Cesare Casella
Cesare Casella (Pavia, 22 luglio 1969) è il protagonista di uno dei più lunghi sequestri di persona a scopo di estorsione mai avvenuti in Italia. Fu rapito a Pavia il 18 gennaio 1988 e rilasciato presso Natile di Careri, in Calabria, il 30 gennaio 1990. Per la sua liberazione fu pagato (14 agosto 1988) il riscatto di un miliardo di lire, senza esito. L’attenzione dei mass-media al sequestro crebbe considerevolmente nel giugno 1989 allorché la madre di Cesare, Angiolina Montagna (nota Angela Casella e detta poi Mamma Coraggio) si recò in Calabria e chiese, nelle piazze, la liberazione del figlio e un maggior intervento da parte dello Stato. Sulla vicenda, Cesare Casella ha scritto un libro, edito da Rizzoli, dal titolo 743 giorni lontano da casa.
Il rapimento: esecuzione e primi giorni di prigionia
Ha 18 anni e mezzo, Cesare Casella, quando viene rapito. Suo padre Luigi è proprietario di una concessionaria Citroën, la Casella srl, che si trova sulla Vigentina, alla periferia pavese. Dietro l’azienda vi è la casa di famiglia, che Cesare sta raggiungendo in automobile alle 20,25 di lunedì 18 gennaio 1988, una serata di fitta nebbia. Un’altra automobile blocca la strada al ragazzo urtando la sua. Due uomini lo prelevano con la forza e lo portano in un garage non lontano dal capoluogo. Qui Cesare trascorre una decina di giorni, in compagnia di un bandito che soprannomina “Maradona” in quanto tifoso del Napoli; per coincidenza, il nome del calciatore argentino verrà usato come parola d’ordine dei sequestratori nei contatti con la famiglia.
Prima richiesta di riscatto. Le tane in Aspromonte
I mandanti del sequestro, mai trovati, fanno parte dell’anonima sequestri calabrese, collegata con la mafia della regione, la ‘ndrangheta, che usualmente ricicla i soldi dei riscatti per importare e rivendere la droga. Il primo contatto con la famiglia avviene il 10 febbraio, e la prima richiesta è di otto miliardi di lire. Cesare, nel frattempo, è stato trasferito nella stessa Calabria, e precisamente sull’Aspromonte, massiccio montuoso in provincia di Reggio Calabria, storicamente noto per la battaglia dei garibaldini contro le truppe italiane (29 agosto 1862) e nel quale il Generale “fu ferito ad una gamba”. Nella stessa zona sono custoditi altri sequestrati, in un periodo che è l’ultimo in fatto di rapimenti su scala “industriale”. Le “tane”, come le chiamerà il ragazzo nel suo libro, sono scavate sulla terra, per la lunghezza di 2, la larghezza di 1 e l’altezza di 1,5 metri, ai piedi di un albero sulla base del quale vengono assicurate le catene da legare alla caviglia e al collo del sequestrato. Le pareti sono foderate di un muro di sassi e una lamiera, ricoperta di foglie, fa da tetto. Cesare, di queste “tane”, ne abiterà tre: la prima a febbraio per due settimane, la seconda fino alla fine di agosto ’88 e la terza, quella più ampia, per ben diciassette mesi fino alla liberazione.
Pagamento del riscatto e rilancio dei rapitori
Dopo la prima richiesta, i rapitori diminuiscono l’importo da far pagare alla famiglia, scendendo gradualmente da otto a un miliardo. A metà marzo arriva pure la prima prova in vita – fotografia Polaroid - di Cesare, che è ritratto con un quotidiano (del 13) il cui titolo beffardamente augurante, riferito alla crisi del governo Goria, è “Un’apertura al buio”. In agosto (mese noto per la liberazione dopo 18 mesi del piccolo Marco Fiora), il padre Luigi e il fratello minore Carlo scendono in Calabria e seguono le procedure di pagamento volute dalla banda. Il 14 arriva la seconda prova in vita, del 12; i soldi sono consegnati il giorno stesso. Ma nei giorni successivi Cesare non ricompare: verrà solo trasferito da un’altra parte. Quanto ai soldi, i banditi rilanciano e chiedono altri due miliardi, cifra questa destinata ottusamente a salire fino ai cinque del giugno 1989, per poi ridiscendere gradualmente e tornare ad un unico miliardo - come quello già pagato - in dicembre.
