiglieria della Cittadella però prendeva a bombardare la città con un’intensità prima sconosciuta e continuò a farlo anche nei giorni seguenti, incendiando o riducendo in macerie interi quartieri. Il bombardamento proseguiva anche nei giorni seguenti, mentre il generale Filangieri preparava un altro attacco.
L’operazione consisteva in uno sbarco a sud di Messina, preceduto ed accompagnato da un intenso bombardamento della squadra navale, che avrebbe coinciso con il bombardamento diretto dai forti e con un’azione di fanteria dalla Cittadella. Le truppe siciliane cercavano d’impedire l’avanzata al nemico sbarcato, di molto superiore di numero e mezzi, concentrando la propria difesa su di una serie di linee difensive. I “camiciotti” ed i volontari prendevano posizione successivamente presso i villaggi di Contessa, poi di Gazzi, poi di borgo san Clemente, da dove venivano scacciati soltanto dopo molte ore di battaglia ed in seguito a combattimenti svoltisi casa per casa. I due villaggi di Contessa e di Gazzi ed il borgo san Clemente finivano praticamente distrutti dall’esercito borbonico: le case scampate al bombardamento venivano incendiate dai soldati tramite bombe incendiarie al fosforo, mentre i civili erano fucilati sul posto. Dopo aver perso queste tre linee di resistenza, i siciliani prendevano posizione dietro la fiumara Zaera, che era rafforzata da improvvisati trinceramenti che si appoggiavano ad edifici robusti. I napoletani attaccavano nuovamente usando l’artiglieria a propria disposizione per schiacciare gli insorti, tirando dalla Cittadella, dal mare con la flotta e con le artiglierie mobili. L’attacco borbonico procedeva ora da due direzione: dalla Cittadella verso il piano di Terranova e dalla testa di ponte dello sbarco in direzione della fiumara Zaera. L’offensiva però sostanzialmente si arenava davanti alla difesa estremamente tenace opposta dai siciliani e le truppe regie giungevano a ripiegare in preda al panico ed al disordine, al punto che fra di loro si parlava di reimbarcarsi e fuggire. Il Filangieri, vedendo i suoi reparti così demoralizzati e pronti alla fuga, ordinava alla flotta d’allontanarsi, per togliere alla truppa ogni idea di possibile ritirata. Il comandante borbonico era comunque assai preoccupato e trascorreva la notte insonne vegliando in mezzo ai suoi uomini. Frattanto, a Messina la popolazione era ancora decisa a battersi e si trovavano anche religiosi e donne che incitavano gli uomini al combattimento. Buona parte della città però era stata arsa o distrutta dall’incessante bombardamento, che aveva ucciso o costretto alla fuga moltissimi degli abitanti.
La mattina seguente del 7 settembre riprendeva l’offensiva borbonica, con lo stesso modus operandi del giorno precedente: massicci bombardamenti d’artiglieria; incendi appiccati agli edifici mediante bombe incendiarie al fosforo adoperate dai soldati; azioni di fanteria che procedevano a rastrellare il terreno uccidendo chiunque trovassero. L’azione difensiva dei siciliani contendeva il terreno palmo a palmo, ma il continuo affluire di truppe nemiche, diverse volte superiori di numero, determinava la caduta ad uno ad uno di tutti i capisaldi, che erano comunque difesi sino alla fine.
Il combattimento proseguì con scontri corpo a corpo che si svolsero casa per casa, finché l’ultimo importante punto di difesa degli insorti, il convento della Maddalena, fu accerchiato e distrutto. I “camiciotti” superstiti che lo difendevano preferirono suicidarsi che cadere vivi nelle mani dei napoletani. Anche la caduta del monastero della Maddalena non segnò la fine della durissima battaglia, poiché gli insorti si difesero ancora nel quartiere retrostante, dove i mercenari svizzeri procedettero incendiando sistematicamente tutti gli edifici. Preso o per meglio dire distrutto il quartiere che si trovava fra via Imperiale e via Porta Imperiale, i reparti borbonici che avanzavano dal mezzogiorno, ossia dalla testa di ponte navale, si congiungevano con quelli che provenivano dalla Cittadella.
A questo punto, nella sera del 7 settembre, la battaglia poteva dirsi praticamente finita. Il Filangieri però non osava far addentrare le sue truppe nell’insieme di vicoli che allora componevano il centro storico di Messina: malgrado le forze regolari siciliane fosse state sterminate o costrette alla fuga, il bombardamento dei borbonici continuò sulla città indifesa, ossia sulla parte che non era stata ancora occupata dai regi, per altre sette ore. Frattanto i militari dell’esercito napoletano si davano al saccheggio ed alle fucilazioni.
