Il Sarcofago di Melfi (così denominato dal luogo di attuale conservazione e come designato nella letteratura specialistica) ovvero Sarcofago di Rapolla (denominazione alternativa derivante dal luogo di ritrovamento del reperto) è un monumento funerario di età antonina custodito nel Museo archeologico nazionale del Melfese.

Sarcofago di Melfi
AutoreAtelier microasiatico
Data160-170
Materialemarmo
UbicazioneMuseo archeologico nazionale del Melfese, Melfi

Storia

Il monumento funebre fu rinvenuto casualmente nel 1856 durante gli scavi realizzati dall'amministrazione borbonica per la costruzione di una strada tra Melfi e Venosa in località Contrada Albero in Piano nell'agro di Rapolla. Esso era collocato in un sepolcro in muratura all'interno del quale era poggiato su un basamento addossato ad una delle pareti. Una delle facciate dei lati lunghi della cassa non era quindi visibile: si tratta di una circostanza che resta inspiegata. I sarcofagi destinati ad essere addossati al muro infatti non avevano decorazione sul lato posteriore (che sarebbe stata inutile), mentre quello di Melfi è riccamente istoriato su tutti i lati.

Rimosso dal luogo di ritrovamento il sarcofago venne portato a Melfi con l'iniziale proposito di destinarlo definitivamente al Museo Borbonico di Napoli. Quest'ultimo trasferimento non ebbe mai luogo e il monumento funebre rimase a Melfi dove ebbe nel tempo diverse collocazioni per essere infine conservato nel museo archeologico ospitato nell'insigne castello normanno-svevo della città.

Sin dalla pubblicazione della scoperta - dovuta allo studioso napoletano Giulio Minervini in uno scritto dello stesso anno del rinvenimento del sarcofago - apparve chiara l'eccezionalità del ritrovamento che infatti sin da inizio Novecento fu oggetto di numerosi studi da parte di molti autorevoli studiosi, italiani e non.

Il primo studio sistematico dell'opera è quello pubblicato nel 1913 dall'archeologo tedesco Richard Delbrueck, scritto che è tuttora un punto di riferimento nella storiografia sulla tomba del castello di Melfi[1]. Il Delbrueck confermava e precisava l’intuizione già avuta del Minervini sulla datazione di età antonina del manufatto con argomenti costantemente accettati dagli studi successivi.

Lo studioso tedesco tuttavia ipotizzava per il sarcofago lucano una provenienza attica, conclusione poco dopo corretta da Charles Rufus Morey (storico dell'arte e archeologo statunitense) che nelle sue fondamentali ricerche sui sarcofagi di età imperiale provenienti dall'Asia Minore riconduceva il monumento melfitano a questa tipologia di opere e scorgendovi uno degli esemplari più antichi e più belli mai rinvenuti.

Il Morey ipotizzava che il sarcofago fosse stato realizzato in un atelier di Efeso (odierna Turchia), ma studi più recenti - anche in considerazione della tipologia del marmo utilizzato - tendono a situare il luogo di fabbricazione dell'opera nell'area di Docimium, antica città Frigia (sempre nell'attuale territorio turco), che anticamente fu celebre per le sue cave di marmi pregiati e per la presenza di botteghe lapicide capaci di produrre manufatti di grande raffinatezza esportati in tutto l'impero romano.

Descrizione

Architettura ed elementi decorativi

 

Il Sarcofago di Melfi è, come attestato per primo dal Morey, per datazione e qualità, una delle più significative testimonianze dell'ampia diffusione che in età imperiale ebbero, anche nelle aree occidentali dell’impero romano, monumenti funerari di provenienza microasiatica.

La tomba melfitana in particolare è una delle più antiche attestazioni (se non la più antica attualmente nota) di uno specifico sottogenere di sarcofago asiatico detto a colonette, in virtù della compartimentazione delle facce della cassa funeraria mediante un'architettura ad edicole definite da una trabeazione che poggia per l'appunto su piccole colonne di tipo corinzio con scanalatura obliqua.