Dopo il primo riscatto, i contatti fra sequestratori e famiglia si fanno meno frequenti, anche per gli interventi di forze dell’ordine e magistrati che stavolta sono decisi a impedire il pagamento. La contraddizione, naturalmente, è molto forte: da una parte vi è uno Stato col dovere di prevenire il finanziamento di atti illeciti (quello a cui servono, per l’appunto, i soldi di un riscatto), dall’altra una famiglia col diritto di tutelare l’incolumità del proprio congiunto. Già più volte acceso dai precedenti casi di sequestro di persona a vari scopi (primo fra tutti quello dello statista Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel 1978), il dibattito fra linea dura e linea morbida coi rapitori divide ancora l’Italia.
Mamma Coraggio
Dopo i contatti, tutti a vuoto, di novembre ’88 e marzo-aprile ’89 (quando viene inviata una terza prova in vita), all’inizio di giugno 1989 ne arriva uno telefonico: Luigi Casella dichiara di avere solo mezzo miliardo di lire e non i due richiesti; il bandito dall’altro capo del filo gli dà del bastardo e pretende, stavolta, cinque miliardi. E’ ciò che indurrà la madre di Cesare, Angela, a manifestare pubblicamente e in maniera clamorosa la sua disperazione. Il 10 giugno 1989 la signora lascia Pavia alla volta della Locride (zona aspromontana delimitata dall’importante paese di Locri, sullo Jonio, e da tre cittadine interne: Platì, Ciminà e San Luca, quest’ultimo doppiamente famoso per la provenienza di molti malviventi e, in positivo, del poeta Corrado Alvaro), accompagnata da un’amica e finanziata dal quotidiano La Provincia Pavese. Angela gira le piazze dei vari centri, raccoglie firme di solidarietà e per dare un’idea della probabile condizione del figlio, arriva perfino a incatenarsi (“Mio figlio è così da 17 mesi”) e a dormire in una tenda. La sua determinazione, per la quale i mass-media (ne parlerà anche il settimanale americano Time in un articolo chiamato “Searching in the Wild West”) la soprannominano “Mamma Coraggio”, suscita ammirazione, commozione, ma anche preoccupazione per la sfida aperta al muro di omertà e all’autorità che la malavita esercita in quei luoghi. A livello istituzionale e politico, si decide di incrementare il numero di militari in Aspromonte rendendo più capillari le ricerche dei sequestrati e dei latitanti, ma si chiede anche alla signora di lasciare la Locride per non “intralciare”: Angela dapprima va a Fuscaldo (provincia di Cosenza), poi fa ritorno a Pavia. Il 27 giugno i rapitori inviano una lettera in cui dichiarano che la liberazione di Cesare dopo la “sfida” di sua madre è impossibile per una questione di principio: significherebbe la loro sconfitta e attenuerebbe la paura alle famiglie dei sequestrati. Tuttavia la banda riduce ragionevolmente l’importo del riscatto: da cinque a un miliardo e mezzo di lire.
