Partenio I
Il Partenio I (detto anche Grande Partenio o Partenio del Louvre) è un componimento di lirica corale di Alcmane[1]. Esso proviene da un papiro ritrovato da Auguste Mariette nel 1855[2], di cui la parte meglio leggibile è costituita dai vv. 36-101ː

Felice chi è sereno
e trascorre il giorno
senza pianto. Io canto,
la luce di Agido. La scorgo come
un sole, e così a noi Agido rivela
il suo splendore. Io non lodo o rimprovero
la famosa corifea
in alcun modo. Essa spicca
come, in mezzo all'armento
che pascola, un cavallo
dal piede sonante, uso a vincere,
veloce più dei sogni, nelle gare.
Non la vedi? E' come cavallo
veneto. Ma anche la chioma sciolta
della compagna Agesìcora
ha riflessi d'oro limpido.
E il suo volto è d'argento.
Ma che dirò più chiaramente?
Essa è Agesìcora:
Più bella dopo Agido,
correrà con Ibeno quale cavallo Colasseo:
così insieme le Pleiadi, quando
avanti l'alba portiamo il velo,
come fa l'astro di Sirio, nella notte
dolcissima lottano sollevandosi in altro.
Non ho tanta ricchezza di porpora
per reggere alla gara,
né un'armilla tutta d'oro
a forma di serpente e mitra lidia
ornamento delle fanciulle
dai teneri occhi,
né i capelli di Nanno;
non sono Arete divina
né Tìlaci o Clesìtera.
Né potrei dire nella casa di Enesìmbrota:
"Fosse con me Astàfi
e mi vedesse Fililla
e Damàreta e la cara Viantémi."
Ma mi conforta Agesìcora.
Non è forse con noi Agesìcora
dalla bella caviglia,
che accanto ad Agido,
allieta la festa dell'offerta?
O dèi accogliete i nostri voti: in voi
è il principio e la fine. "Corifea,"
vorrei dire "la vergine che parle,
invano ha vociato come nottola
dall'alto d'una trave, ma vuole
piacere moltissimo all'Aurora
perché ha reso lievi i nostri affanni,
come ora le fanciulle
per grazia di Agesìcora
avranno dolce quieta."
Così i cavalli legati alle sbarre
aiutano ai lati l'altro carro in corsa;
così bisogna docili seguire
sulla nave il pilota.
Quando canta Agesìcora
non uguaglia le sirene,
che sono dee; ma in gara
con undici fanciulle ne vale dieci.
La sua voce è del cigno
che s'ode lungo
le correnti dello Xanto.
E la sua chioma desiderata...»
Il partenio è stato interpretato da alcuni come la celebrazione di un vero e proprio matrimonio tra le ragazze [3], anche se non mancano altri temi ispiratori, quali allusioni mitiche[4], sentenze morali, spunti conviviali ed erotici, descrizione di spettacoli naturali.[5]
Il papiro fu trovato a Saqqara in Egitto nel 1855. Si tratta della più antica composizione lirico-corale giunta in forme più o meno complete, e documenta l'alto livello artistico oltre la discontinuità tematica, la compresenza del mito, attualità e una tecnica compositiva ermetica e sussultoria. Il partenio è stato composto per esecuzione civile davanti a un pubblico, da eseguirsi da parte di un coro di fanciulle. Esso è composto nella tradica forma di strofe, antistrofe ed epodo, scritto in alcmanii, ossia usando il tetrametro dattilico. L'ode è composta da 14 versi: dopo una parte iniziale frammentaria dedicata al mito locale spartano degli Ipocoontidi Castore e Polluce, la parte conservata inizia con una massima sapienziale che funge da ponte-collegamento tra mito e attualità. Segue poi il motivo tipico della morale arcaica in poesia, che consiste nel celebrare chi guidato da saggezza, vive la sua esistenza senza piacere. La descrizione del coro femminile entra nel vivo: nella festa di fanciulle, ben 11, domina la luminosa Agidà: una ragazza di nobiltà spartana, mentre la corega Agesicora vieta l poeta di tesserne le lodi. Il poeta mette in luce il dualismo delle ragazze nel coro, descrivendone la bellezza e paragonandole ad animali, elementi divini, naturali e faunistici, come l'esempio del cavallo, parlando poi dell'offerta ad una dea di nome Aotis, forse un riferimento della "dea della luce" ad Aurora o Afrodite. Successivamente vengono elencate le altre ragazze del coro e i loro pregi.
Note
- ^ Fr. 3 Garzya = 3 Calame.
- ^ P. Louvre E 3320.
- ^ F. Ferrari, note, in Lirici greci dell'età arcaica, Milano, BUR, 1994, pp. 422-423.
- ^ Vv. 1-34, assai mutili, con la vendetta di Eracle contro Ippocoonte e i suoi figli, che avevano tolto il regno a Tindaro.
- ^ Le Muse, Novara, De Agostini, 1964, Vol. I, pp. 107-108.