 

Più in dettaglio questo tipo di manufatto (come nell'esemplare di Melfi si coglie in modo chiarissimo) è caratterizzato dalla presenza di sei colonne sui lati lunghi della cassa e quattro su quelli corti. Le colonne così definiscono cinque o tre nicchie su ogni lato (a seconda se lungo o corto). Le nicchie centrali e quelle esterne dei lati lunghi hanno struttura ad edicola: l'edicola centrale culmina in un frontone a timpano mentre le due esterne dei lati lunghi sono sormontate da un arco. La volticella delle edicole è a forma di conchiglia.

Le nicchie che non hanno coronamento ad edicola sono definite da un architrave dall'andamento concavo (concavità che consente l'inserimento di una statua) che poggia sul colonnato corinzio.

Nelle nicchie, tanto in quelle ad edicola quanto in quelle degli intercolunni, compiano delle statue in alto rilievo: si tratta di divinità ed eroi che nel caso melfitano restano in parte di dubbia identificazione. Nella nicchia centrale del lato breve è raffigurata la porta dell'Ade, l'oltretomba del mondo greco-romano.

La struttura architettonica che circonda la cassa funebre sin qui descritta riproduce illusionisticamente e in piccolo formato un Heroon, cioè un tempietto sepolcrale che ospitava la tomba di un eroe. La cassa funebre è poi sormontata da un coperchio che generalmente - e il caso di Melfi non fa eccezione - è costituito dalla riproduzione di una kline, cioè un letto da convivio, sul quale è sdraiata la figura del defunto.

La figura sulla kline

Sul letto del sarcofago di Melfi è adagiata una donna di età ancor giovane per quanto difficilmente determinabile. L'apparato scultoreo della cassa (come si vedrà oltre) potrebbe comunque far pensare che la giacente, ancorché morta prematuramente, sia stata madre. La donna è sdraiata sul letto, dormiente (quindi ancora viva) ed è leggermente reclinata su un fianco. Poggia la guancia su dei cuscini e quindi il suo viso è visibile dall'osservatore.

Ai piedi della donna v'era un cane di piccola taglia di cui oggi restano solo i piedi. È un attributo iconografico che simboleggia la fedeltà intesa come virtù muliebre. Alla testa del letto vi è invece un erote, in stato di conversazione compromesso, che rovescia una fiaccola, spegnendola: è un'allusione alla morte.  

Particolarmente significativa è l'acconciatura della donna, con i capelli ripartiti in trecce ondulate, raccolti in uno chignon sulla nuca e con il lobo dell'orecchio scoperto. La foggia della capigliatura infatti è l'elemento che ha consentito a Richard Delbrueck di datare il sarcofago. Rilevando la forte somiglianza della pettinatura della donna di Melfi con quella che si osserva in alcune monete raffiguranti le imperatrici della dinastia antonina Faustina Minore e Lucilla, databili intorno al 160-170 d.C., l'archeologo collocò in quello stesso periodo temporale il anche il sarcofago melfitano. Del resto, osserva il Delbrueck, che l'effige della donna sulla kline non è propriamente un ritratto fisionomico e dal vero: dagli esempi messi a disposizione dalla monetazione imperiale è quindi stata ripresa non solo la pettinatura ma più in generale un tipo muliebre, al fine di sottolineare l'altro rango sociale della persona che sarebbe stata sepolta nel sarcofago. Queste argomentazioni, e la conseguente datazione dell'opera, sono state costantemente accettate dagli studi successivi[2].

Le statue della cassa

Sulla cassa funeraria sono scolpite quindici figure: cinque su ognuno dei lati lunghi, tre nel lato breve corrispondente ai piedi della kline e due sul lato breve opposto, al centro delle quali vi è la già menzionata porta dell'Ade.  

Note

  1. ^ Richard Delbrueck, Der römische Sarkophag in Melfi. A. Fundort, Literatur, in Jahrbuch des Kaiserlich Deutschen Archäologischen Instituts, 28, 1913.
  2. ^ Richard Delbrueck, Der römische Sarkophag in Melfi, 1913, cit., pp. 299-302.