Kawaii

Kawaii (可愛い? o かわいい?, AFI: [kaw͍aiꜜi]) è un aggettivo della lingua giapponese che può essere tradotto in italiano come "carino", "amabile", "adorabile". A partire dall'inizio degli anni ottanta il termine indica anche una serie di personaggi fittizi di manga, anime, videogiochi o altro, e gli oggetti loro collegati all'interno del contesto della cultura giapponese. La subcultura che ne deriva, fatta di modi di vestirsi, di adornarsi, di parlare, di scrivere, di comportarsi, riguarda nello specifico (ma non soltanto) le ragazzine o i ragazzini più giovani, prevalentemente in Giappone.
Qualcosa di kawaii non deve essere soltanto "carino", ma anche piccolo, buffo, ornato, dall'aspetto innocente, infantile, generalmente dalle tonalità "femminili", quali bianco, azzurro, violetto e rosa. I personaggi kawaii, quindi, hanno fattezze bambinesche e ingenue, lineamenti graziosi, proporzioni minute ed essenziali, occhi grandi, scintillanti, teneri ed espressivi e una gran quantità di dettagli e particolari.
Definizione ed etimologia
La parola kawaii può essere tradotta in lingua italiana come "carino", "amabile", "adorabile".[1][2] È un aggettivo riferito al sostantivo kawaisa (可愛さ? "dolcezza", "carineria") e nel linguaggio moderno si riferisce essenzialmente a oggetti, persone, modi di fare che possono essere considerati dolci, innocenti, puri, genuini, gentili, ma anche infantili e bambineschi.[3] Eccezionalmente il termine è usato in senso negativo, col significato di "maldestro" o "stupido".[4]
Le origini del termine sono da ricercare nell'espressione kao hayushi (顔映し?) che letteralmente significa "faccia illuminata/raggiante", comunemente usata per riferirsi al viso di una persona che arrossisce.[5][6][7] Nei dizionari del periodo Taishō fino alla seconda guerra mondiale il termine veniva riportato come kawayushi, per poi mutare in kawayui e infine in kawaii, pur mantenendo lo stesso significato.[8] Nella sua accezione originale il termine indicava i concetti di "timido", "imbarazzato", e solo secondariamente quelli di "vulnerabile", "caro", "amabile" e "piccolo", ma nell'uso moderno questi ultimi finirono per assumere il significato principale.[9]
Raramente il termine viene scritto in kanji, ai quali viene preferita la scrittura in hiragana かわいい?. È comunque diffusa anche la scrittura in kanji 可愛い?, ateji formato dai caratteri di "accettabile" (可?, ka), "amore" (愛?, ai) e dal carattere hiragana い ("i"), uno dei due tipi di desinenze con le quali terminano gli aggettivi in giapponese (aggettivi in い e aggettivi in な).[10] Nella lettura congiunta dei due kanji il secondo viene pronunciato wai per evitare l'effetto cacofonico delle due vocali "a" vicine (ka-ai), suono poco comune nella lingua giapponese.[11]
Nel giapponese moderno vi sono numerose parole giapponesi che derivano dalla parola kawaii, per esempio kawairashii (可愛らしい?) traducibile come "adorabile" o "dolce", kawaigaru (可愛がる?) traducibile come "innamorarsi" o "incantarsi", kawaige (可愛げ?), che può essere tradotto come "fascino di un bambino innocente",[10] e kawaisō (かわいそう?, 可哀相? o 可哀想?), il cui significato di "pietoso", "patetico", "compassionevole" si rifà all'accezione originaria di kawaii.[8] L'idea giapponese di "carino" sottolinea infatti il senso di pathos ed empatia che l'oggetto impotente e indifeso ispira o trasmette nella mente dell'osservatore.[12]
Storia
Nascita del fenomeno
Sebbene in Occidente si tenda a considerare la cultura kawaii un fenomeno perlopiù contemporaneo, la predilezione del popolo giapponese per tutto ciò che è carino ha origini ben più antiche. Il concetto estetico corrispondente all'eccezione moderna di kawaii fu descritto per la prima volta dalla poetessa Sei Shōnagon nelle sue Note del guanciale (databili intorno all'anno 1000), in cui scriveva che «in verità, tutte le cose piccole sono belle». Durante il periodo Edo (1603-1867), i fermagli ornamentali per le cinture dei kimono (netsuke) divennero un ricercato oggetto di moda, e i samurai erano soliti portare con sé amuleti protettivi foderati di stoffa colorata (omamori). Durante la seconda guerra mondiale le donne ricamavano piccole bambole di pezza che i soldati custodivano appese al collo o alle cinture.[13] Secondo alcuni esperti, in passato il termine kawaii era usato esclusivamente per descrivere la tenerezza propria dei neonati o dei cuccioli e solo successivamente si iniziò a utilizzarlo per qualsiasi cosa che potesse essere considerata "carina".[14]
