Utente:Joe123/Sandbox5
Francesco Baldovini (Firenze, 27 febbraio 1634 – Firenze, 18 novembre 1716) è stato un poeta italiano.
Biografia
Francesco Baldovini nacque a Firenze, da Cosimo e da Iacopa Campanari. La sua famiglia discende indirettamente da quella dei Baldovini-Riccomanni.
La sua carriera di studi incluse gli studi classici nel collegio dei gesuiti, gli studi di filosofia e di fisica, prima a Firenze e poi a Pisa, nella celebre università dove insegnò Galileo Galilei, anche se si laureò in legge e da quel momento si dedicò agli studi letterati.
È certo comunque che, rientrato in Firenze dopo la morte dei padre (1661), scrisse quel Lamento di Cecco da Varlungo, che gli garantì una notorietà e popolarità.
Nel 1663 si trasferì a Roma, dove soggiornò per circa dieci anni, stringendo numerose amicizia, tra le quali con Salvator Rosa, che assistette amorevolmente negli anni di malattia e aiutò alla conversione religiosa dell'artista napoletano.
All'età di quaranta anni, nel 1674, prese i voti e si trasferì a San Lorenzo d'Artimino, dove trascorse quasi diciotto anni, dove proseguì anche la sua attività letteraria, scrivendo rime burlesche e laudi sacre, e ripubblicando il suo già famoso Lamento con con lo pseudonimo-anagramma di Fiesolano Branducci. Nel 1700 ottenne infine la prioria di San Felicita. Morì in Firenze il 18 novembre 1716.
Si dedicò oltre che alla prosa scientifica, ai generi letterari più frivoli e accademici: capitoli burleschi e satire, poemi eroicomici e commedie letterarie e quei poemetti, o "idilli" rusticali, nei quali ultimi, più che uno schietto intento satirico nei confronti della gente del contado, trovavano espressione il diletto erudito e la mania linguaiuola, caratteristica dei letterati toscani.
E appunto alla stregua di un'esercitazione linguistica o, se si vuole, di uno svago erudito, va considerata anche l'opera che dette maggior fama al B. e per la quale ancora oggi egli è ricordato, il Lamento di Cecco da Varlungo,idillio rusticale in quaranta ottave, in cui il contadino Cecco canta il suo vano amore per la contadina Sandra, lamenta gli affanni della gelosia, manifesta infine propositi di suicidio, a cui però leggermente rinuncia.
Se per il titolo e per alcune particolarità del linguaggio l'idillio sembra ricordare la novella boccaccesca della Belcolore e del prete di Varlungo, per l'argomento e per la forma chiaramente si ricollega al genere tradizionale della satira del villano, un genere a cui per primo aveva conferito dignità letteraria Lorenzo de' Medici nella Nencia da Barberino e che aveva poi trovato numerosi imitatori or più or meno abili a incominciare dal Pulci nella Beca da Dicomano e più tardi, nel Cinquecento, nel Doni, nel Simeoni e soprattutto nel Berni. Nel Seicento, mentre sugli intenti satirici e caricaturali va sempre più prevalendo il virtuosismo linguistico, il genere dell'idillio trova cultori in Alessandro Allegri, in Francesco Bracciolini e in Iacopo Cicognini; contemporaneamente il linguaggio rusticale viene sempre più frequentemente adottato in altri generi letterari, come nel poema eroicomico da Bartolomeo Corsini e nella commedia da Michelangelo Buonarroti il giovane e da G. B. Fagiuoli. Il Lamento del B. va considerato sullo sfondo di questa cultura oziosamente accademica. E in esso non andranno pertanto ricercate verità di rappresentazione psicologica o freschezza di notazioni paesistiche, bensì la perizia tecnica e retorica, l'uso sapido e sapiente delle espressioni gergali.
Il B. non è dei resto da considerare soltanto come autore del Lamento. Accanto a numerosi sonetti e capitoli in terza rima, a una elegia latina, a ottave in versi sdruccioli di argomento autobiografico e ad altre stanze in dialetto rusticale (Ilrettore di Campi e Maso da Lecore), egli scrisse anche - ed è questo forse l'aspetto più interessante e meno noto della sua opera - alcuni componimenti drammatici destinati alla rappresentazione privata o alla semplice lettura. Si tratta di una commedia in tre atti, dal titolo Chi la sorte ha nemica, usi l'ingegno,e di cinque brevi atti unici, che l'autore designa di volta in volta con il nome di "prologhi" o di "scherzi" e che piuttosto si vorrebbero accostare alle cinquecentesche "farse" del Berni: lo Scherzo familiare drammatico (scritto nel carnevale del 1670 per essere rappresentato in casa del conte Pandolfini), Pellegrino e contadino e Il mugnaio di Sezzate (l'uno e l'altro recitati nella villa dei signori Fedini a Sezzate), la Canzone per maggio e Un pazzo e due vagabondi. È comune, a questi cinque "prologhi", l'esilità della trama e della struttura, l'esiguo numero dei personaggi, l'uso del polimetro, l'utilizzazione or più or meno accentuata del linguaggio rusticale. A tutti fa poi difetto un vero e proprio contenuto drammatico. Ma, a paragone del troppo celebrato Lamento,èpossibile ravvisare in essi una più fine invenzione di situazioni psicologiche e una indubbia abilità nel delineare con pochi, arguti tocchi, una scena o un personaggio.
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