Arte turistica kamba
L'arte turistica kamba è una produzione scultorea nata tra la prima e la seconda guerra mondiale all’interno del gruppo etnico kamba in Kenya.
Si tratta di un’arte pensata fin dall’inizio per la vendita, organizzata con metodi simili alla catena di montaggio, e distinta dall’arte kamba tradizionale, legata invece a funzioni cerimoniali e rituali.
Le origini
modificaL’iniziatore fu Mutisya Wa Munge, agricoltore di Wamunyu (distretto di Machakos), che negli anni venti iniziò a scolpire legno ispirandosi a modelli tanzanesi.
Durante la prima guerra mondiale Mutisya prestò servizio nei Carrier Corps britannici a Dar Es Salaam, dove conobbe la produzione scultorea degli Zaramo e dei Makonde. In quegli anni, grazie all’incoraggiamento dei missionari luterani, queste comunità avevano avviato il commercio di sculture in ebano.
Le opere zaramo, di tradizione più antica e forse influenzate dalla cultura swahili o da modelli singalesi, venivano distribuite attraverso i mercanti kamba, attivi anche in Tanzania. Le sculture makonde, documentate solo dal XIX secolo, si distinguevano invece in due stili: binadamu (“figli d’Adamo”), di carattere realistico e legato alla vita quotidiana, e shetani (“spiriti”), che raffiguravano entità spirituali e antenati.
Colpito dal valore economico di queste attività, Mutisya decise di imparare da autodidatta a scolpire il legno. Scelse lo stile binadamu, più vicino al gusto del mercato e distante dagli aspetti religiosi che non condivideva.
L’old style kamba
modificaRientrato a Wamunyu nel 1920, Mutisya adattò lo stile binadamu alle scene rurali keniote, dando vita a quello che oggi è chiamato old style kamba. Divenne presto un importante produttore e commerciante di sculture.
Queste sculture raffiguravano le popolazioni locali impegnate in attività quotidiane considerate “culturali”: una donna con un contenitore d’acqua sulla testa o con un bambino sulla schiena, un’altra intenta a pestare il grano, guerrieri con scudo e lancia, oppure anziani ornati di armi e gioielli seduti su sgabelli treppiede.
All’old style kamba appartengono anche le maschere raffiguranti il moran maasai, il giovane guerriero. Le linee geometriche delle maschere indicavano l’età: rughe marcate e fronte prominente segnalavano maturità o vecchiaia.
Mutisya inizialmente scolpiva solo poche ore al giorno, usando i guadagni per integrare le entrate agricole. Con il tempo trasformò l’attività in un lavoro a tempo pieno, insegnando la scultura a parenti e amici. Suo figlio Mwambetu divenne il principale commerciante di opere kamba, espandendo il mercato da Wamunyu fino a Mombasa e Nairobi.
La produzione under the tree
modificaTra le due guerre mondiali la scultura kamba si sviluppò nella fase chiamata “cottage industry” o “industria a domicilio”, nota localmente come produzione under the tree. Il nome deriva dal fatto che gli artigiani non lavoravano in casa, ma sotto gli alberi centrali del villaggio, spazi collettivi dove si insegnavano e trasmettevano abilità.
Il processo ebbe inizio quando numerosi apprendisti si radunarono intorno a Mutisya, producendo sculture realistiche sotto l’albero principale del villaggio, luogo simbolico della vita sociale kamba.
In quel periodo il Kenya divenne meta turistica per europei benestanti. Il mercato dei souvenir era inizialmente ristretto: turisti di lusso, ufficiali britannici e coloni europei residenti in Africa orientale. Le sculture raggiungevano i clienti tramite commercianti informali che fungevano da intermediari fra le zone rurali e i centri urbani, evitando ai visitatori il lungo viaggio verso i villaggi.
Fin dagli inizi, i gusti europei influenzarono la produzione. Le statuette di Maasai e Turkana riprendevano infatti i disegni realizzati dagli stessi europei.
Un’ulteriore spinta arrivò negli anni cinquanta, quando un commissario distrettuale segnalò il valore economico delle sculture e trovò nuovi contatti commerciali a Nairobi. Intanto il turismo crebbe rapidamente: dai 4.600 visitatori del 1946 si passò ai 26.000 del 1956. Molti artigiani decisero così di trasferirsi a Nairobi e Mombasa, dando origine al new style.
New style kamba
modificaIl nuovo stile comprende miniature degli animali incontrati nei safari: leoni, elefanti, rinoceronti, bufali, facoceri, giraffe, antilopi e zebre. Gli animali venivano rappresentati in posa statica, frontale e uniforme, risultato di un processo di imitazione reciproca fra scultori. Anche gli utensili domestici iniziarono ad essere decorati con figure di animali.