Dagli anni settanta del XX secolo il fenomeno iniziò ad assumere le proporzioni odierne, nascendo come semplice cultura giovanile ma assurgendo in poco tempo ad aspetto estremamente rilevante della cultura giapponese. Con la diffusione della penna a sfera e del portamine, tra le studentesse giapponesi si sviluppò in modo del tutto spontaneo un nuovo stile di scrittura, contraddistinto da grandi caratteri arrotondati e dalla presenza di lettere latine, caratteri katakana e piccoli disegni come cuori, stelle e faccine inseriti arbitrariamente nel testo, che rendevano la lettura difficoltosa a tal punto che il suo utilizzo fu vietato in molte scuole del paese. Ciò nonostante la sua popolarità fu tale che nel 1978 il fenomeno aveva interessato tutto il territorio nazionale, e si stima che nel 1985 circa cinque milioni di giovani giapponesi usassero abitualmente questo nuovo modo di scrivere.[15]
Nello stesso momento in cui i giovani iniziarono a intaccare il giapponese scritto con il loro stile infantile, anche la lingua parlata finì per essere influenzata da nuove forme di slang e modi di esprimersi. Già nel 1970 il quotidiano Mainichi Shinbun aveva pubblicato un articolo che riportava come la parola kakkoii (かっこいい? "bello", "affascinante") venisse storpiata dai ragazzi più giovani in katchoii, imitando la pronuncia di un bambino ancora incapace di articolare perfettamente le parole. Questo modo di parlare pseudo-infantile non si limitava alla storpiatura di parole d'uso comune, ma prevedeva anche il ricorso ad allusioni e perifrasi al posto di espressioni esplicite; per esempio in quegli anni alla parola "sesso" veniva preferito il più innocente nyan nyan suru ("fare miao miao").[16]
Il kawaii diventa mainstream
Il termine entrò nel linguaggio comune dei giapponesi soltanto a partire dagli anni ottanta. Fino ad allora le norme sociali imponevano agli adulti un comportamento sobrio e maturo, evitando distrazioni e frivolezze, in modo da concentrarsi sulla produttività economica del paese. Una volta che il Giappone ebbe raggiunto tale obiettivo, la pressione sociale sull'agire sempre e comunque con maturità si fece man mano sempre meno forte.[14]
Ogni forma di inibizione nei confronti della parola kawaii scomparve definitivamente quando questa venne associata al fenomeno mediatico dei nameneko, cuccioli di gatti mascherati da teppisti bōsōzoku (bande di motociclisti, di solito poco più che adolescenti), ripresi in atteggiamenti buffi e bizzarri. Poiché negli anni ottanta la figura del bōsōzoku rappresentava per le donne un popolare feticcio erotico, la sua associazione ai gatti generava in queste un sentimento comune di adorazione e tenerezza. Influenzati dal modo di fare delle proprie compagne, a poco a poco anche gli uomini iniziarono a utilizzare il termine.[17]
A metà decennio l'essenza del kawaii iniziò ricevere maggiore attenzione anche dai media. Le riviste femminili, e poi quelle maschili, si focalizzarono sul ruolo del maschio all'interno della coppia, e su come egli avrebbe dovuto assumere alle esigenze del partner. Dato che per le donne il kawaii iniziava ad acquisire un certo peso nella vita di tutti i giorni, l'uomo avrebbe dovuto prendere seriamente in considerazione tutto ciò che era kawaii. Nello stesso periodo, il linguaggio giovanile dalle universitarie e dalle giovani impiegate si arricchì di tre espresssioni che in poco tempo sarebbero divenute un marchio di fabbrica di quella generazione: «uso!» (うそ!? "non ci credo!"), «honto?» (ほんと?? "davvero?") e «kawaii!», tanto che queste vennero soprannominate sarcasticamente san-go-zoku (三語族? "fanatiche delle tre parole"). La popolarità della parola kawaii raggiunse livelli estremi quando un'università femminile di Tokyo cercò di vietarne l'uso all'interno del campus.[17]
L'industria del kawaii e il mercato dei fancy goods