Verso la fine del sequestro
Nei mesi successivi ritorna la “calma”, e con essa l’incertezza sulla sorte del ragazzo. Per giunta, nell’agosto ’89 i Casella rischiano di cadere vittime di un atto di sciacallaggio: due finti banditi pugliesi chiedono quel mezzo miliardo che la famiglia aveva dichiarato di possedere. Ma vengono fermati grazie a un’agente di polizia travestita da “Mamma Coraggio”. Ad ottobre i veri banditi riducono la cifra del riscatto a un miliardo. A novembre la famiglia li avverte di esser pronta a pagare previa la solita prova in vita, la quarta, che i rapitori sono a loro volta pronti a inviare. Ma Vincenzo Calia, sostituto procuratore della Repubblica a Pavia, incaricato dell’inchiesta, decide che del pagamento dovranno occuparsene i carabinieri dei GIS (Gruppi di Intervento Speciale): la banda se ne accorge e il primo tentativo va a vuoto. Un secondo, decisivo, è stabilito per la notte di Natale ‘89; prova in vita, però non arriva, così scatta un’operazione volta a catturare gli esattori: i GIS si presentano all’appuntamento e riescono nel loro intento: l’arrestato, neutralizzato da una pallottola alla gamba, è Giuseppe Strangio, latitante. I soldi, naturalmente, ritornano a Pavia. Il risalto dei giornali, dopo i fatti di giugno, è minore: non solo per le richieste di silenzio-stampa da parte di famiglia e inquirenti, ma anche per i contemporanei eventi storici: la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e la rivolta in Romania culminata con l’arresto e l’esecuzione (25 dicembre) del dittatore Nicolae Ceausescu. Così termina il 1989, momento determinante per le sorti del pianeta, ma anche l’anno che un ragazzo nel frattempo ventenne ha trascorso per intero incatenato in una buca.
La liberazione
Il 3 gennaio 1990, un noto insegnante e giornalista di Bovalino, Antonio Delfino, riceve un plico contenente la quinta prova in vita di Cesare e tre lettere. Ovviamente il fatto è ripreso dai mass-media, e sembra volto a screditare l’operato di forze dell’ordine e magistratura agli occhi di quella parte dell’opinione pubblica contraria alla linea dura. Oltretutto la polaroid che ritrae Cesare con un quotidiano sportivo del 31 dicembre, è ritenuta falsa da uno dei massimi esperti italiani di fotografia, Ando Gilardi, che pur augurandosi di sbagliare (come poi verrà appurato), parla inizialmente di “fotomontaggio grossolano”. Ad ogni modo, il procuratore Calia non cede, e induce la famiglia Casella ad aspettare ancora, anche in virtù del fatto che Giuseppe Strangio, dall’ospedale in cui si trovava piantonato, avesse lanciato un appello ai rapitori in favore di Cesare (“Vogliatelo bene!”). In realtà l’indagato, già condannato a 27 anni per un altro sequestro (e divenuto latitante per essersi dileguato in seguito a un discutibile permesso-premio), sta cominciando a collaborare seriamente con la giustizia. Ciò permette alle forze dell’ordine di stringere il cerchio intorno ai rapitori, desiderosi di ottenere il denaro ma anche di non aggravare la loro posizione giudiziaria in caso di probabile cattura. Per questo, scoraggiati anche dal tragico esito di un tentato sequestro a Luino, costato la vita a quattro loro “colleghi” di San Luca e reso noto il 18 gennaio, i banditi decidono di chiudere la faccenda senza sangue, né altri soldi, a due anni esatti dal suo inizio. Alcuni giorni dopo, martedì 30 gennaio 1990, alla stessa ora del suo rapimento, Cesare Casella viene finalmente liberato. All’indomani della liberazione, salutata con entusiasmo dall’Italia intera e non solo, si inseguono molte voci circa trattative parallele, interventi dei servizi segreti e concessioni all’anonima sequestri. Vincenzo Calia replica alla stampa che si tratta di interventi “a vanvera e destituiti di ogni fondamento”: la seconda stata del riscatto non è stata pagata e l’esito positivo della vicenda, si lascia intendere, è riconducibile solo ed esclusivamente alla cattura di Giuseppe Strangio.
