Trattato di Rapallo
Giovanni Giolitti (seduto) firma il trattato di Rapallo. Al centro in primo piano il ministro degli esteri del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni Ante Trumbić.
ContestoPrima guerra mondiale
Firma12 novembre 1920
LuogoRapallo, Italia (bandiera) Italia
PartiItalia (bandiera) Italia
Jugoslavia (bandiera) Jugoslavia
FirmatariGiovanni Giolitti
Milenko Vesnic
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Il trattato firmato il 12 novembre 1920 noto come Trattato di Rapallo (in sloveno e in croato Ralapski ugovor) costituì l'accordo con cui i governi del Regno d'Italia e del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS) stabilirono le loro frontiere comuni al termine della prima guerra mondiale.

Al termine della guerra infatti, si era generato un problema in merito all'assegnazione di vari territori adriatici reclamati al contempo dai due stati. Tale contenzioso scaturiva dalle rispettive posizioni ereditate dal conflitto: da parte dell'Italia, oltre alla necessità generale di annettersi i territori del defunto Impero Austro-ungarico abitati da popolazioni italiane, vi era anche quella specifica di dare esecuzione agli accordi di Londra dell'aprile 1915 (con cui, i governi britannico, francese e russo, all'atto della sua sottoscrizione della partecipazione alla guerra contro gli Imperi centrali, le avevano riconosciuto l'acquisizione in caso di vittoria di vari territori, inclusa l'intera Venezia Giulia e una parte considerevole della Dalmazia), nonché - da ultimo - di risolvere la spinosa questione di Fiume, città abitata (almeno nel centro urbano) in maggioranza da italiani e la cui rappresentanza aveva, sulla fine della guerra (ottobre 1918), proclamato l'unione con l'Italia. Dalla parte opposta, stavano le ragioni addotte dal nuovo Regno SHS di includere nei suoi costituendi confini tutti i territori abitati da popolazioni serbe, croate e slovene, comprese dunque quelle regioni - i land ex austriaci di Gorizia, di Trieste, dell'Istria, nonché della Carinzia, ecc. - considerate propaggini estreme degli spazi etnici di quei popoli, dove però convivevano anche altre comunità nazionali spesso o in varie occasioni maggioritarie in diverse parti.

In quest'ambito, l'impantanamento del contenzioso adriatico si produsse alla conferenza di Versailles, soprattutto vista l'opposizione del presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson ad accettare le richieste italiane, proponendo altresì un compromesso, che però venne rigettato dai rappresentanti italiani. Dopo mesi di trattative, finite nel vuoto, e dopo anche l'accrescersi della tensione tra italiani e slavi nelle zone contese, non mancando inoltre atti di forza in alcune zone - come l'impresa di Fiume di Gabriele d'Annunzio -, le trattative dei governi di Roma e di Belgrado ripresero nel novembre 1920, a Rapallo, giungendo infine ad un accordo e quindi alla chiusura, almeno in buona parte, della vertenza confinaria. Con l'accordo, al Regno d'Italia veniva riconosciuta la sovranità su praticamente tutta la Venezia Giulia, vale a dire soprattutto i territori della ex contea di Gorizia e Gradisca, di Trieste, di quasi tutta l'Istria, più alcune zone contermini; al contempo, il Regno SHS acquisiva la sovranità sulla Dalmazia, ad eccezione della sola città di Zara e dell'arcipelago di Lagosta, annesse anche loro all'Italia. Per quanto riguardava infine Fiume si stabilì che il suo territorio municipale e una breve striscia di costa costituissero uno Stato Libero.

Le premesse

Il problema della confinazione tra italiani e slavi meridionali ha le sue premesse nei processi del XIX secolo, quando sull'onda dell'emergere delle identità nazionali si elaborò anche nei territori dove i due gruppi convivevano, da parte delle rispettive rappresentanze nazionali, la teoria del legame tra un popolo (cioè: una nazione) e un territorio.

In tale ambito, i territori di Gorizia, di Trieste e dell'Istria vennero visti da parte italiana come i settori orientali della regione veneta (La Venezia Giulia), e quindi le terre sulla frontiera nord-orientale dell'Italia; al contempo, gli stessi territori assumevano il ruolo di propaggini occidentali degli spazi etnici e linguistici sloveno e croato. In altre zone, l'identificazione popolo-territorio fu invece più graduale. Il caso di Fiume ne è esempio: se infatti la città venne vista da un lato come città "croata" dal 1848, per buona parte della rappresentanza cittadina (perlopiù di lingua italiana) essa costituiva invece un territorio che doveva restare "autonomo" nell'ambito del Regno di Ungheria; solo a partire dai primi del '900 i pensieri irredentistici italiani avrebbero iniziato a considerare anche Fiume.

Infine, c'era la Dalmazia, che nella prospettiva croata era una terra abitata da croati e più in generale costituiva un punta della triade che metteva sullo stesso piano Croazia, Dalmazia e Slavonia. A fronte di questa posizione - per la quale si era più volte chiesta l'unione amministrativa del Regno di Dalmazia con il Regno Croazia-Slavonia, nell'ambito dell'Impero - si contrappose a lungo quella autonomista la quale, in linea con il pensiero espresso da uomini come Niccolò Tommaseo, vedeva nei dalmati - sia italiani che slavi - un popolo a sé, e nel territorio che essi abitavano il ponte tra i due mondi. Tuttavia per vari fattori, e in particolare visti i successi politici che gli schieramenti nazionali croati ebbero praticamente ovunque in Dalmazia nella seconda metà dell’Ottocento, la prospettiva dell'autonomia fu considerata alla lunga sempre più come inefficace, facendosi quindi largo anche presso i dalmati italiani la linea irredentista, vista ormai come una strada sempre più obbligata. Puntando infatti sulla prospettiva di una Dalmazia italiana, essi ritenevano con ciò di preservare il patrimonio culturale, linguistico e umano non slavo della regione che altrimenti - si sosteneva - si sarebbe perso con la soluzione croata. Questa posizione, faceva il paio con quella di chi - specie in Italia - auspicava una tale soluzione in vista di una solida egemonia italiana nel mare Adriatico.