Il programma spaziale zambiano nacque nel 1964 per iniziativa di Edward Makuka Nkoloso, un insegnante di scienze ed ex membro del movimento di resistenza zambiano. L'obiettivo dichiarato del programma, non ufficialmente sostenuto dal governo, era d’inviare il primo essere umano africano nello spazio extraatmosferico, prima sulla Luna e successivamente su Marte, anticipando o eguagliando le imprese delle superpotenze mondiali impegnate nella corsa allo spazio. Sebbene privo di finanziamenti, il progetto è storicamente significativo come simbolo delle ambizioni scientifiche e del clima ottimistico[1] che caratterizzò i primi anni dell'indipendenza dello Zambia, ottenuta il 24 ottobre 1964.

Contesto storico

In seguito all'indipendenza dello Zambia dalla Rhodesia[2], in un clima di rivalsa e di aspirazione a occupare il proprio posto sulla scena mondiale, Nkoloso fondò la Zambia National Academy of Science, Space Research and Philosophy[3]. L'Accademia, con sede a Lusaka, aveva lo scopo di promuovere l'avanzamento culturale e scientifico della nazione e il programma spaziale era, al suo interno, il progetto più ambizioso.

Al fine di perseguire il suo progetto, Nkoloso richiese formalmente un finanziamento di £7.000.000 sterline all'UNESCO, ma non lo ottenne mai[4][5]. Inviò, in seguito, lettere a Stati Uniti e Unione Sovietica richiedendo supporto per il progetto, senza mai ricevere risposta[4].

Il programma e gli "Afronauti"

I partecipanti al programma spaziale, da Nkoloso soprannominati Afronauti (dall'inglese afronauts), erano un gruppo di volontari. Tra di loro figurava Matha Mwamba, una sedicenne che Nkoloso candidò a prima donna africana a mettere piede sulla Luna[6].

Le metodologie d'addestramento, ideate da Nkoloso, erano una reinterpretazione, con risorse autoctone, di quelle sperimentate nei centri d'allenamento di astronauti e cosmonauti. Esse includevano:

  • Rotolare all'interno di un barile lungo un pendio, per allenare il corpo alle sollecitazioni del lancio e del rientro delle capsule spaziali.
  • Saltare la corda per lunghi periodi, per simulare la sensazione di assenza di gravità.
  • Oscillare su un'altalena e, al momento opportuno, tagliare la corda di sostegno onde sperimentare un breve volo in assenza di peso[7].

Il programma spaziale prevedeva di lanciare un razzo, battezzato D-Kalu 1 in onore del presidente Kenneth Kaunda, che avrebbe trasportato un lander con a bordo Mwamba e altri due afronauti, più due gatti[4].

Ricezione e impatto contemporaneo

Il programma non ricevette alcun riconoscimento o supporto ufficiale dal governo zambiano[8]. La copertura mediatica internazionale, all'epoca, trattò la vicenda per lo più con tono di curiosità o scetticismo, bollando spesso l'iniziativa come una stravaganza[6].

Nonostante la mancanza di fondi, nonché di esplicite carenze tecniche e scientifiche, il progetto di Nkoloso è stato interpretato, da storici e studiosi, come significativo per la sua valenza simbolica[3], tanto da trovare spazio nel National air and space museum dello Smithsonian.
Il programma è oggi visto come il tentativo concreto, seppur ingenuo, di affermare la capacità e l'autonomia di una neonata nazione africana di partecipare alle imprese più avanzate della scienza e della tecnologia [9].

Eredità culturale

La figura di Edward Nkoloso e la vicenda degli Afronauti ha ispirato numerose opere artistiche e culturali, contribuendo a una rivalutazione della sua importanza storica. Sebbene il programma non sia mai decollato, l’idea degli astronauti africani è diventata un simbolo culturale e ha ispirato artisti, storici e cineasti.
Il 20 aprile 2025, l’Unione Africana ha ufficialmente inaugurato la African Space Agency al Cairo[10] , realizzando — almeno in parte — il sogno visionario di Nkoloso [6].

Tra le opere artistiche più note ispirate alla storia degli afronauti, vi sono:

  • Il libro fotografico Afronauts (2012) dell'artista ispano-belga Cristina De Middel, che rielabora in chiave surreale e onirica la storia del programma spaziale[11].
  • Documentari e opere teatrali che hanno esplorato la vicenda, il suo contesto storico e il suo significato culturale per l'Africa contemporanea, come il cortometraggio The Afronauts (2014) di Frances Bodomo[12].

Note

  1. ^ Enrico Zerbo, Edward Makuka Nkoloso, l’uomo degli Afronauti che voleva portare lo Zambia tra le stelle, su Kulturjam, 14 ottobre 2024. URL consultato il 22 agosto 2025.
  2. ^ Zambia, su Encyclopædia Britannica. URL consultato il 22 agosto 2025.
  3. ^ a b Alexis C. Madrigal, Old, Weird Tech: The Zambian Space Cult of the 1960s, su The Atlantic, 11 ottobre 2010. URL consultato il 22 agosto 2025.
  4. ^ a b c My best shot: Cristina de Middel’s Zambia space programme, su The Guardian, 11 giugno 2014. URL consultato il 22 agosto 2025.
  5. ^ Zambia, anni '60: quando gli “afronauti” si allenarono per conquistare la Luna e Marte – Storia di un sogno infranto, su GloboChannel.com, 30 settembre 2024. URL consultato il 22 agosto 2025.
  6. ^ a b c The Story Behind the Zambian Space Program, in Smithsonian, 28 febbraio 2025. URL consultato il 22 agosto 2025.
  7. ^   CGTN Africa, Faces of Africa – Mukuka Nkoloso: The Afronaut, 2016. URL consultato il 22 agosto 2025.
  8. ^ Afronauts: Zambia's forgotten space program, su CNN, 2 maggio 2013. URL consultato il 22 agosto 2025.
  9. ^ Cristina de Middel on Afronauts and Factual Fiction, in Another Magazine, 17 giugno 2016. URL consultato il 22 agosto 2025.
  10. ^ (EN) African Space Agency – Sito ufficiale, su African Space Agency. URL consultato il 22 agosto 2025.
  11. ^ Space Race: ‘Afronauts,’ by Cristina de Middel, in The New York Times, 3 maggio 2013. URL consultato il 22 agosto 2025.
  12. ^ The Afronauts (2014), in IMDb. URL consultato il 22 agosto 2025.

Bibliografia

Voci correlate