Primavera croata

crisi politica nella Repubblica Federale di Jugoslavia
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La Primavera croata (in croato Hrvatsko proljeće, chiamata anche masovni pokret o MASPOK, cioè "movimento di massa") fu un movimento culturale e politico emerso attraverso la Lega dei comunisti croati alla fine degli anni '60. Il movimento si oppose all'integralismo politico, chiedendo riforme economiche, culturali e politiche nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia e rivendicando una maggiore autonomia e più diritti per la Repubblica di Croazia all'interno della Jugoslavia.

Emblema della SR Croazia
Savka Dabčević-Kučar, una delle figure più importanti della primavera croata; Primo capo di governo femminile d'Europa

Nel 1971, le autorità jugoslave, percependo la Primavera croata come una minaccia all'unità e alla stabilità dello Stato federale, reprissero duramente il movimento. Furono arrestati molti leader e attivisti del MASPOK, mentre vennero limitate le libertà politiche e culturali in Croazia. Questa repressione segnò la fine della fase più aperta e riformista del movimento, con un conseguente rafforzamento del controllo centralizzato da parte del governo jugoslavo.

Storia

Contesto storico

Gli anni '60 e '70 in Croazia furono segnati da una graduale emancipazione dalle politiche titoiste ancora vigenti in Jugoslavia dopo la Seconda guerra mondiale[1]. Nonostante la significativa resistenza da parte delle forze conservatrici, fu un periodo caratterizzato da importanti cambiamenti, tra cui le riforme economiche che, negli anni 1964-1965, diedero inizio a un modello di economia di mercato, e la democratizzazione della Lega dei comunisti della Jugoslavia tra il 1966 e il 1969, che attribuì un ruolo più rilevante alle leghe dei comunisti di ciascuna repubblica e provincia.[1][2]

Gli anni '60 videro anche l’ascesa delle scienze sociali nel paese: le discipline come le scienze politiche e la sociologia furono introdotte nelle università, nonostante la resistenza dei comunisti più puristi. Dopo aver studiato all’estero, in paesi occidentali, gli scienziati sociali introdussero il pensiero critico nelle università di provenienza, trasformandole progressivamente in centri di opposizione e di critica al regime, in particolare a Lubiana, Zagabria e Belgrado.[3]

Dopo aver subito significativa animosità e repressione da parte del regime negli anni '40 e '50, lo status della Chiesa cattolica in Croazia migliorò grazie alla democratizzazione del Paese, in particolare a seguito del Concilio Vaticano II (1962-1965) e dell’instaurazione di relazioni diplomatiche tra il Vaticano e la Jugoslavia nel 1966. A metà degli anni '60, gli eventi religiosi pubblici furono nuovamente permessi e il rapporto tra la Chiesa e lo Stato si basava su una reciproca tolleranza. Tuttavia, la Chiesa cattolica in Croazia non assunse un ruolo attivo nel movimento nazionale né negli eventi politici ad esso associati, pur mantenendo una solidarietà privata verso i riformisti.[4]

Richieste politiche

A seguito della rimozione di Aleksandar Ranković, nel marzo 1967 un gruppo di 130 eminenti poeti e linguisti croati, tra cui 80 membri del Partito Comunista, pubblicò la Dichiarazione sullo status e il nome della lingua standard croata.[1][2] Successivamente al 1968, gli obiettivi patriottici espressi in tale documento evolsero in un più ampio movimento per la rivendicazione di maggiori diritti per la Croazia, che ricevette un sostegno significativo a livello popolare, specialmente tra numerose organizzazioni studentesche che manifestarono attivamente il proprio appoggio alla causa.

Una generazione più giovane di politici riformatori all’interno delle organizzazioni del Partito comunista delle repubbliche federali contribuì a dare slancio al movimento, nel tentativo di superare il monopolio del Partito e di ampliare i diritti civili.[1] Tra i temi di rilievo emerse il diritto di essere orgogliosi della propria storia nazionale, una questione che irritò profondamente il governo comunista guidato dal presidente Josip Broz Tito. Tra le problematiche sollevate vi fu la pratica adottata dall’Esercito popolare jugoslavo di assegnare i giovani alla leva militare obbligatoria nelle repubbliche diverse da quella di origine, piuttosto che nelle proprie regioni natali.