Per aumentare le vendite, gli artigiani introdussero piccole variazioni, come la rotazione della testa, creando pose più dinamiche. Grazie alla semplicità dei manufatti, era possibile produrne e venderne molti nello stesso giorno. Le opere venivano esposte sotto gli alberi delle città finché, nel 1960, le autorità locali non vietarono questa pratica, considerata disordinata. Molti scultori tornarono nei villaggi, altri si unirono dando vita alle prime cooperative.
Le cooperative artigianali
modificaCon l’indipendenza del Kenya (1963), il turismo cambiò volto: non più viaggiatori di lusso, ma soprattutto esponenti del ceto medio. Un rapporto della “International Bank for Reconstruction and Development” del 1963 indicò proprio il turismo europeo di massa come nuova risorsa economica per il paese.
Il governo investì in infrastrutture, creò parchi naturali per i safari e località balneari, attirando una clientela sempre più ampia. I lavoratori stranieri impiegati in settori come ingegneria, architettura, sanità e arte diventarono a loro volta consumatori delle sculture kamba, rendendo inutile la mediazione dei commercianti non africani.
L’espansione del mercato rese necessaria una produzione su larga scala. Per i kamba non fu una novità: già dal XIX secolo commerciavano prodotti agricoli e ornamenti in avorio fino alla costa e alla Tanzania. Ma questa volta introdussero innovazioni decisive: nuovi strumenti più piccoli e maneggevoli, la fotografia come modello per opere più realistiche e soprattutto la catena di montaggio.
Il lavoro, un tempo svolto da un singolo artigiano, fu suddiviso in fasi ripetitive affidate a mani diverse. Ne derivò un notevole aumento della produttività, con una vera e propria arte di massa realizzata secondo principi di economia di scala.
In questo contesto nacquero tre cooperative, tuttora attive nel mercato dell’arte turistica keniota:
- Akamba Handicraft Industry (Mombasa, 1963)
- Nairobi Handicraft Industrial Cooperative Society (1968)
- Akamba Industries Cooperative Society (Wamunyu, 1975, dopo due tentativi falliti nel 1951 e 1965)
Le cooperative artigianali furono create con l’obiettivo di sviluppare un monopolio sulla produzione e sul commercio delle sculture kamba, oltre che di ottenere un riconoscimento internazionale del made in Kenya. La loro forza stava nell’unione tra finalità economiche e culturali, che spinse centinaia di artigiani ad associarsi per condividere i benefici di questa nuova istituzione socioeconomica.
Organizzazione
modificaLa struttura sociale delle cooperative ricalca il modello gerontocratico tradizionale kamba, fondato su classi d’età e clan patrilineari agnatici.
I laboratori, in paglia o muratura, sono divisi in due zone: una interna per gli artigiani professionisti, anziani ed esperti, e una separata per apprendisti e rifinitori[1]. Ogni laboratorio è contrassegnato dal nome del clan e del villaggio d’origine, esposto su una targa all’ingresso.
L’area più vicina all’entrata, visibile ai clienti, ospita lo showroom per l’esposizione e la vendita, mentre nella parte interna si trovano gli uffici amministrativi.
La gestione è affidata a una commissione centrale composta da presidente, vicepresidente, segretario e tesoriere. In teoria ogni artigiano potrebbe aspirare a queste cariche, ma di fatto le elezioni avvengono nelle assemblee claniche, per cui la leadership resta quasi sempre in mano ai capiclan, a immagine dello nzama, il consiglio degli anziani.
Con l’aumento dei guadagni emersero però difficoltà gestionali: le cooperative necessitavano di figure professionali come contabili, ragionieri e dirigenti per amministrare entrate, ordini, esportazioni, sussidi e aiuti privati. Gli anziani, pur consapevoli di questa esigenza, guardavano con sospetto a una direzione affidata esclusivamente ai giovani.
Poiché i laureati kamba erano pochi, la gestione finì nelle mani di giovani ragionieri costretti a coprire più funzioni, ma comunque vincolati dall’autorità degli anziani.
Entrare in cooperativa offriva quattro vantaggi principali: condizioni di lavoro migliori (spazi più confortevoli e illuminati), vendite più ordinate, approvvigionamento sicuro di legname e contatti commerciali garantiti.
Rapporto con il territorio
modificaGli artigiani kamba utilizzano soprattutto ebano (mpingo), mogano (muhugu) e ulivo (mutamayu) provenienti dalle foreste governative. Accanto a questi, impiegano altri legni duri locali come mutamayo e kyōwa, oltre ad alcuni legni morbidi.
Il problema maggiore è la scarsità di legname, dovuta alla progressiva desertificazione della regione. Per contrastare la deforestazione[2], il governo consente a ogni laboratorio di acquistare solo tre tronchi al mese. La scorta si esaurisce presto e molti artigiani sono costretti a rifornirsi nelle foreste di Ngong e Karura, con costi di trasporto elevati. A questo si aggiunge la difficoltà di verificare la qualità del legno: non è raro acquistare tronchi che, una volta tagliati, risultano marci all’interno.
