Statuto dei lavoratori
Lo Statuto dei Lavoratori, emanato con la legge n. 300 del 20 maggio 1970, è la norma principale del diritto del lavoro italiano. La sua introduzione provocò importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro, sia su quello dei rapporti fra i datori di lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali, e tuttora di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l'ossatura delle previsioni ordinamentali in materia e dunque di tutta questa branca del diritto.
Le premesse storiche
L'esigenza di una regolazione precisa ed equitativa dei meccanismi del mondo del lavoro crebbe di importanza nella seconda metà del Novecento quando, dovendosi ripensare la strutturazione dello stato post-fascista, la revisione dei rapporti sociali dovette tener conto dell'accresciuta rilevanza del lavoro fra i temi sociali nel novello regime di democrazia, non intendendosi peraltro prolungare nemmeno per questa materia, almeno oltre lo stretto necessario, le variazioni introdotte sotto la dittatura (per lo più dipendenti dai corposi interventi effettuati da quel regime sulla struttura dello stato e sui suoi apparati).
Parallelamente, i giuristi discettavano sull'eventuale utilità ed opportunità di rifocalizzare il contratto di lavoro analizzando il lavoratore nella sua posizione di soggetto contraente, anziché traguardare la materia riferendosi all'oggetto negoziale (la prestazione d'opera), tecnicamente parlandosi di rivalutazione della capacitas.
Nel dopoguerra, perciò, l'approvazione di una Carta costituzionale contenente proprio al suo primo articolo il riferimento al lavoro come luogo fondante dell'ordinamento repubblicano, diede un ulteriormente corroborante valore simbolico alle tensioni politiche che già dalla fine dell'Ottocento propugnavano forme di "civilizzazione" del lavoro dipendente e subordinato e che miravano ad equilibrare in senso democratico la relazione fra padronato e lavoratori. Certo non esenti da qualche almeno marginale influenza della presentazione delle teorie marxiste, queste tensioni vivevano comunque di autonomo sviluppo, coinvolgendo prevalentemente partiti e movimenti di sinistra che si posero a baluardo dei ceti interessati, mentre altre formazioni di impronta conservatrice sostennero politicamente le istanze delle classi padronali.
Il cammino verso una normativa coerente col nuovo dettato costituzionale era partito molto tempo prima ed era avanzato solo per piccoli passi. Le conquiste ottenute sino a quel momento riguardavano infatti piccole, ma per i tempi significative, limitazioni opposte avverso una certa "disinvoltura" nella gestione dei lavoratori: la fissazione di limiti minimi di età per il lavoro minorile in cave e miniere, la riduzione della durata della giornata lavorativa ad 11 ore per i minori ed a 12 per le donne, il diritto di associazione sindacale e quello di sciopero, le prime normative antinfortunistiche e l'obbligo di forme assicurative (1920), il condizionamento del rilascio delle licenze amministrative all'assolvimento dell'obbligo di scolarità dei figli (TULPS - tale obbligo limitava la possibilità pratica di induzione al lavoro di minori e la norma ne incrementò l'efficacia), il divieto di mediazione di lavoro (caporalato - previsione del codice civile), insieme ad altre norme oggi forse non ben riconoscibili nell'importanza che ebbero al tempo in cui furono emanate.
La nascente democrazia "fondata sul lavoro" avrebbe presto dovuto fare i conti con le molte residue arretratezze. Non tardò perciò Giuseppe Di Vittorio (il più autorevole esponente della CGIL, presidente della FSM, la Federazione Sindacale Mondiale) a pronunciarsi apertamente (1952) per l'opportunità della definizione di una legge-quadro che riformulasse l'intera materia, e lo fece parlandone proprio in termini di statuto.
Le premesse economiche e sociali
Gli anni '50 e '60, del resto, furono in argomento caratterizzati da un importantissimo fenomeno, sinteticamente identificabile con la trasformazione del lavoro (e della produzione) rurale in industriale, provocandosi intensi flussi di emigrazione interna e modificandosi le proporzioni numeriche fra addetti all'agricoltura ed addetti alla produzione industriale in senso schiacciantemente a favore di quest'ultima.
La crisi del lavoro della terra (che aveva fra le sue concause la crescita dei costi di produzione e l'introduzione delle macchine) contribuì a rendere disponibili, con la crescente disoccupazione del bracciantato, forze-lavoro in quantità senza precedenti e di queste si servirono le nascenti industrie per rastrellare manodopera a condizioni di oggettivo favore.
