ʿAlāʾ al-Dīn II Khaljī, nato col nome di ʿAlī Gurshap e autosoprannominatosi Sikander Sānī, "Alessandro secondo" (Delhi, 1266Delhi, 3 gennaio 1316), fu il 14º sultano di Delhi, noto per le sue riforme economiche e per aver definitivamente respinto i diversi tentativi d'invasione dell'India da parte dei Mongoli grazie alla sua ferocia e all'efficienza del suo esercito.

ʿAlāʾ al-Dīn II
Un dipinto del XVII secolo di ʿAlāʾ al-Dīn II.
Sultano di Delhi
In carica1296 –
1316
PredecessoreRukn al-Dīn II
SuccessoreShihāb al-Dīn
Nome completoʿAli Gurshap ʿAlāʾ al-Dīn Khaljī Sikandar Sānī Muḥammad Shāh
NascitaDelhi, 1266
MorteDelhi, 3 gennaio 1316
SepolturaComplesso di Qutb
DinastiaKhalji
PadreShihāb al-Dīn Masʿūd
Coniugiuna figlia di Jalāl al-Dīn
Mahru (regina)
Kamala Devi (favorita)
FigliShihāb al-Dīn
Quṭb al-Dīn
ReligioneIslam sunnita

Inizi

'Ala al-Din nacque nel 1266 circa con il nome di ʿAlī Gurshap da Shihāb al-Dīn Masʿūd, fratello maggiore del sultano Jalāl al-Dīn, e fu cresciuto dallo zio a causa della morte prematura del padre[1] Durante il regno di Jalāl al-Dīn-ud-dīn fu muqṭī ("governatore") di Kara, vicino ad Allahabad, e come tale si pose alla testa di un esercito, compiendo alcune incursioni nei territori a sud dei monti Vindhya: nel 1292 razziò Malwa e due anni dopo invase il regno yadava di Devagiri con qualche migliaio di cavalieri, saccheggiandolo e costringendolo al pagamento di un tributo annuo. Dopo l'uccisione dello zio, della quale 'Ala al-Din fu responsabile, nonostante ne fosse il nipote prediletto e il genero, usò le ingenti ricchezze razziate a Devagiri per spianarsi la strada verso il trono e nel 1296 fu proclamato sultano di Delhi.[2]

La politica economica

ʿAlaʾ-ud-dīn pose mano all'amministrazione dello Stato riformandola in senso centralista per rendere più sicura l'autorità del sultano ed evitare che venisse posta in discussione dai nobili; al contempo varò delle riforme volte ad assicurare allo Stato ingenti entrate finanziarie.

'Ala al-Din esautorò infatti i membri dell'aristocrazia terriera confiscando i jagir (tenute fondiarie esentasse) precedentemente loro assegnati, ottenendo contemporaneamente una risorsa finanziaria per stipendiare direttamente l'esercito. Inoltre aumentò la pressione fiscale con l'istituzione di nuove tasse (sulla casa e sul bestiame da latte) e l'aumento dell'imposta fondiaria fino all'equivalente di metà del raccolto; l'esazione fiscale fu più severa e fatta rispettare grazie ad una rete di spie e cortigiani così come venne messo sotto controllo il reddito dei mercanti; sia l'oro che l'argento non vennero più accantonati da parte dei privati e fu proibita l'incetta di frumento; venne calmierato il prezzo dei generi di prima necessità (cereali, altre cibarie, stoffe); fu introdotta una licenza per l'esercizio del commercio; la vendita del frumento fu permessa solo a prezzo fisso e nei mercati autorizzati a questo tipo di vendita. Il beneficio di queste riforme fu di consentire alla popolazione civile e ai militari di condurre una vita decente, mentre i limiti furono da una parte la scarsa efficacia dei controlli nelle zone via via più lontane da Delhi e dall'altra l'ostilità di contadini e mercanti che si consideravano colpiti dalle riforme economiche di ʿAlaʾ-ud-dīn.[3]

La minaccia mongola

 
Cavalleria mongola agli inizi del XIV secolo.

Le riforme varate da 'Ala al-Din avevano lo scopo di permettere il mantenimento di un grande esercito permanente che potesse fronteggiare efficacemente la minaccia mongola: per circa un secolo infatti (dal 1221 al 1329) i Mongoli tentarono più volte di attraversare i passi afghani per irrompere nella pianura indo-gangetica e portare la devastazione in tutto il nord dell'India.

