Utente:Alfreddo/Sandbox
che a ne liga e a ne porta 'nte 'na creuza de mä»
«..padrone della corda, marcia d'acqua e di sale,
che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare»
| Alfreddo/Sandbox | |
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| Certificazioni FIMI (dal 2009) | |
Album precedente
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Creuza de mä (1984) è l'undicesimo album registrato in studio di Fabrizio De André. È stato ed è considerato da parte della critica una delle pietre miliari della musica degli anni ottanta.[1]
Il disco
Tutte le canzoni, scritte e composte da De André e da Mauro Pagani (ex PFM), sono interpretate in dialetto genovese (in realtà un genovese antico e ricco d'influenze mediterranee, infatti il disco ebbe difficoltà di comprensione linguistica persino tra gli stessi genovesi): si tratta di una scelta che andava, nel 1984, contro tutte le regole del mercato discografico e che - contro tutte le aspettative - ha segnato il successo di critica e di pubblico del disco, che ha, infatti, indubbiamente segnato una svolta nella musica italiana.
Al centro dei testi del disco ci sono i temi del mare e del viaggio, temi che le canzoni del disco contribuiscono ad esprimere anche sotto l'aspetto musicale grazie a contributi audio registrati al mercato del pesce di Piazza Cavour a Genova[2] e ai suoni di strumenti etnici dell'area mediterranea.
Il titolo dell'album e della canzone principale fa riferimento alla creuza, termine che in dialetto genovese significa sentiero o mulattiera di mare, cioè un elemento urbanistico simile al caratteristico caruggio del centro storico genovese, ma qui riferibile prevalentemente al tipico paesaggio costiero ligure, ricco di passaggi tra la spiaggia ed il primo entroterra.
La genesi
Le esperienze precedenti
Il disco senza dubbio segna una svolta nella carriera musicale di Fabrizio De André, che spezza i legami con la tradizione francese, alla quale era legato dagli esordi, la poesia in musica di Cohen e i recenti "esperimenti" di matrice americana, prima con le traduzioni di Bob Dylan, poi con la collaborazione con Massimo Bubola, che lo aveva avvicinato a sonorità più blues-rock.
Tuttavia il cantautore aveva avuto esperienze con musica popolare e dialettale di tradizione mediterranea già nel 1972, quando compose le musiche dei brani in dialetto genovese A famiggia di Lippe e Ballata triste per il cantautore folk genovese Pietro Parodi; conobbe inoltre il poeta dialettale genovese Mario Tortora e si interessò alla ricerca dell'etnomusicologo Edward Neill. Fabrizio dimostrò grande interesse per la cultura ligure, che si concretizzò in lunghi studi, compiuti tra vecchi testi e interviste agli anziani della Foce (il quartiere di Genova dove abitava Fabrizio), alla ricerca di antiche tradizioni e racconti popolari.
Attraverso le sue ricerche De André si convinse della mancanza di un vero contatto tra la musica folkloristica che allora era diffusa e la reale tradizione popolare genovese, soprattutto a causa dell'introduzione di temi musicali lombardi e piemontesi, oltre a valzer e tanghi adottati per il mercato degli emigranti in Sudamerica; proprio in relazione con le sonorità sudamericane nacque negli anni sessanta un nuovo filone compositivo che, sfruttando l'assonanza tra genovese e portoghese, utilizzava ritmi brasiliani per musicare testi dialettali, allontanando in questo senso ancor di più la musica dalla tradizione ligure.
Fabrizio si persuase dunque dell'esistenza di due livelli di musica popolare: quella che chiama "musica folkloristica" in realtà è musica tesa al consumo delle classi elevate, mentre la "musica etnica" è la musica interna al popolo, realizzata per il divertimento del popolo stesso. [3]
Con il trasferimento in Gallura, presso Tempio Pausania, durante la prima metà degli anni '70, De André ebbe l'occasione di di avere una visione più ampia sulle tradizioni popolari: l'impatto della cultura sarda si manifestò nell'uso del gallurese nel Baddu tundu Zirichiltaggia (1978), dove il testo dialettale si sposa con la square dance americana[4], e in Ave Maria (1981), canto popolare adattato e arrangiato da Mark Harris in chiave rock.