Se sino ad allora la condizione del lavoratore dipendente più tipicamente assomigliava alle descrizioni siloneggianti dei mille e mille piccoli borghi di contado che costellavano la nazione, nelle due decadi successive a quella della guerra la figura del lavorante meglio si distinse nelle due direzioni dell'impiego di concetto (in cui anche la burocratizzazione di Stato e "para-stato" accolse grandi numeri di addetti) e del lavoro operaio in un numero costantemente crescente di grandi, piccole e medie aziende industriali, molte delle quali ubicate nel Settentrione d'Italia; oltre all'industria, una quota rilevante di occupazione fu offerta anche dall'edilizia, soprattutto nei grandi centri urbani. Da quest'ultimo settore venne nel 1960 la norma (legge 23 ottobre 1960, n. 1369) che vietava l'appalto di manodopera, pratica che aggirava il divieto di caporalato istituzionalizzandolo ad attività aziendale (sebbene la limitazione dell'applicabilità del divieto escludendola per alcuni settori proprio dell'edilizia sia stata molto contestata).
Prima ancora che lo spostamento delle masse di lavoratori dal Meridione alle regioni in via di industrializzazione potesse valere di premessa per l'esplosione del c.d. "boom" economico, la situazione vedeva dunque un oggettiva sperequazione che, più che in danno dei lavoratori, pareva manifestarsi in favore dei datori di lavoro, ai quali era consentito di gestire con agilità i rapporti con il rispettivo personale, selezionandolo per l'assunzione e gestendolo in seguito con diretto ed incontestabile riferimento agli assolutamente discrezionali indirizzi aziendali, i quali ben potevano comprendere anche fattori personalistici. Si è detto che tale "agilità" possa aver giocato un suo ruolo socialmente utile nello sviluppo economico del periodo, ma le obiezioni a contrasto di tale ipotesi sono numerose, se non proprio prevalenti.
In questo contesto, i rapporti di lavoro furono giudicati iniqui da un numero crescente di analisti, non solo della sinistra, e la stessa contraddittorietà delle pronunce giurisprudenziali, che nel frattempo si trovavano a gestire figure nuove, non di rado di malagevole compatibilità costituzionale o di ardua interpretazione pratica, segnalò l'indifferibilità di una soluzione legislativa che facesse luce sui reali intendimenti ordinamentali, perché la crescita del contenzioso, che ogni volta e per ogni caso evocava situazioni di grave drammaticità specifica, si nutriva anche di radicati contrasti fra princìpi.
Il riscaldamento degli autunni
Le lotte sindacali, nel frattempo, iniziavano a catturare l'attenzione generale. Fortemente politicizzate, poiché ciascuna di esse aveva un suo partito di pressoché diretto riferimento, a livello nazionale si distinsero le formazioni sindacali - tecnicamente delle confederazioni - della CGIL, della CISL e della UIL, che sempre più spesso ebbero a condursi in sintonia sino ad essere presto collettivamente definite come "triplice alleanza" o , tout-court, "la Triplice".
Furono le tre confederazioni a gestire con crescente presenza il progressivo deterioramento dei rapporti fra lavoratori e datori di lavoro, derivante da una condotta più dura delle imprese e conseguente all'avvicinarsi di una crisi che avrebbe poi veduto negli anni '70 raggiungere i suoi punti più tetri.
La lotta sindacale fu asperrima, almeno tanto quanto lo furono le reazioni della classe imprenditoriale, e le esasperate estremizzazioni politiche condussero a numerosi episodi conflittuali o violenti, contrapponendosi sempre più frequenti occupazioni di fabbriche (talune fra le più note) a sempre più duri scontri di piazza con le forze dell'ordine (e vi furono anche numerose aggressioni personali). Si espresse, questa lotta, in una contrapposizione costante, che per taluni interpreti divenne antagonismo oltranzista, ai rappresentanti della proprietà delle aziende che impiegavano forza-lavoro. Produsse campagne collettive per il riconoscimento del salario unico, per il rispetto dei contratti e per arginare la facoltà di licenziamento, divenuta frequente sia per i ripiegamenti produttivi dovuto a cali di mercato, sia per i non infrequenti fallimenti.