Le cooperative, grazie a rapporti diretti con fornitori autorizzati come “Malindi Musau Partners” e “Nganza Partners”, permettono agli artigiani di accedere a quantità di legname adeguate e a prezzi più bassi.
Garantiscono inoltre la vendita tramite showroom interni e contatti diretti con i turisti. Tuttavia solo il 30% della produzione viene venduto negli spazi della cooperativa, mentre il restante 70% è affidato a contatti commerciali esterni e mediatori attivi nei mercati e nei negozi delle principali città turistiche.
Per questo alcuni artigiani, specie quelli con solidi rapporti commerciali, scelgono di restare indipendenti, legandosi a intermediari come “Malindi Musau”. Altri preferiscono entrare gradualmente in cooperativa, beneficiando subito di alcuni vantaggi in cambio della promessa di un’iscrizione futura.
Una quota crescente di guadagni proviene dalle esportazioni verso Stati Uniti, Europa e Asia: esse costituiscono il 15% degli introiti della cooperativa di Changamwe e il 35% di quella di Wamunyu.
In cambio dei benefici, le cooperative stabiliscono quantità, qualità, stili e temi delle sculture, applicando un rigido controllo di qualità. Solo i manufatti conformi sono destinati alla vendita o all’esportazione.
Ruolo delle cooperative
modificaLe cooperative funzionano anche come agenzie di mercato, fissando i prezzi in base all’abilità e all’esperienza dell’artigiano, alla quantità di lavoro e di legno impiegata, all’uniformità rispetto agli stili richiesti e al tipo di canale commerciale. In generale privilegiano la vendita a basso costo di pezzi semplici e non rifiniti, poiché il profitto dipende dal numero di opere prodotte ogni giorno[3], più che dalla qualità di un singolo pezzo o dal tempo investito. Di conseguenza gli artigiani vengono spinti a specializzarsi su pochi soggetti ripetuti.
Infine, la cooperativa svolge un ruolo di assistenza sociale: garantisce piani pensionistici e sanitari, concede crediti, stipula assicurazioni sul lavoro e sulla vita. Sostiene anziani privi di esperienza e giovani che hanno lasciato la scuola, offrendo protezione e aiuto economico oltre che opportunità di lavoro.
Le cooperative kamba sono dunque al tempo stesso imprese economiche e istituzioni sociali. Le tre principali cooperative keniote condividono queste caratteristiche generali, pur presentando ognuna peculiarità proprie.
Akamba Handicraft Industry
modificaL’**Akamba Handicraft Industry**, oggi una delle principali attrazioni turistiche della costa keniota, è la cooperativa più antica e con il maggior numero di iscritti.
Nacque nel 1963, quando gli artigiani di Mombasa si trasferirono dal centro cittadino al sobborgo di Changamwe, acquistando un terreno e creando il nuovo complesso.
All’ingresso si trova lo showroom, pensato per attrarre i turisti con la varietà e la qualità delle sculture. Seguono gli uffici amministrativi, gestiti da una commissione centrale eletta ogni due anni e composta dai membri anziani dei clan. Nella parte più interna si trovano i recinti di paglia, suddivisi per clan, dove gli artigiani lavorano il legno.
Questa cooperativa si distingue per una netta divisione del lavoro: rifinitori, levigatori e apprendisti sono separati dagli scultori. L’apprendistato è molto severo: chi non raggiunge un buon livello tecnico non può entrare nella cerchia interna. Pagando la quota d’iscrizione, ogni artigiano ottiene libero accesso agli spazi e al legname.
L’Akamba Handicraft Industry ha anche il miglior approvvigionamento di legname: la disponibilità di legni morbidi locali rende il problema delle materie prime meno grave che altrove.
Il suo successo commerciale, ieri come oggi, è legato ai finanziamenti del *Ministry of the Cooperatives*, alle quote di iscrizione, agli affitti pagati dai non membri e al 15% del profitto personale trattenuto dalla cooperativa. Inizialmente, nel 1963, molti artigiani erano riluttanti a rinunciare a parte dei guadagni per benefici incerti, ma con il tempo le vendite sono cresciute così tanto che l’adesione è diventata molto ambita.
Akamba Industries Cooperative Society
modificaLa cooperativa di Wamunyu, considerata la “culla” della scultura kamba, fu fondata nel 1951 con il sostegno di un commissario distrettuale. Chiuse già l’anno successivo per cattiva gestione e per l’accumulo di manufatti invenduti. Un secondo tentativo nel 1965 fallì per gli stessi motivi: isolamento commerciale e scarsa capacità di marketing. Gli artigiani continuarono quindi a vendere le proprie opere a intermediari asiatici attivi a Nairobi.