Le aziende di marketing non impiegarono molto tempo a capire che questo stile così poco tradizionale e controverso, ma allo stesso tempo di grande richiamo per i più giovani, potesse essere applicato in toto alla dinamica dei consumi. Nel corso degli anni ottanta fumetti, riviste, prodotti commerciali e spot pubblicitari adottarono con successo quel modo di scrivere così infantile portato alla ribalta dagli adolescenti il decennio prima, ma la rincorsa al kawaii non si limitò solamente al settore dell'advertising e del packaging dei prodotti giapponesi.[18] Nel 1967 la linea di fashion doll Licca-chan aveva avuto grande successo tra le ragazzine grazie al suo aspetto grazioso e minuto,[14] sebbene fosse stata la compagnia Sanrio ad aprire di fatto la strada all'industria dei fancy goods (ファンシーグッズ?, fanshī guzzu), ovvero beni di consumo come giocattoli, peluche, vestiario, cibarie e articoli di cancelleria tutti accomunati dall'essere kawaii.[19]
Tra i personaggi lanciati negli anni dalla Sanrio per la commercializzazione dei suoi prodotti, quello che riscosse più successo fu sicuramente Hello Kitty, emerso negli anni ottanta come una delle icone principali del kawaii. Hello Kitty incarnava alla perfezione le caratteristiche dell'oggetto kawaii, con le sue fattezze cartoonesche, i colori pastello e l'aspetto essenziale, infantile e indifeso, pensato per suscitare un senso di empatia nel potenziale consumatore.[20][21] Elementi distintivi che vennero ripresi e adottati anche da compagnie private per le loro mascotte (yuru chara), dando vita in molti casi a un ricco merchandising.[22][23]
Il kawaii acquisì una connotazione commerciale sempre più marcata durante il resto del decennio, e le aziende si concentrarono nella creazione di prodotti il cui design fosse capace di trasmettere una certa tenerezza, fossero questi giocattoli, dispositivi elettronici o persino automobili.[17] Anche l'industria alimentare venne interessata dal fenomeno, in particolare il settore dolciario. Durante gli anni ottanta il mercato del gelato in Giappone registrò una crescita annua del 5%, garantendo un profitto di 100 milioni di dollari all'anno fino al 1989. Da sempre considerato un prodotto destinato ai più piccoli, il gelato conobbe un'impennata nei consumi tra gli adulti, dovuto anche alla comparsa di gelaterie di lusso tra le strade di Tokyo e Osaka. I dolciumi e i prodotti di pasticceria, come anche altri prodotti alimentari, assunsero a loro modo le caratteristiche già viste in altri articoli kawaii, quali dimesioni ridotte, la presenza di fronzoli o l'aspetto volutamente nostalgico e infantile.[24]
L'influenza su anime e manga
La cultura kawaii si legò indissolubilmente alle produzioni manga e anime del periodo, giacché numerosi autori attinsero a piene mani dal suo stile fin dagli albori del fenomeno, trovando la massima espressione in due generi narrativi in particolare, lo yonkoma e lo shōjo.[25]
Il primo a introdurre elementi riconducibili dell'estetica kawaii fu comunque Osamu Tezuka negli anni quaranta, ispirato dalle produzioni Disney. Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale i giapponesi erano soliti rappresentare i propri connazionali in maniera realistica, con fattezze tipiche delle popolazioni asiatiche (occhi stretti e allungati, epicanti pronunciati); Tezuka, invece, utilizzò per i suoi personaggi alcuni elementi dei cartoni animati occidentali dell'epoca, ricorrendo a modelli basati su linee semplici, con occhi tondeggianti ed espressivi, e inserendo nei suoi disegni motivi decorativi stilizzati come cuori, stelle e ghirlande di fiori.[26] Espedienti, questi, per la verità già utilizzati sia dagli illustratori Yumeji Takehisa[27] e Jun'ichi Nakahara, sia da Katsuji Matsumoto nel manga Nazo no clover, da cui lo stesso Tezuka trasse ispirazione per La principessa Zaffiro.[28]
Il kawaii entrò nell'immaginario infantile giapponese grazie al duo Fujiko Fujio, che tra gli anni sessanta e settanta introdusse alcuni dei suoi elementi in opere come Obake no Q-tarō e Doraemon. Proprio il protagonista di quest'ultima, un gatto-robot dall'aspetto rotondo e buffo, fu determinante nella popolarizzazione delle caratteristiche tipiche dei personaggi kawaii.[30] In opere dello stesso periodo come Dr. Slump, Hello! Spank, Heidi, Time Bokan,[31] fino ad arrivare a Sailor Moon,[32] Hamtaro[33] e i manga di Ai Yazawa,[34] questi mantennero inalterate le stesse peculiarità grafiche, quali rotondità esasperate, tratti elementari, forme morbide e aggraziate, in aggiunta a elementi tipici dello stile super deformed, come occhi grandi, corpi tozzi e teste dalle dimensioni sproporzionate.[35]