Conclusione
La sconfitta degli insorti a Messina segnò praticamente le sorti della rivolta siciliana del 1848, con esiti politici di grande portata. È impossibile calcolare il numero di morti avutosi nel corso della durissima battaglia, durata per nove mesi e conclusasi con una serie di combattimenti d’eccezionale violenza. Commenta il Pieri: “In verità la difesa di Messina era stata veramente epica; per tre volte la spedizione accuratamente preparata e con forze tanto soverchianti era stata sul punto di risolversi in un fallimento. La città era semidistrutta; eppure il bombardamento non l'aveva domata e i difensori s'erano battuti fino all'estremo; cosicché si può ben dire che, malgrado l'insufficienza e la mancanza di capi, la città non si era arresa. Essa la sera del 7 settembre era tutta un incendio e ancora i vincitori paventavano nuove disperate sorprese.”(Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962, p. 518.) La stessa Relazione delle operazioni militari di Messina nel settembre 1848, pubblicata a Napoli nel 1849 a cura dello stato maggiore borbonico, ammette che il bombardamento ebbe effetti devastanti su Messina.Essa così descrive gli effetti del fuoco dell’artiglieria regia contro la città nelle giornate della battaglia finale: “Cominciata l’alba del giorno 4 il bombardamento […] ricominciò colla stessa rabia del giorno precedente; il fuoco ripigliato all’alzarsi del Sole, fu intermesso soltanto a notte buia. La condizione della Città, mercé questo rinnovato attacco era oltremodo misera e compassionevole. […] non altro si scorgeva che fumo e caligine, non altro si udiva che fragore e scoppio di artiglierie; qual danno, e quanta ruina abbia subìta Messina posta in mezzo a tanto conflitto, è più agevole immaginarlo che dirlo; i quartieri che si trovavano più vicini alle batterie che scambiavano il loro fuoco non presentavano più che mucchi di rovine” ((Relazione delle operazioni militari di Messina nel settembre 1848, Napoli 1849, a cura dello stato maggiore borbonico, p. 8) Il giorno seguente il bombardamento sarebbe stato ancora più violento e distruttivo: “Più orrenda e più sanguinosa delle due già descritte fu la giornata del 5; il fuoco si cominciò innanzi l’alba; […] Coll’inoltrarsi del giorno il bombardamento si faceva più attivo; il fuoco dei Forti, un dopo l’altro incominciato sulle colline, e simultaneamente dai vari punti della Cittadella, era sì violento e continuo, che non lasciava un momento di riposo: esso cagionava un fumo densissimo che involveva tutto in densa caligine, e la Città pareva bruciasse interamente; durante questo tristo spettacolo fino a sera le case venivano scosse dalle molteplici detonazioni, e gli abitanti fuggivano da esse, sì perché incendiate, sì perché cadute in rovina.” (Ibidem, pp. 9-10). Al momento poi della conclusione del lunghissimo assedio, “l’interno della Città pareva fosse un vulcano; dense nubi di fumo nerissimo, si elevavano da tutte le parti” (Ibidem, p. 37).
Note
Bibliografia
- Carlo Gemelli, Storia della siciliana rivoluzione del 1848-49, Bologna 1867;
- Giuseppe La Farina, Storia della rivoluzione siciliana e delle sue relazioni coi governi italiani e stranieri. 1848-1849, Milano 1860;
- Piero Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962;
- Domenico Piraino, Memorie Storiche Messinesi dal 1° settembre 1847 in poi, a cura del dottor G. Cambria, parte I, Messina 1929;
- Domenico Piraino, Memorie Storiche Messinesi dell’ultima guerra, dal 3 al 7 settembre 1848, a cura del dottor G. Cambria, Messina 1929;
- Relazione delle operazioni militari di Messina nel settembre 1848, Napoli 1849, a cura dello stato maggiore borbonico;
- Luigi Tomeucci, La verità sul moto del 1° settembre 1847, in Messana, Messina 1953, vol. II;
- Luigi Tomeucci, La guerra di Messina nel ’48, Ferrara, Messina 1950-1952;
- Luigi Tomeucci, Le cinque giornate di Messina nel ’48, Ferrara, Messina, 1953;