Dalla parte imprenditoriale, quasi fisiologicamente, si ribatteva invece che la gestione industriale, detratto quanto afferente alle competenze di indirizzo generale governativo, non poteva essere compartita con soggetti - si sosteneva - non legittimati da ragioni professionali ad ingerirvisi, rifiutando in blocco qualsiasi ipotesi di discussione da parte dei sindacati delle scelte operative aziendali e respingendo qualunque ipotesi di gestione del personale (comprese le fasi di assunzione e licenziamento) che non fosse unicamente determinata dagli organi direttivi aziendali. Le ventilate formule di "democratizzazione", per le quali - si sintetizzava - comitati di operai avrebbero potuto censurare le decisioni economiche e produttive, parvero agli industriali strumentali manovre per il rafforzamento di un già cospicuo potere dei sindacati di condizionare da un lato le attività economico-imprenditoriali, dall'altro quelle del governo. Lo slogan "partecipare alla elaborazione dei programmi produttivi" fu considerato e stigmatizzato come un indebito tentativo di sottomettere l'azione imprenditoriale a quella di alcune forze politiche, dalla quale l'attività delle tre confederazioni era scopertamente ispirata, e se ne segnalò la supposta perniciosità nella parte in cui, proprio poco dopo la stabilizzazione di un vero e proprio mercato internazionale, avrebbe posto pesanti limitazioni alla capacità produttiva (a tutto vantaggio di competitori stranieri) con effetti negativi sulle esportazioni.
Il sospetto, a dire il vero, che le azioni sindacali non siano state sempre e solo disinteressate azioni di tutela della classe lavoratrice, fu avanzato a più riprese da osservatori anche molto diversi fra loro. Furono anche fatte circolare, ad esempio, non documentate "veline" governative, in una delle quali si sospettava che taluni sindacalisti stranieri avessero sollecitato gravi azioni di protesta, tradottesi in cali produttivi, per averne ricevuta remunerata istruzione da parte di industriali americani (questa in particolare assai dubbia, poiché riguardava l'industria automobilistica, in un momento ed in un paese nel quale gli americani non vendevano auto). In Italia i sindacati non furono sospettati di azioni di facciata per privato arricchimento, ma che con questa fase sociale siano divenuti un potere non originariamente compreso fra quelli previsti dalla Costituzione, è stato sostenuto da molti ed effettivamente poco confutato.
La nascita dello Statuto, di fatto, ratificò una posizione guadagnata "sul campo" per la quale i sindacati sarebbero stati, di lì in poi, obbligatorio mediatore nei rapporti fra la collettività dei lavoratori ed i loro datori di lavoro.
Il percorso politico
Politicamente, al principio degli anni '60, i diversi tentativi di rafforzare gli esperimenti governativi di centrosinistra si tradussero in un notevole impegno riformista primariamente ad opera del PSI, il principale interessato a quella formula politica.
Già avanzate in senso genericamente programmatico al tempo del primo governo Moro di "centrosinistra organico" (1963), nell'anno in cui si emanarono norme per la tutela delle donne lavoratrici (ad esempio vietando il licenziamento per causa di matrimonio o consentendo l'accesso delle donne ai pubblici uffici e alle professioni), molte delle riforme sulla cui proposizione andava condensandosi l'attenzione socialista furono di fatto "congelate" dopo i fatti del luglio 1964 (Piano Solo) e sarebbero riapparse con vigore qualche anno dopo.
Il percorso che sarebbe sfociato nell'emanazione dello Statuto in fondo si lega principalmente ad una paternità socialista a latere della quale si registrarono adesioni minori di altri partiti o di correnti o di isolati esponenti di altri.
Con ovvi obiettivi di consolidamento del seguito elettorale, e quindi di rafforzamento del proprio peso all'interno delle coalizioni, ma non senza effettiva determinazione a raggiungere una norma definitiva, fu il partito di Nenni a premere perché la regolamentazione si frapponesse come argine al dilagare del disordine di questa materia, e ne fece cavallo di battaglia reputando che potesse essere la battaglia capace di condurlo alla guida del Paese.
Dopo la legge 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle norme in materia di infortuni e malattie professionali), dopo la legge 21 luglio 1965, n. 903 (che introduceva le pensioni di anzianità e istituiva la pensione sociale) dopo la legge 15 luglio 1966, n. 604 (che regolava la materia dei licenziamenti), tutte promosse da questo partito, vi era ancora da registrare normativamente la posizione guadagnata dai sindacati e la nuova figura di lavoratore che pareva emergere dalle loro elaborazioni; l'interessamento sarebbe stato anche strategicamente utile per "scippare" una tematica fondamentale al Partito Comunista, l'altro grande partito della sinistra con cui il PSI era sovente in disaccordo e talvolta in aperto scontro. Paralellamente, perciò, ad azioni sul fronte della previdenza sociale e su fronti di altra prevedibile rilevanza nazionale, come ad esempio la campagna per il divorzio, i socialisti esercitarono fortissime pressioni perché le azioni normative in materia agraria (1964), peraltro anch'esse oggetto di animate (ed animose) polemiche, venissero corroborate da analoghe azioni sul lavoro in generale.