Dopo la liberazione: l’euforia mediatica, il libro, il film
Il sequestro di Cesare Casella è durato complessivamente 742 giorni, lunghezza che si attesta al secondo posto dietro al contemporaneo rapimento di Carlo Celadon (figlio di un industriale di pellami di Arzignano, Vicenza), prelevato una settimana dopo e rilasciato il 5 maggio 1990. Nei primi due, tre mesi di “euforia” come egli descrive quelli successivi al rapimento, Cesare è letteralmente inseguito da giornali e televisioni: lo si vede allo stadio accanto a Silvio Berlusconi (presidente del Milan, sua squadra del cuore), partecipa a programmi sportivi e di intrattenimento, è intervistato da Bruno Vespa e interviene telefonicamente ad una trasmissione condotta da Raffaella Carrà. Riceve decine di lettere al giorno e nel settimanale Visto, edito da Rizzoli, ha una rubrica in cui pubblica alcune sue risposte e, soprattutto, un memoriale che a fine marzo verrà trasformato in un vero e proprio libro, intitolato 743 giorni lontano da casa e realizzato con la collaborazione del giornalista Pino Belleri. Anche sua madre Angela (sempre “Mamma Coraggio”) ha una rubrica nella stessa rivista, e viene spesso chiamata per interventi di stampo umanitario. Al padre Luigi, invece, la “celebrità” sta stretta, e non a torto fa tutto il possibile per tornare nell’ombra. Anche per questo l’Italia è divisa in due: chi vede in Cesare l’eroe del momento e chi si indigna per un apparente divismo che svilisce la seria sofferenza patita da lui e dalle altre vittime del più odioso dei crimini. “Peggiore” com’egli stesso scrive, “perfino dell’omicidio dove se non altro la violenza si consuma in pochi istanti”. Dal caso Casella viene tratto, nel 1992, anche un film tv, Liberate mio figlio. Come si evince dal titolo, la storia (benché reinventata in alcuni dettagli, nei nomi e in parte dei luoghi) evidenzia in particolare la vicenda della madre. Questi argomenti sono doppiamente sentiti dal regista Roberto Malenotti: nel 1976 suo padre era stato rapito e non fece mai ritorno a casa. Interpreti sono Marthe Keller e Jean-Luc Bideau nel ruolo dei genitori. Lorenzo, il ragazzo rapito alter-ego di Cesare è interpretato da Arturo Paglia, che gli assomiglia in maniera straordinaria.
Conseguenze del caso Casella. Fine dell’industria dei sequestri
Come si è detto, il periodo a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 è l’ultimo in cui i sequestri di persona a scopo di estorsione sono un’industria. In effetti si è lontani dai drammatici numeri degli anni ’70 (anche 20 sequestri in un solo anno, senza contare quelli legati al terrorismo eversivo), ma per contro, ad aumentare è la durata di ogni singolo caso: se un tempo il periodo medio era qualche mese, ora il facoltoso malcapitato deve aspettarsi otto, dieci, anche dodici o più mesi fino ai ventisette di Carlo Celadon. Le richieste di riscatto sono ovviamente più cospicue (sempre per Celadon furono versati cinque miliardi e, se ne pretesero altri cinque) e non a caso gli obiettivi, oltre che giovani - a garanzia di una maggiore resistenza - sono talvolta di famiglia benestante ma non sempre ai vertici della ricchezza. Il caso di Cesare Casella è sicuramente fra questi: suo padre Luigi faceva il meccanico nell’officina paterna finché col boom economico dei primi anni ’60 non cominciò a vendere automobili creandosi pian piano un'impresa. Un potere il cui limite fa presumere a un numero limitato di amicizie influenti e quindi a una maggiore possibilità di adeguarsi al volere dei rapitori. Spesso però, è più forte l’influenza di una magistratura decisa… Comunque fosse, in un paio d’anni, anche per un maggiore controllo delle forze dell’ordine (facilitato dalla fine del terrorismo), l’industria dei sequestri – di cui l’Italia aveva registrato tristi primati – si attenua considerevolmente fino a registrare l’ultimo clamoroso “colpo di coda” fra il 1997 e il ‘98 col rapimento di Giuseppe Soffiantini. Peraltro i casi “unici” (ma non ancora “isolati”) dei nostri giorni obbligano ad un’attenzione sempre alta al fenomeno.