Col tempo, e con sempre maggiore frequenza, il kawaii venne impiegato in opere dai temi più cupi, anche come conseguenza del boom del cinema horror giapponese di fine anni novanta e della situazione sociale del paese.[36] Nacquero così una serie di personaggi che, sebbene mantenessero il fascino e il carisma tipici dell'eroe protagonista, palesavano anche alcuni vizi propri dell'essere kawaii, come dipendenza, irresolutezza e mestizia. Esempio significativo è il personaggio di Shinji Ikari, dell'anime Neon Genesis Evangelion, il quale, nonostante la corporatura proporzionata e il suo ruolo di protagonista della serie, possiede un'insicurezza e una sofferenza di fondo che lo rendono anche kawaii.[37] Al contrario, nell'opera Higurashi no naku koro ni, il personaggio di Rena Ryugu possiede sì le caratteristiche tipiche dei personaggi kawaii – ella ha un aspetto innocente e veste in stile lolita – ma queste vengono associate agli omicidi e alla morte.[36] Le maghette di Puella Magi Madoka Magica, infine, rappresentano un perfetto esempio di commistione di kawaii e dark fantasy.[38]
Nell'ambito del fumetto e dell'animazione giapponese, il kawaii seppe ritagliarsi il proprio spazio anche in tempi più moderni, adattandosi ai tempi e alle mode. Opere come Otomen e Antique Bakery, in cui i personaggi maschili sono raffigurati in atteggiamenti femminili e "carini", riflettono l'incertezza socio-economica del Giappone post-crisi, dove sempre più uomini faticano a trovare il proprio posto nella società. Il manga di Ai Yazawa Nana, che gioca sulla contrapposizione tra le personalità delle due protagoniste e sul loro modo differente di essere kawaii, offre uno spaccato del Giappone contemporaneo, dove sempre più spesso le giovani ragazze rifiutano un ruolo passivo e dipendente.[36]
Gli otaku e il kawaii: dal moe alle idol
Durante gli anni novanta si verificò un cambiamento importante. Le aziende commerciali e di marketing, che fino ad allora avevano cavalcato l'onda del kawaii, si ritrovarono di colpo senza idee. I gusti della massa si spostarono a quel punto verso l'immaginario estetico della subcultura otaku, alimentato dalla passione per anime, manga, videogiochi o idol della musica. Alcune cose nacquero già con una propria "carineria" di fondo (è il caso del cosplay e del fenomeno affine delle maid), ma è solo dopo che queste vennero etichettate come kawaii dagli otaku, che iniziarono a venire accettate come tali anche dalla popolazione generale.[39]
Ma se agli occhi di una persona ordinaria qualcosa di carino era sicuramente kawaii, gli otaku, per descrivere la stessa identica cosa, coniarono un altro termine: moe. La parola, che iniziò a ricevere grandi attenzioni mediatiche a metà degli anni duemila, si riferisce all'attrazione o all'amore per i personaggi di anime, manga, videogiochi, o di altri media destinati al mercato otaku. Affezione che si manifesta in maniera euforica, e che genera, più che un senso di calma e tenerezza – come nella concezione originaria del kawaii –, un sentimento di adorazione e ammirazione.[39][40] La caratteristica che accomuna tutti i sentimenti moe è che il destinatario di tali sentimenti è qualcosa con cui è impossibile instaurare una vera relazione, come un personaggio immaginario, un oggetto, o una idol.
La mania per le idol crebbe di pari passo con quella del kawaii, dominando negli anni ottanta i palinsesti televisivi nonché la scena musicale nipponica. Esse in poco tempo si fecero portavoce dello stile kawaii, appropriandosi del suo linguaggio, adottando modi di fare e di vestire deliberatamente infantili, fino a diventarne la personificazione per eccellenza.[41]
Note
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Voci correlate
Altri progetti
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Collegamenti esterni
- (EN) Diana Lee, Inside Look at Japanese Cute Culture, su uniorb.com, 1º settembre 2005 (archiviato dall'url originale il 25 ottobre 2005).