Di particolare rilievo in questo senso, per quanto oggettivamente poco ricordata, fu l'opera di Giacomo Brodolini, sindacalista socialista che fu ministro del lavoro e della previdenza sociale e che legò il suo nome sia ad una riforma del 1969 proprio della previdenza sociale (la c.d "riforma delle pensioni", passate dal sistema "a capitalizzazione" a quello "a ripartizione"), sia all'abolizione delle c.d. "gabbie salariali", sia all'impulso più determinante per la codificazione della materia del lavoro. Richiese l'istituzione di una commissione nazionale per la redazione di una bozza di statuto (da lui nominato "Statuto dei diritti dei lavoratori)", alla cui presidenza chiamò Gino Giugni, allora solo un pur già noto docente universitario, ed un comitato tecnico di notevole spessore.
Il maggior promotore dello Statuto, Brodolini, non lo vide venire alla luce poiché morì poco dopo l'istituzione della Commissione, ed il maggiore merito di indirizzo nei lavori di questa viene generalmente attribuito al Giugni, che avrebbe in seguito dichiarato di essersi sempre fondamentalmente ispirato alle indicazioni di Brodolini.
Il contenuto
Il testo dello Statuto contiene norme relative a numerose previsioni specifiche, su alcune delle quali si sofferma in modo dettagliato. Si divide in un titolo dedicato al rispetto della dignità del lavoratore, in due titoli dedicati alla lbertà ed all'attività sindacali, in un titolo sul collocamento ed in uno sulle disposizioni transitorie.
Si nota che in primo luogo sancisce la libertà di opinione del lavoratore, che non può quindi essere oggetto di differenziazione dipendente da sue opinioni politiche o religiose e che, per un successivo verso, non può essere indagato per queste nemmeno in fase di selezione per l'assunzione. Questi passi trovano una loro spiegazione di migliore evidenza segnalando che nel dopoguerra si verificarono numerosi casi di licenziamenti di operai che conducevano attività politica o che anche indirettamente si rivelavano militanti di forze non gradite.
L'attività lavorativa, l'apporto operativo del lavoratore sono poi svincolati da alcune forme di controllo che la norma giudica improprie, e si ha quindi il divieto imposto al datore di lavoro di adibire alla vigilanza sull'attività lavorativa le guardie, così come è vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Anche le visite personali di controllo sul lavoratore, praticamente le perquisizioni all'uscita del turno (principalmente effettuate per verificare che il lavoratore non si sia appropriato di beni prodotti o di altro materiale di proprietà dell'azienda), sono sottoposte a limitazioni di dettagliata rigorosità.
Al fine di limitare inoltre impropri eccessi del datore di lavoro, eventualmente risultanti in indebite pressioni, sono vietati accertamenti diretti da parte del datore di lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, delegando agli enti pubblici competenti tali accertamenti (visita fiscale).
Dopo lo Statuto
La rivoluzione giuridica causata dallo Statuto nelle materie del lavoro fece risorgere e sviluppare lo studio di questa particolare branca del diritto (di antica dottrina, solo interrotta dalla parentesi fascista in cui si chiamava diritto corporativo) con approfondimenti ora di vasta portata.
Del resto, la nuova funzione della magistratura del lavoro, ricca di peculiarità e di differenziazioni dalle altre materie, richiedeva con sollecitudine la produzione di idoneo supporto interpretativo, e per un certo tempo dottrina e Fori marciarono di pari passo e con giovevole interazione.
Le magistrature del lavoro, va detto, subirono le non disinteressate attenzioni di alcune parti politiche, che si applicarono perché ad esse fossero destinati magistrati quantomeno non ostili alle inclinazioni di tutela della classe lavoratrice espresse dallo Statuto; si parlò direttamente, nel dibattito politico, di "colonizzazione" (più che di lottizzazione), e fu indicato il PCI come indiretto referente di una buona quota di tali giudici attraverso la corrente para-sindacale di Magistratura Democratica. Comunque fosse, dai dibattiti di categoria sortirono suggerimenti professionali ed indicazioni per la dottrina che proponevano la c.d. "interpretazione evolutiva" del diritto, segnatamente con riferimento all'ambito del diritto del lavoro; tale posizione, che parve al tempo condivisa da una parte rilevante dei magistrati del lavoro, suscitò discussioni di intuibilmente acceso carattere. Template:Diritto
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