Nonostante l'interesse per il patrimonio culturale popolare, probabilmente perché (a detta dello stesso De André) i tempi non erano sufficientemente maturi, Fabrizio non prese mai seriamente in considerazione l'idea di comporre un album in dialetto; decisivo in tal senso fu l'incontro fortuito con Mauro Pagani, nel 1981.
L'idea e il "cosa"
Fabrizio ebbe occasione di incontrare nuovamente Mauro Pagani durante la registrazione dell'Indiano (Pagani aveva già collaborato con Faber come flautista ne La buona novella), proprio mentre Mauro registrava Sogno di una notte d'estate; nacque l'idea di un tour assieme. Mauro, dopo aver lasciato la PFM, aveva cominciato un percorso di ricerca etnico-musicale interno all'area mediterranea e in particolare mediorientale, convinto della necessità di sfruttare maggiormente le tradizioni locali piuttosto che il blues americano o la classica, soffermandosi anche sull'utilizzo della strumentazione etnica.
L'idea di un'opera "etnica" sfiorava da tempo anche Faber: nacque tra i due un progetto che intendeva staccarsi nettamente da tutte le sovrastrutture "folkloristiche" per riportarsi completamente alla struttura etnica e popolare del bacino mediterraneo, abbracciando le radici popolari "dal Bosforo a Gibilterra".
Pagani e la musica
Quasi un anno di lavoro
arabo? lingua?
strumenti strumenti elettronici
Un'altra grande sfida per fu quella di riuscire a conciliare le sonorità etniche con gli strumenti elettronici come il synclavier ("Un'intera sezione di archi ci sarebbe costatata un occhio della testa con risultati poi del tutto simili" [7]), i quali posseggono tuttavia, secondo lo stesso De André, la straordinaria capacità di "rendere, da un punto di vista visivo, quello che invece sei costretto solo ad ascoltare" [8]:
Il lavoro a quattro mani
Le registrazioni avvennero a Milano nel piccolo studio casalingo di Pagani, chiamato scherzosamente da Mauro "Felipe Studio" in onore del proprio gatto, a partire dal torrido agosto del 1983, e si protrassero per oltre due mesi. I lavori si spostarono poi al Castello di Carimate, dove vennero ultimate le registrazioni ed effettuati i missaggi, e si conclusero il 23 dicembre.[11]
La scelta del dialetto
Questa intuizione così coraggiosa rappresentò di fatto la vera svolta del disco. Tutto insieme si definì il "dove", il "cosa", il "come". Il viaggio immaginario era diventato di colpo reale e vivido, la musica abito naturale di ricordi, cronache e leggende di un passato neanche tanto lontano. In una settimana Faber aveva già trovato tutti i personaggi, tutte le città in cui fare scalo, e soprattutto un passo narrativo degno dei più grandi cantastorie»
La meta che la coppia si era proposta di raggiungere prevedeva l'utilizzo di una lingua dotata di una sonorità che, già al primo ascolto, rimandasse all'idea di Mediterraneo e che si fondesse armonicamente col suono degli strumenti di Mauro. Le melodie furono scritte in una strana specie di esperanto che univa arabo e idiomi della penisola italiana, ma la soluzione era solamente provvisoria, poiché Faber intendeva utilizzare una lingua di cui conoscesse i segreti, i suoni e la pronuncia; fu per questo motivo che la prima opzione, il gallurese, venne scartata: sebbene abitasse da circa dieci anni in Sardegna, De André non riteneva di avere sufficiente padronanza dell'idioma locale. È possibile tuttavia udire traccia di questo dialetto nel ritornello del brano Creuza de mä.
La coraggiosa scelta di interpretare i testi del disco in dialetto poggia principalmente su due motivi, uno legato alla valenza "mediterranea" del dialetto ligure, l'altra alla sua versatilità poetica e la libertà lessicale, ma vi è anche una valenza politica.
Ho voluto raccontare Genova che commerciava con i saraceni, che trasportava i crociati in Terrasanta senza smettere i traffici con gli infedeli»
L'utilizzo del genovese nell'opera ebbe una precisa valenza politica, coerente col pensiero deandreiano, ovvero quella della salvaguardia degli idiomi particolari e della loro dignità. Le lingue locali, nella visione di De André, hanno una funzione di fertilizzante, di nutrimento nei riguardi della lingua nazionale, che altrimenti rischia di perdere la sua vivacità e bellezza, e di diventare una lingua fredda e commerciale come avvenuto per l'inglese.