Vi furono anche tentativi di portare all’attenzione delle autorità l’idea di annettere l’Erzegovina alla Croazia, in modo analogo alla Banovina della Croazia esistita nel Regno di Jugoslavia dal 1939 al 1941; tuttavia, tale proposta era ben distante dalle richieste avanzate dai leader del movimento. In realtà, queste aringhe rosse venivano frequentemente utilizzate per bollare come espansioniste e, in ultima analisi, separatiste, le legittime rivendicazioni relative al decentramento e all’autonomia.

Problemi economici

Nei primi giorni del movimento, la leadership politica croata espresse la richiesta di una democratizzazione e decentralizzazione dell'economia, che avrebbe permesso alla repubblica di tenere in Croazia per sé una maggior quantità dei profitti realizzati, invece di utilizzare le entrate del turismo e degli emigrati per evitare la rovina economica.[1][2]

I problemi economici in Jugoslavia contribuirono all'aumento dell'emigrazione economica, che colpì soprattutto la Croazia, nonostante il fatto che la maggior parte delle entrate dal turismo ed il 37% di tutti i lavoratori emigranti jugoslavi provenissero dalla Croazia.[1][2]

L'economista croato Vladimir Veselica divenne noto durante questo periodo per aver scritto di come la Croazia non fosse riuscita a trarre profitto dalla valuta estera che era entrata in Jugoslavia attraverso la Croazia, usando una quantità sproporzionatamente piccola di essa. [7] Una Banca nazionale indipendente della Croazia avrebbe consentito una più equa distribuzione degli utili. Rinunciando al diritto di utilizzare la banca federale di Jugoslavia, la repubblica avrebbe dovuto anche rinunciare al suo diritto di utilizzare il fondo federale per le regioni sottosviluppate.

Alla decima sessione del Comitato centrale della Lega dei comunisti della Croazia, svoltasi il 15 gennaio 1970, Savka Dabčević-Kučar presentò un documento di qualità su quella che lei descriveva come meschina retorica su come la Croazia veniva danneggiata in Jugoslavia. Il PIL pro capite croato del 1968 era del 25% superiore alla media nazionale, tra le altre statistiche positive. La Croazia utilizzò solo il 16,5% del denaro dal fondo federale di solidarietà tra il 1965 e il 1970, mentre il governo jugoslavo utilizzò il 46,6% principalmente per la regione meno sviluppata del Kosovo e Metohija. Vennero sollevate preoccupazioni anche per il monopolio della Jugoslav Investment Bank e della Bank for Foreign Trade di Belgrado su tutti gli investimenti e gli scambi con l'estero.[1][2] Il piano quinquennale della Jugoslavia del 1971-75 doveva essere adottato nel luglio 1970, ma fu rinviato a causa del conflitto inter-repubblicano, dell'inflazione elevata e della riorganizzazione amministrativa.[3] Nel mezzo del movimento, il Consiglio esecutivo federale congelò tutti i prezzi nel novembre 1971 per un periodo di quattro mesi.[4]

Disordini pubblici

Il movimento organizzò alcune manifestazioni nel 1971 e migliaia di studenti di Zagabria protestarono pubblicamente.

Tre linguisti croati, Stjepan Babić, Božidar Finka e Milan Moguš, nel settembre 1971 pubblicarono un libro di testo di ortografia e grammatica chiamato Hrvatski pravopis (ortografia croata), piuttosto che lo Srpskohrvatski (serbo-croato). Fu sommariamente vietato e praticamente tutte le copie furono distrutte. Tuttavia, una copia sopravvissuta arrivò a Londra dove fu ristampata e pubblicata nel 1972.[5]

La classe dirigente jugoslava interpretò l'intera faccenda come una restaurazione del nazionalismo croato, respinse il movimento come sciovinista e la polizia represse brutalmente i manifestanti. Nel 1971 la classe dirigente dell'Unione Sovietica esercitò un'ulteriore pressione su Tito per via diretta con Leonid Breznev e per via indiretta grazie ai suoi ambasciatori in Jugoslavia, per affermare il controllo del partito comunista all'interno della Stato, apparentemente aderendo alla dottrina di Breznev.[6]