Il terzo tentativo, nel 1975, ebbe finalmente successo. La nuova **Akamba Industries Cooperative Society** attirò numerosi artigiani, che investirono acquistando quote della cooperativa. L’obiettivo era rilanciare l’economia di Wamunyu e far tornare chi era emigrato per mancanza di lavoro.
Negli anni 1980 la crescita fu sostenuta dai fondi del *Machakos Integrated Development Programme*, della *KETA* (Kenyan External Trade Authority) e del *Ministry of the Cooperatives*. Anche qui, come a Changamwe, la cooperativa trattiene il 15% dei guadagni annui di ogni artigiano.
Oggi la cooperativa di Wamunyu non soffre più di accumuli nei magazzini: tutta la produzione trova mercato, grazie anche alla vicinanza con Nairobi.
Nairobi Handicraft Industrial Cooperative Society
modificaLa cooperativa di Nairobi, fondata nel 1968, occupa quattro magazzini in affitto nella zona di Punwani. L’affitto è la voce di spesa più pesante, e le condizioni di lavoro restano difficili: spazi piccoli e bui, artigiani costretti a lavorare nei vicoli tra i magazzini, disturbati dal via vai di mercanti e passanti.
Gli artigiani non riescono ad acquistare terreni propri, poiché la cooperativa non ottiene prestiti governativi a causa delle sue partnership con imprese private come la *Mutua Brothers Partnership* e il *Makonde Carving Shop*. Per il *Ministry of the Cooperatives* questa dipendenza da intermediari dimostra scarsa autonomia gestionale. L’unica via d’uscita sarebbe l’acquisto di spazi propri, ma senza prestiti resta un obiettivo difficile.
La Nairobi Cooperative soffre anche la maggiore carenza di legname. I pochi tronchi disponibili devono essere divisi tra artigiani esperti, non membri e giovani produttori di pettini, entrati nel mestiere per necessità economica. Questa distribuzione, pur criticata, non viene mai messa in discussione: la cooperativa adotta una politica “open-door”, offrendo lavoro e sostegno ai giovani disoccupati che lasciano la scuola. In questo modo la funzione sociale, di accoglienza e protezione, viene considerata importante quanto la valorizzazione dei professionisti.
Molti artigiani non lavorano nei magazzini, preferendo produrre in campagna e raggiungere periodicamente la capitale per acquistare legname e vendere i manufatti.
Oggi
modificaTra anni Settanta e Ottanta nacque l’idea di una fondazione intercooperativa che unisse le tre principali cooperative, ma le rivalità interne e il timore di sfruttamento reciproco ne bloccarono a lungo la realizzazione. La cooperativa di Nairobi, in particolare, era considerata poco professionale: un punto di arrivo per i nuovi immigrati urbani, più che un centro di produzione. Qui trovavano lavoro temporaneo, cibo e riparo, in un contesto di socializzazione e sostegno sociale.
Nonostante le difficoltà, nel 1982 le tre cooperative maggiori, insieme ad altre minori, si unirono nella **KCCU** (*Kenya Craft Cooperative Union*). Oggi circa il 40-50% degli scultori kamba è affiliato a questa organizzazione nazionale.
Note
modifica- ^ Ruolo svolto soprattutto dalle donne, incaricate di levigare le superfici con carta vetrata e lucidare i manufatti con cera naturale, cera per pavimenti o lucido da scarpe.
- ^ In Kenya la deforestazione avanza a un ritmo di 5.000 ettari l’anno, causando perdite stimate attorno a 0,8 milioni di dollari. Dal 1957 il governo ha imposto restrizioni sull’abbattimento delle tre specie principali a lenta crescita usate dai kamba carver: ebano (Dalbergia melanoxylon), mogano (Brachylaena huillensis) e ulivo (Olea europaea). Ciò ha però favorito il disboscamento illegale, il monopolio dei middlemen nella distribuzione del legname e una percezione ridotta del problema ecologico, visto soprattutto come questione economica. Ne sono derivati aumento dei prezzi e sprechi di materia prima.
- ^ Ogni artigiano realizza in media 8-10 manufatti al giorno.
Bibliografia
modifica- Walter Elkan, “The Kamba Trade in Woodcarvings”, intervento presentato al *East African Institute of Social Research* (oggi *Makerere Institute of Social Research*), Kampala, Uganda, 1958.
- Jules-Rosette Bennetta, The Message of Tourist Art: An African Semiotic System in Comparative Perspectives, New York: Plenum Press, 1984.
- Jules-Rosette Bennetta, Aesthetics and Market Demand: The Structure of the Tourist Art Market in Three African Settings, *African Studies Review*, marzo 1986, Vol. 29, No. 1, pp. 41–59.