D'altro canto, lingua e dialetto...
La pronuncia
Tuttavia il dialetto utilizzato da De André risultò di difficile comprensione persino agli stessi genovesi: la dizione, infatti, suonava "strana" alla gente di Genova; lo stesso Beppe Grillo lo canzonava bonariamente per la sua pronuncia degli accenti aperti e chiusi, il cui scambio, in genovese, va spesso a cambiare il significato della parola (ad esempio pégua è la pecora, mentre pègua è il paracqua).
De André si scusò sostenendo che il motivo era la sua lontananza da Genova; in più Fabrizio si era formato nell'ambiente dell'alta borghesia, con genitori non liguri e non dialettofoni, e aveva appreso il dialetto insieme agli amici tra i vicoli della città vecchia, come una sorta di trasgressione.
Le scelte lessicali
Ad aumentare il distacco dal genovese corrente, che Faber riteneva ironicamente "napoletanizzato", ci fu la scelta di utilizzare il genovese del 1700, scevro da italianizzazioni e più simile alla lingua panmediterranea che Fabrizio intendeva usare per il suo progetto.
Le scelte linguistiche
La voce
canto
La parola stessa, cantata in una certa maniera, è musica essa stessa
Tracce
- Creuza de mä - 6:16
- Jamin-a - 4:52
- Sidún - 6:25
- Sinàn Capudàn Pascià - 5:32
- Â pittima - 3:43
- Â duménega - 3:40
- D'ä mê riva - 3:04
- Testi: Fabrizio De André, con la collaborazione di Mauro Pagani
- Musiche e arrangiamenti: Mauro Pagani, con la collaborazione di Fabrizio De André
Le canzoni
Creuza de mä
È la canzone d'apertura e dà il titolo all'album. La creuza de mä nel genovesato sarebbe una mulattiera, una strada collinare che solitamente delimita i confini di proprietà e porta verso il mare, la traduzione esatta è infatti "mulattiera di mare".
Il disco comincia con un lungo assolo di gaida della Tracia, la cornamusa più diffusa del bacino mediterraneo, che De André aveva scelto nella folta collezione di musiche mediterranee a casa di Mauro.[13] Fabrizio optò proprio per la gaida perché, dati la sua diffusione e il suono inconfondibile, "ha la funzione di banditore, come a dire: "Signori, si va a raccontare una storia sul mediterraneo"".[7]
La gaida lascia spazio ad un re basso e prolungato, che introduce la tonalità della canzone; il brano è guidato in prevalenza dai suoni di due liuti, il bouzouki greco e la viola a plettro. Il testo è incentrato sulla figura dei marinai e sulle loro vite da eterni viaggiatori, e racconta il loro ritorno a riva dopo la nottata passata al largo a pesca; De André parla delle loro sensazioni e delle loro paure, della sete di mare e della loro voglia di terra, di questo eterno andare e venire. Il ritornello è cantato in gallurese, a sottolineare la visione mediterranea e non solo genovese del disco.[13]
Terminano il brano le voci dei venditori al mercato del pesce di Piazza Cavour, a Genova, che "cantano" anch'esse in tonalità di re, fondendosi perfettamente con la canzone.
Jamin-a
Tra le canzoni più "spinte" e sensuali di Fabrizio De André, è un vero e proprio inno o elogio dell'erotismo, impersonato dalla "lupa di pelle scura" Jamin-a, capace di fare l'amore in modo travolgente e quasi insaziabile. Voglia d'amore che però racchiude qualcosa di più elevato e spirituale, come se l'unirsi dei due corpi sottintenda qualcosa di più d'un semplice atto fisico.
Il brano, accompagnato da un oud, un liuto arabo, è solcato dal suono serpeggiante dello shanai, un oboe di origine turca, mentre scandisce il ritmo uno zarb turco, un piccolo tamburo a forma di calice dalle lontane origini persiane.
Sidún
Brano di eccezionale bellezza, una delle perle artistiche di Fabrizio De André. Il testo, poetico e struggente, mostra lo strazio di un padre di fronte alla morte violenta, in guerra, del proprio figlioletto e può essere considerato un bellissimo inno contro la stupidità e l'inutilità di tutte le guerre.