Durante il regno di 'Ala al-Din ci furono cinque tentativi di invasione: nel 1296 (giusto pochi mesi dopo l'ascesa al trono), nel 1297, nel 1299, nel 1303-1304, nel 1307-1308. Di queste, la terza e la quarta invasione furono le più gravi perché arrivarono a minacciare direttamente Delhi. In tutte queste occasioni però gli invasori furono sconfitti, subendo perdite anche molto gravi: poco dopo la terza invasione, quella del 1299, 'Ala al-Din si liberò dei cosiddetti "nuovi musulmani", una grossa comunità di Mongoli che avevano fatto parte di un precedente corpo d'invasione arrivato nel 1292 durante il regno di Jalāl-ud-dīn: questi sconfitti e catturati si erano convertiti all'Islam ed erano stati insediati nella regione attorno a Delhi; il loro comportamento però era stato ambiguo, se non addirittura infido, e 'Ala al-Din, non fidandosi più e ritenendo la loro presenza un pericolo, semplicemente li fece sterminare dal suo esercito (fra i 20 000 e i 30 000 morti in un giorno solo).

Durante le ultime due invasioni 'Ala al-Din adottò un'usanza degli stessi Mongoli: fece elevare piramidi di teste tagliate ai nemici; nell'ultima, quella del 1308, lo stesso capo spedizione, Iqbalmand, fu ucciso durante il combattimento e i suoi generali catturati e giustiziati.

Le pesanti perdite subite e l'eccessiva durezza con cui 'Ala al-Din trattò i prigionieri (di solito sterminati) fecero desistere per sempre i Mongoli dal tentare altre invasioni (solo nel 1328-1329 ci fu una breve incursione approfittando del fatto che il sultano era occupato in una campagna militare nel sud).[4]

Le guerre nel sud

 
Il forte di Devagiri.

Con la sconfitta di Iqbalmand cessò il pericolo proveniente da nord; a quel punto le forze del sultanato poterono essere rivolte in direzione opposta per depredare i ricchi Stati del sud. La politica espansionista di 'Ala al-Din seguì due linee guida: inviare dei comandanti fidati alla testa delle spedizioni e imporre dei tributi anziché tentare direttamente l'annessione. Il sultano si rese conto infatti che guidare le spedizioni in prima persona avrebbe significato abbandonare le ricche regioni di Delhi e del Doāb che assicuravano la sopravvivenza dello Stato e il potere dello stesso Sultano; inoltre voler imporre il dominio diretto sugli Stati a sud della barriera geografica costituita dai monti Vindhya e dal fiume Narmada avrebbe significato guerre lunghe e dispendiose, perciò preferì imporre ai territori invasi un grosso riscatto per ottenere la fine dell'occupazione e un tributo annuale.

Già nel 1294 'Ala al-Din aveva saccheggiato Devagiri, mentre nel 1297 aveva conquistato e annesso il Gujarat. Nel 1307 attaccò nuovamente Devagiri, il cui sovrano Shankaradeva si era rifiutato di pagare il tributo imposto in precedenza, e il regno fu conquistato definitivamente divenendo la base operativa per le successive spedizioni nel Deccan; da qui partì per sconfiggere i Rajput, nel 1309 occupò il regno Kakatiya e infine nel 1310 l'esercito di 'Ala al-Din razziò il regno Pandya nell'estremo sud del subcontinente indiano. Quando ʿAlāʾ-ud-dīn morì, gran parte del Deccan fu posto sotto tributo da parte di Delhi ma significativamente soltanto Devagiri fu annessa direttamente al Sultanato, mentre solo l'Orissa e il regno Pandya rimasero completamente indipendenti.[5]

Relazioni familiari

'Ala al-Din sposò due donne in epoca imprecisata ma comunque molti anni prima del 1290: una era figlia di Jalāl al-Dīn, l'altra era Mahru, sorella di uno dei suoi migliori amici, Malik Sanjār, in seguito noto come Alp Khān. La relazione con le due donne fu molto diversa: Mahru era la favorita tanto che fu creata regina (Malik-i Jahān, "regina del mondo"), mentre la figlia di Jalāl al-Dīn, rósa dalla gelosia, mantenne sempre un comportamento arrogante verso ʿAlāʾ al-Dīn e aggressivo verso Mahru.[1]

La situazione cambiò nel 1297 quando, dopo la spedizione in Gujarāt, vennero portati ad ʿAlāʾ al-Dīn due prigionieri speciali: una era Kamala Devi, regina del Gujarat, l'altro era Kāfūr, uno schiavo eunuco. Kamala Devi divenne la nuova moglie favorita, mentre Kāfūr divenne l'amante di ʿAlāʾ al-Din, tanto da ricevere da lui incarichi importanti, fino a diventarne il vice.[6]

Note

  1. ^ a b Mehta, p. 137.
  2. ^ a) Wolpert, p. 109; b) Torri, p. 203.
  3. ^ Wolpert, p. 111.
  4. ^ a) Wolpert, p. 112; b) Torri, pp. 191, 193 e 194.
  5. ^ a) Wolpert, p. 112; Torri, p. 204.
  6. ^ a) Wolpert, p. 111; b) Torri, p. 220.

Bibliografia

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