Dopo le chiamate allo sciopero degli studenti, nel dicembre 1971 Tito persuase alcuni personaggi pubblici, a suo avviso inaffidabili, come Savka Dabčević-Kučar, Miko Tripalo e Dragutin Haramija, a rassegnare le dimissioni, ad unirsi al partito comunista croato e ad avere un ruolo nell'amministrazione locale. Secondo la stima di Tripalo, duemila persone vennero perseguite penalmente in Croazia nel 1972 e nel 1973 per la partecipazione a questi eventi.[7] Tra gli arrestati in quel momento vi erano il futuro presidente della Croazia Franjo Tuđman e il giornalista dissidente Bruno Bušić. Tra gli altri arrestati e condannati vi furono gli attivisti studenteschi Dražen Budiša, Ivan Zvonimir Čičak, Ante Paradžik e Goran Dodig, e membri di Matica hrvatska come Vlado Gotovac, Marko Veselica, Šime Đodan, Jozo Ivičević e Hrvoje Šošić. Nel 1972, più di 25.000 persone vennero espulse dalla Lega dei comunisti della Croazia. Le forze conservatrici sociali e politiche si impegnarono in una repressione che impedì le riforme finali che avrebbero reso la Jugoslavia una vera federazione di repubbliche e province sovrane, riducendo invece sia il concetto politico jugoslavo che la sua nomenklatura a una sorta di "socialismo reale" privo di potenziale.

Conseguenze

Nel 1974 fu ratificata una nuova costituzione federale che conferiva maggiore autonomia alle singole repubbliche, conseguendo sostanzialmente alcuni degli obiettivi del movimento croato della primavera del 1971.

Lo spegnimento ed il calo di importanza della primavera croata segnò l'inizio di un periodo noto come "silenzio croato" (Hrvatska šutnja), in cui i politici croati si astennero dal prendere una posizione più ferma nella politica federale, allineandosi con la Lega dei comunisti della Jugoslavia.[8] Questo periodo durò fino al 1989.[8]

Eredità

Diversi leader studenteschi della primavera croata sono successivamente emersi come influenti personaggi politici dopo il crollo del comunismo. Franjo Tuđman divenne il primo presidente della Croazia, Šime Đodan un membro del parlamento e ministro della difesa, Ivan Zvonimir Čičak il capo del Comitato croato per i diritti umani di Helsinki, Dražen Budiša il leader del Partito Social Liberale Croato e Savka Dabčević-Kučar, Miko Tripalo e Dragutin Haramija divennero membri fondatori del nuovo Partito popolare croato.

La quarta edizione del testo Babić-Finka-Moguš Hrvatski pravopis è oggi utilizzata come definizione standard della lingua croata, sebbene siano stati pubblicati anche altri manuali di ortografia e grammatica croati.

Note

  1. ^ a b c d e f g (HR) Dennison Rusinow, Facilis Decensus Averno, in Croatian Political Science Review, vol. 49, n. 3, Faculty of Political Science, University of Zagreb, ottobre 2012, pp. 52–55; 58, ISSN 0032-3241 (WC · ACNP). URL consultato il 7 maggio 2013.
  2. ^ a b c d e Dennison Rusinow, Crisis in Croatia: Part II: Facilis Decensus Averno (DIR-5-72), in American Universities Field Staff Reports, Southeast Europe Series 19, n. 5, settembre 1972.
  3. ^ a b Central Intelligence Bulletin, Central Intelligence Agency. 15 October 1970.
  4. ^ a b Central Intelligence Bulletin, Central Intelligence Agency. 29 November 1971.
  5. ^ (HR) Babić – Finka – Moguš: Hrvatski pravopis, 1971. (londonac), su ihjj.hr, Institute of Croatian Language and Linguistics. URL consultato il 17 gennaio 2017.
  6. ^ (HR) Ivo Banac, Kako su Rusi lomili Tita i slomili Hrvatsku, in Večernji list, 20 novembre 2011. URL consultato il 20 novembre 2011.
  7. ^ Tripalo, 1990, cited in Spehnjak, Cipek
  8. ^ a b Yugoslavia and World War II, su croatia.eu, Miroslav Krleža Institute of Lexicography. URL consultato il 19 giugno 2018.

Bibliografia

Ulteriori letture

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