"Sidùn" è la città di Sidone, in Libano, teatro, all'epoca della stesura del disco, di ripetuti massacri durante la guerra civile che sconvolse il paese (campo di battaglia di Siria e Israele) dal 13 aprile 1975 fino al 1991. A farne le spese fu in massima parte la popolazione civile, soprattutto i numerosissimi rifugiati palestinesi.
La piccola morte, a cui accenno nel finale di questo canto, non va semplicisticamente confusa con la morte di un bambino piccolo. Bensì va metaforicamente intesa come la fine civile e culturale di un piccolo paese: il Libano, la Fenicia, che nella sua discrezione è stata forse la più grande nutrice della civiltà mediterranea.»
Proprio per sottolineare la stretta relazione con gli avvenimenti che allora scuotevano il Medio Oriente, la canzone è introdotta dalle voci di Ronald Reagan e Ariel Sharon, alle quali fa da sfondo il rumore dei carri armati. [15] Il modulo compositivo della canzone rispecchia le strutture musicali libanesi e curde.
Sinàn Capudàn Pascià
Il pezzo narra la storia, vera, di un marinaio della flotta di Genova, chiamato Cigala, catturato dai Mori durante uno scontro navale e in seguito diventato Gran Visir per aver salvato la vita al sultano col nome di Sinan Capudan Pascia.
 pittima
 pittima rappresentava, nell'antica Genova, la persona a cui i privati cittadini si rivolgevano per esigere i crediti dai debitori insolventi. Il compito della pittima era di convincere, con metodi più o meno leciti, i debitori a pagare; ancora oggi a Genova la parola è sinonimo di persona insistente, noiosa, appiccicosa.[2]
L'incedere lento ed oscillante del protagonista è reso sonoramente con l'uso di un flauto traverso e un flautino a canna, accompagnati da un bouzouki.
 duménega
Mauro: Io ho fatto "Â duménega" avvertendo Fabrizio che la gente avrebbe detto: "Eh, questo è il Fabrizio di una volta!"»
Al pezzo, scritto in 6/8, tempo di ballata popolare, contribuiscono un mandolino classico e uno elettrico; quest'ultimo è suonato da Franco Mussida, chitarrista della PFM, che esegue anche, sul finale, un assolo di chitarra andalusa.
Il brano racconta in maniera ironica il "rito" della passeggiata domenicale che il comune di Genova concedeva un tempo alle prostitute, per tutta la settimana relegate a lavorare in un quartiere della città prestabilito. De André riporta le scenate dei cittadini al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dal finto moralismo: da chi grida loro qualsiasi epiteto salvo poi frequentarle durante la settimana, al proprietario del molo, felice di tutto quel ben di Dio a passeggio che porta tanti soldi nelle casse del Comune, favorendo la ristrutturazione del molo stesso (giacché il Comune di Genova con i ricavi degli appalti delle case di tolleranza sembra riuscisse a coprire per intero gli annuali lavori portuali[2]) ma le insulta comunque "per coerenza", al rozzo bigotto, che, per legge di contrappasso, mentre sbraita contro le prostitute vede tra quelle la propria moglie.
D'ä mê riva
Il brano chiude idealmente il discorso sull'eterno viaggiare dei marinai aperto ad inizio album con "Creuza de mä". Qui infatti vediamo un marinaio al momento della ripartenza per un nuovo viaggio salutare con un triste canto d'addio l'innamorata che lo guarda dal molo e la sua città, Genova.
È un momento sottilmente drammatico, un momento che si vive come accecati da un controsole, e che suscita la nostalgia nel momento stesso in cui l'imbarcato fa l'inventario del suo baule da marinaio preparatogli dalla moglie: tre camice di velluto, due coperte, il mandolino e un calamaio di legno duro [...] .
[Della] compagna della vita resta al marinaio soltanto una fotografia di quando lei era ragazza, una fotografia sbiadita in fondo ad un berretto nero, per poter baciare ancora Genova sull'immagine di una bocca che io definisco "in naftalina".»
È lo stesso De André che suona il delicato arpeggio con una chitarra ottava, una piccola chitarra con le corde di ferro accordata un'ottava sopra la chitarra comune.
Crediti
- Produzione: Mauro Pagani e Fabrizio De André
- Tecnici del suono: Allan Goldberg, Lucio Visintini
- Coproduzione di studio e missaggi: Allan Goldberg
- Assistenti di studio: Nick Lovallo e Dario Caglioni
Musicisti
- Shanai in Jamin-a: Mario Arcari
- Synclavier: Aldo Banfi
- Zarb e percussioni: François Bedel
- Consulenza strumenti etnici e medioevali: Francis Biggi
- Batteria: Walter Calloni
- Basso in Sinàn Capudàn Pascià: Dino D'Autorio
- Chitarra ottava in D'ä mê riva e voci: Fabrizio De André
- Yamaha GS-2: Edo Martin
- Chitarra classica sei corde e mandolini elettrici in  duménega: Franco Mussida
- Oud, saz, bouzouki, mandole e mandolini, violino e viola a plettro, Roland SPV-335, flauti, voci: Mauro Pagani
- Percussioni: Maurizio Preti
- Basso: Massimo Spinosa
- Introduzione a Creuza de mä da Aria per gaida sola (Tracia) del gruppo strumentale diretto da Domna Samiou (per gentile concessione Emial - Greece)
Riconoscimenti
L'album e la canzone Creuza de mä si aggiudicano la Targa Tenco.
L'impatto culturale
- L'album sarà reinterpretato nel 2004 da Mauro Pagani, rinnovandone l'arrangiamento e aggiungendo quel tocco di esotismo che caratterizza la sua musica: oltre alle tracce già presenti nel disco originale, in 2004 Creuza de mä sono contenute Al Fajr, introduzione vocalizzata nello stile dei canti sacri della Turchia, Quantas Sabedes, Mégu Megùn, contenuta nel disco di De André Le nuvole e Nuette, opere mai pubblicate a nome "De André".
Note
- ^ David Byrne ha dichiarato alla rivista Rolling Stone che Creuza è uno dei dieci album più importanti della scena musicale internazionale degli anni ottanta. [1]
La rivista "Musica & Dischi" ha eletto l'album il migliore degli anni '80 [2] - ^ a b c Note presenti sul disco
- ^ Luciano Lanza. Intervista a Fabrizio De André (1993). [3]
- ^ Marco Mangiarotti. Suonate le trombe, è tornato De André. Intervista da "Corriere della sera illustrato", 6 maggio 1978. [4]
- ^ a b c Mauro Pagani. Il sentiero delle parole, in AA.VV. Deandreide. Milano, BUR, 2006.
- ^ Carlo Silvestro. Io, Fabrizio De André. Intervista da "Frigidaire", maggio 1984. [5]
- ^ a b Flavio Brighenti. Il poeta genovese stavolta canta Genova ma solo in genovese. Intervista da "Il lavoro", 2 marzo 1984. [6]
- ^ Doriano Fasoli. Un sogno mediterraneo. Intervista da "Il manifesto", 24 aprile 1984. [7]
- ^ Intervista con Fabrizio De André. Intervista da "Musica", 1 maggio 1984. [8]
- ^ a b c Walter Gobbi. Il cantautore ha un cuore antico. Intervista da "Tutto", 1 giugno 1984. [9]
- ^ Riccardo Bertoncelli, Intervista a Mauro Pagani, in Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De André, 1ª ed., Giunti, 2003, ISBN 978-88-09028-53-1.
- ^ Marco Mangiarotti. Sulle mulattiere del mare. Intervista da "Il giorno", 1 marzo 1984. [10]
- ^ a b c Giancarlo Susanna. Un viaggio nel sole e nell'azzurro del mediterraneo - Intervista a Fabrizio De André e Mauro Pagani. Fare Musica, 1 giugno 1984 [11]
- ^ a b c d e Creuza de mä - Incontro con Fabrizio De André, film-documentario di Mixer (1984) commentato dallo stesso De André. prima parte
- ^ Canzoni contro la guerra - Sidún
Collegamenti esterni
- Descrizione dell'album
- bielle.org - testi e note di copertina
- giuseppecirigliano.it - Creuza de mä
- viadelcampo.com - Creuza de mä
- ondarock.it - Creuza de mä